Come (non) poteva andare

Quanto leggete qui sotto è un resoconto di come il primo giorno dell’invasione russa in Ucraina (non) poteva andare. (Non) poteva andare così per tanti motivi, troppi motivi: alcuni hanno a che fare con la storia dell’Ucraina, alcuni con la storia della Russia – ma tutti mi sembra che abbiano a che fare con la storia di quasi tutti gli Stati del mondo, ossia con la storia di come siamo arrivati a questo punto della Storia.

Quindi così non poteva andare, il 24 febbraio 2022. Scrivere questa cronaca non vuole per me essere un modo sottile per biasimare quanto deciso dal governo ucraino, ma anzi un modo chiaro per sottolineare la differenza con quello russo. Infatti non scrivo di come l’invasione russa poteva non iniziare: ho passato la fase dell’incredulità e del diniego, e sono entrato nella fase dell’accettazione che il governo russo non avrebbe fatto diversamente. Visto che non è andato così, visto che così non poteva andare, ora non può che andare come sta andando. E ora il dilemma che lacera tanti (più o meno coerenti) su se e come armare l’Ucraina contro l’aggressione russa rimane presente, e nessuna delle due soluzioni soddisfa o tranquillizza.  

Ma visto che non è andato così, ragionare su come sarebbe potuto andare questo dannatissimo 24 febbraio 2022 penso possa aiutare per un motivo: non ci obbliga a un aut-aut doloroso, e anche se in maniera irrealizzabile ci permette di pensare che un altro modo di rispondere alla guerra è possibile – non lo è stato ora, non lo è stato in Ucraina, purtroppo. Rimane la speranza che un giorno questo resoconto sarà possibile. E che più in là, un altro giorno ancora più lontano, questo resoconto non debba mai più essere scritto.

24 febbraio 2022, ore 4:50

I carri armati della Federazione Russa hanno passato il confine con l’Ucraina, inziando l’invasione del paese. Nello stesso momento, aerei da guerra russi hanno iniziato a bombardare strutture militari ucraine. Il presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, ha dichiarato l’inizio di un’operazione speciale delle forze armate russe, volta a demilitarizzare e denazificare l’Ucraina.

Il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelenskyy, in un disperato appello al mondo, ha dichiarato:

“Il governo della Federazione Russa ha fatto un enorme errore decidendo di invadere l’Ucraina. Ne pagherà le conseguenze. Putroppo anche i cittadini russi ne pagheranno le conseguenze. Esorto la comunità internazionale a fare tutto il possibile per costringere il governo russo a fermare questa invasione criminale. Ma io non posso permettere che i civili ucraini soffrano per questa guerra; non posso permettere che una sola casa, scuola, chiesa, ospedale o mercato venga distrutto da bombe sempre più imprecise, da incendi, da lanci di razzi GRAD. Non posso permettere che una singola persona venga uccisa da un proiettile, mentre cerca di proteggersi e di sopravvivere. Non posso permettere che i cittadini ucraini, molti dei quali già hanno vissuto le tragiche conseguenze di più di una guerra, molti dei quali sono memori degli orrori del holodomor e dell’occupazione nazista, molti dei quali hanno già dovuto lasciare le proprie case e inventarsi una nuova vita dopo il 2015 – non posso permettere che queste donne e uomini, giovani e anziani, debbano rivivere nuovamente questi orrori, questa paura, queste lacrime di angoscia. Tutto questo, non lo posso permettere. Per questo motivo, ho ordinato all’esercito di abbandonare le postazioni difensive, abbandonare le armi e le divise. L’esercito ucraino non combatterà con le armi. Il popolo ucraino non combatterà con le armi. Non vogliamo macchiare le nostre mani di sangue, fosse anche per difenderci da chi ci invade. Ogni soldato dell’esercito russo che invaderà il nostro paese sarà cacciato dall’Ucraina: ma non da un proiettile, non in una bara. Sarà cacciato dal senso di inutilità della sua presenza. Sarà cacciato dall’ostilità della popolazione. Sarà cacciato perché si guarderà allo specchio e vedrà un giovane uomo trasformato in un invasore e assassino. Tornerà a casa sua in Russia dalla sua famiglia con un’idea diversa: dell’Ucraina, della guerra, del suo governo che lo avrebbe mandato a morire. Questi soldati russi, nel futuro, saranno le vere armi della vittoria ucraina, della vittoria della pace, della libertà, della fratellanza tra i popoli. In una guerra non c’è niente da vincere: noi decidiamo di non combatterla. Vinceremo, tutte e tutti insieme, la pace. Saremo, tutte e tutti insieme, un esempio nel mondo: di come un popolo ha detto di no alla guerra, e ha vinto la pace.”

La comunità internazionale ha bloccato immediatamente l’operatività delle banche russe, e tutti i paesi che importavano gas dalla Russia hanno deciso di sospendere immediatamente le forniture, attivando un meccanismo di solidarietà che ha permesso ai paesi più esposti di limitare i danni. La crescita economica è stata messa in secondo piano, e le cittadine e i cittadini hanno accettato di limitare drasticamente il consumo energetico finché la Federazione Russa non ritirerà le sue truppe. Grandi manifestazioni popolari in tutto il mondo hanno espresso il totale rifiuto della guerra, a qualsiasi costo. Tutti i beni personali di politici e militari russi detenuti all’estero sono stati sequestrati, e un fondo speciale è stato creato per aiutare economicamente la lotta nonviolenta ucraina e i movimenti contro la guerra all’interno della Federazione Russa, oltre che per fornire assistenza umanitaria a chi ne avesse bisogno. In un comunicato congiunto i presidenti degli Stati Uniti d’America, della Cina, dell’Inghilterra, della Francia, dell’India e del Pakistan hanno dichiarato giunto il momento per smantellare i propri arsenali nucleari non appena la Russia avrà ritirato le proprie truppe dall’Ucraina e accosentito a smantellare i propri.

All’interno dei confini della Federazione Russa, i lavoratori e le lavoratrici del comparto industriale hanno già indetto uno sciopero di 3 giorni per protestare contro l’invasione dell’Ucraina. Tutte le studentesse e gli studenti delle università sono scese in piazza, e varie iniziative sono nate per chiedere ai soldati dell’esercito di disertare e tornare a casa. I primi disertori, che hanno deciso di abbandonare da subito le armi, sono stati accolti come Eroi della Patria. I poliziotti, incaricati di sedare le proteste, si sono rifiutati di eseguire gli ordini contro cittadini inermi.

Nelle prime ore della sera, i primi carroarmati russi arrivati nei ditorni di Kyiv si sono trovati di fronte un muro immane di persone che ha fermato la loro avanzata. Incerti sul da farsi, i carristi hanno invertito la marcia, in attesa di nuovi ordini. Ma si parla già di ammutinamento, se verrà chiesto di sparare sulla folla. Notizie in attesa di conferma parlano di grandi manovre all’interno dei palazzi del governo russo, con la possibile destituzione del presidente Putin e l’indizione di nuove elezioni per l’estate prossima.

Appunti misti e angosciati

Mio nonno Luigi, padre di mia madre, fu ferito sul fronte orientale, e rimpatriato in Italia. Da quel poco che so, un compaesano di San Lorenzo in Banale l’aveva visto ferito in battaglia, e se lo era caricato sulle spalle portandolo nelle retrovie. Era il 5 novembre 1941. Il 79. Reggimento di Fanteria Divisione Pasubio stava provando ad aprirsi la strada verso sud-est, è trovò la resistenza dei corpi d’armata sovietici, attorno alla città di Horlivka, nel territorio dell’attuale Ucraina. Da Horlivka sono fuggiti molti dei miei ex-colleghi, amici e amiche ucraine, nel 2014, dopo che la città era rimasta nel controllo dei separatisti filo-russi e era stata bombardata, con tutta probabilità, dall’esercito ucraino. Si erano poi stabiliti a Sloviansk, e lì si erano ricostruiti a fatica una vita, anche lavorando nel settore umanitario. A Sloviansk ci siamo conosciuti.

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Avrei voluto raccontarla meglio, questa riscoperta famigliare di un parallelo storico. Avrei voluto raccontarla nella cornice di un lieto fine.

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Un’amica ucraina mi dice che, con la sua famiglia, è andata in una località sicura vicino a Sloviansk. È lo stesso luogo in cui aveva trovato rifugio nel 2014, scappando da Horlivka, e dove era rimasta con la sua famiglia per qualche mese. È un posto turistico, in tempo di pace. Ora sembra poter essere un po’ più sicuro del resto delle località, perché storicamente è un posto legato al passato sovietico e considerato filo-russo. Io penso ai compromessi enormi, alle scelte penose, a cui sono costretti ora i civili, per ritagliarsi un qualche tipo di sicurezza.

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Ieri, nell’inutile, angosciante leggere di notizie, mi sono chiesto cosa farei io, se quanto sta succedendo in Ucraina capitasse in Italia. Non ho mai avuto alcun spirito patriottico – ma qui non si parla solo di difesa della patria. Se qualcuno mi dovesse dire che l’Italia è un’invenzione storicamente inaccurata, gli direi che probabilmente ha ragione – tutti gli Stati sono invenzioni storicamente inaccurate. Se qualcuno dovesse dirmi che non ho il diritto a sentirmi e definirmi italiano, gli direi che le identità sono decisioni personali e collettive, e che non possono essere forzate. Se qualcuno dovesse insistere, e privarmi di un pezzo della mia identità, resisterei.

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Ho letto e visto varie notizie e video, tra ieri e oggi, forse troppi. In un video, un gruppo di ragazzi ucraini poco più che ventenni imbracciavano coraggiosi il loro fucile, e si dichiaravano pronti a combattere l’invasore con tutti i mezzi. Sono scoppiato a piangere alla fine del video, pensando che con tutta probabilità non avrebbero resistito che qualche minuto al combattimento, e sarebbero stati tutti uccisi. C’è il timore che l’esercito ucraino, se dovesse resistere, potrebbe procedere con un reclutamento obbligatorio di tutti i civili, presumibilmente di sesso maschile, abili a combattere. Sembra che armi siano già state distribuite alla popolazione civile. Mentre scrivo sembra che il ministro dell’interno ucraino stia condividendo informazioni su come preparare una bomba moltov, quelle fatte con una bottiglia di vetro, della benzina, olio e una miccia di carta. La storia è piena di civili di grande coraggio e ideale che si sono improvvisati militari, e sono morti.

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Mi viene in mente Kapuscinski, La prima guerra del futbol. Non ho con me il libro e vorrei averlo. Mi viene in mente per due motivi: per la storia di Chato Peredo e del suo reparto partigiano in Bolivia di 75 ragazzi improvvisati militari, sterminati da fame e malattie nella foresta; per la guerra del futbol, tra Honduras e Salvador, con soldati che si ammazzavano parlando la stessa lingua. Ieri la base militare ucraina posta sull’Isola dei Serpenti, nel mar Nero, è stata attaccata da un nave russa: prima di lanciare l’attacco, il comandante della nave russo ha intimato, in russo, la resa. I quattro soldati ucraini a difesa della base, in russo, lo hanno mandato affanculo. Sono tutti morti, e saranno eroi della patria.

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È forse il giorno più catastrofico e preoccupante della mia vita. Ho l’impressione che tante delle cose che ho studiato, vissuto, nelle quali ho creduto, siano a un punto di rottura storica. Certamente è uno dei giorni più catastrofici e preoccupanti della vita di tante persone a Kyiv, a Lviv, a Kharkov, a Mariupol, a Sloviansk. Sono seduto in un caffè di Amman: è venerdì, le strade sono poco trafficate come al solito in concomitanza con la preghiera del venerdì, piove, e tutto sembra così terribilmente normale.

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Mi chiedo cosa pensi Volodymyr Oleksandrovyč Zelens’kyj, che fino a cinque anni fa era una star della televisione, un attore comico, e oggi è braccato dalle truppe della Federazione Russa come fosse il peggior criminale della storia. Forse che la vita può essere veramente strana.

Un nuovo saluto

Un ultimo sguardo, (*), all’arredamento…

Il monolocale nel quale ho vissuto in questi ultimi sei mesi era relativamente semplice: una cucina, una stanza principale, un piccolo bagno, ingresso e balcone. L’appartamento era stato recentemente ristrutturato, e penso di esserne stato il primo inquilino. C’è uno stile abbastanza diffuso in Ucraina, quantomeno qui nell’est, nel rinnovare gli appartamenti costruiti negli anni Settanta: il pavimento è in piastrelle lucide, 60×60, di finto granito; le pareti sono coperte di una carta parati ruvida e brilluccicante, di un bianco tendente al crema; il soffitto è tutto contro-soffittato, con un discutibile pannello traslucido e vagamente riflettente, dal quale spuntano troppi punti luce non necessari, e con l’inconveniente di non essere fisso, ma flessibile ai giri d’aria; il balcone è chiuso a mo’ di veranda, con una struttura di plastica e grandi finestre in vetro. Quasi tutti gli appartamenti rinnovati recentemente che ho visto hanno queste caratteristiche in comune. Il mio non era tra i migliori, che l’arredamento e la distribuzione degli spazi lasciavano un po’ a desiderare: il bagno, nel quale spiccava un box doccia semicircolare di vetro decorato con fantasie bianco e nero, era male organizzato, con un mobile di pseudo design moderno con un lavabo ovaloide quasi a ostruirne l’ingresso; la stanza principale era un rettangolo perfetto, vuoto, senza una minima separazione di zona giorno e notte (tanto che, dopo un mesetto, avevo deciso di spostare il grande armadio a specchio in mezzo alla stanza, per nascondere un poco il divano-letto verde oliva dai raggi del sole mattutini); la cucina era estremamente basilare, e non aveva un forno, ma aveva un tavolo sghimbescio dondolante a tre gambe. Quando visitai l’appartamento per la prima volta, la coppia che lo affittava (lei di Sloviansk, lui nato nel territorio dell’odierna Federazione Russa) insistette molto per farmi avere una televisione, noncurante delle mie opinioni a riguardo: per sei mesi una televisione enorme e un po’ vecchiotta è rimasta a impolverarsi, sempre spenta, sulla cassettiera in soggiorno.

*commosso

Ieri ho ripulito il monolocale, ho riempito le due valigie che mi sono portato dietro con tutto quello che contenevano quando sono arrivato, né più né meno. Nel chiudere la casa, ricontrollando ogni cassetto, ho provato un certo senso di dispiacere. Lasciare l’Iraq o il Sud Sudan è stato diverso: ero in una guesthouse, un posto comune a tanti altri, non mio soltanto. Non dovevo chiudermi la porta alle spalle e consegnare la chiave, che qualcuno l’avrebbe fatto per me. Se a Juba o a Erbil ho vissuto da expat, da lavoratore internazionale di un’organizzazione umanitaria, qui a Sloviansk ho avuto l’impressione di potere essere meno legato a quest’etichetta, più libero di vivere una vita normale. L’appartamento in cui ho vissuto ha fatto la sua parte, e per quanto lo abbia criticato, mi ha aiutato a sentirmi meno straniero: vivevo in un posto come tanti, in una città senza divisioni di posti, in mezzo a ricchezze e povertà non equamente divise, ma tutte reali. È una sensazione strana: ho lavorato in un contesto umanitario molto diffuso e in declino, dove ogni città (Sloviansk, Severodonetsk, Kramatorsk, Kostantinivka, Bakhmut) ha una sua piccola presenza di lavoratori internazionali, ben diluiti nella popolazione locale, tanto da essere quasi invisibili. Questo permette – se lo si vuole, e io ci ho provato – di sentirsi meno esclusi, meno privilegiati, più a contatto con il contesto. L’appartamento in Улица Университетскаиа 48, al primo piano, mi ha accolto immediatamente, al mio arrivo in marzo, e nel lasciarlo l’ho ringraziato, un po’ commosso.

… e chi si è visto si è visto

Avrei voluto passare almeno una giornata a Kyiv, prima di lasciare l’Ucraina. Ci ho passato invece poco meno di una notte, ma sono contento sia andata così. Avrei voluto prendere il treno notturno delle 23 da Sloviansk, il venerdì, ma non c’erano più posti: ho dovuto scegliere tra il treno pomeridiano di venerdì o quello di sabato. Ma venerdì l’organizzazione per la quale lavoro aveva organizzato un ritrovo informale di tutti i colleghi, sulla riva di uno dei tanti laghi della regione, e mi sarebbe dispiaciuto andarmene via a metà giornata per prendere un treno di corsa. Al ritrovo ho potuto parlare con colleghe e colleghi con cui avevo avuto poche occasioni di incontro, e ho potuto salutare, per quanto possibile individualmente, ogni persona con la quale ho lavorato in questi sei mesi. Di questo sono particolarmente contento: nonostante la difficile comunicazione a causa dei miei limitati progressi linguistici con chi parla solo russo e ucraino , ho sentito e provato un certo affetto a salutare molte delle colleghe e dei colleghi con cui ho passato questi ultimi sei mesi. Sloviansk è un altro puntino sulla cartina del mondo che difficilmente rivedrò, e fa sempre un po’ impressione distaccarsi da un presente molto vivo e immaginarlo già passato.

Take it on the other side (prima parte)

Turn me on, take me for a hard ride
Burn me out, leave me on the other side
I yell and tell it that it’s not my friend
I tear it down, I tear it down
And then it’s born again

Otherside, Red Hot Chili Peppers

Sono a Stakhanov, nella Repubblica Popolare di Luhansk, o Kadiivka, in Ucraina. È la prima (e l’ultima, almeno per ora) volta che attraverso lo strano fronte diventato un confine che separa i territori controllati dal governo ucraino (GCA, government controlled areas) da quelli controllati dalla Repubblica Popolare di Luhansk e della Repubblica Popolare di Donetsk (ma internazionalmente riconosciuti come NGCA, non government controlled areas). Sottointesa è una delle cose che ancora non capisco di questo conflitto: la parte che ha deciso di separarsi dall’Ucraina e diventare indipendente (e dipendente dalla Federazione Russa) non è un’unica entità, ma si divide in Repubblica Popolare di Luhansk (quella dove sono al momento) e Repubblica Popolare di Donetsk (in quella non potrò mai andarci, penso). Ognuna ha il suo governo e le sue regole; e infatti in una le organizzazioni internazionali possono ancora lavorare, nell’altra sono bandite tutte. La divisione è talmente reale che ci sono dei punti di frontiera tra le due Repubbliche: da qualche mese i movimenti tra le due Repubbliche sono diventati più semplici, ma durante i momenti peggiori della pandemia il passaggio era pressoché vietato.

Attraversare la linea di contatto

La linea di contatto (ossia, la linea del fronte) che taglia in due il Donbass e i due oblast (regioni) di Donetsk e Luhansk ha cinque punti di possibile attraversamento, tre verso la Repubblica Popolare di Donetsk e due verso la Repubblica Popolare di Luhansk. Nel 2019, tredici milioni di persone hanno attraversato uno di questi punti, in entrata o in uscita. Nel 2020, questo numero si è drasticamente ridotto. La pandemia da COVID-19 è stata la scusa perfetta per limitare qualsiasi spostamento tra le Repubbliche e il territorio ucraino. Solo uno dei cinque punti di attraversamento è rimasto aperto, nella Repubblica Popolare di Luhansk – il valico di Stanytsia Luhanska, da cui possono passare solo i residenti della Repubblica Popolare di Luhansk. Chi vive nella Repubblica Popolare di Donetsk e vuole (o spesso, deve) rientrare in Ucraina, è costretto a prendere un giro un po’ più largo: entrare in Russia nei pressi di Rostov-on-Don, e rientrare in Ucraina a Milove, a nord di Luhansk. Fino a qualche settimana fa chi attraversava il confine in questo modo veniva multato dalle autorità ucraine (l’accusa era quella di non avere attraversato il confine in maniera regolare). Ora, anche grazie alle pressioni delle organizzazioni umanitarie, nessuno rischia più di essere multato. Per avere un’idea del percorso che molti devono fare, aprite GoogleMaps, e calcolate il tragitto tra la città di Donetsk e la città di Mariupol. GoogleMaps ignora la presenza di una linea del fronte tra le due città: viaggiando sul percorso suggerito, in un’ora e cinquanta minuti avreste coperto i 113 chilometri che separano le due città. Ora modificate il percorso con queste destinazioni intermedie, rispettando l’ordine: Donetsk-Rostov on Don (Russia)-Milove (Ucraina)-Kramatorsk-Velyka Novosilka-Mariupol. Fanno quindici ore di viaggio ininterrotto, per un totale di 1040 chilometri. Ah, non è che uno da Donetsk vuole andare a Mariupol per turismo, per quanto a Mariupol ci sia il Mare di Azov: molti dei servizi amministrativi che prima si trovavano a Donetsk sono stati spostati a Mariupol, quindi i cittadini ucraini (ma residenti a Donetsk) sono costretti a raggiungere Mariupol per pratiche burocratiche di vario genere.

Stanytsia Luhanska

Stanytsia Luhanska è il nome del paese nel quale si trova l’ultimo punto di attraversamento al momento aperto. È quasi al confine con la Federazione russa, all’estremo orientale dell’Ucraina – circa tre ore di macchina da Sloviansk. L’attraversamento si compone di tre parti: i controlli dell’esercito ucraino, una camminata di un chilometro nella terra di nessuno, e i controlli dell’esercito della Repubblica Popolare di Luhansk. 

La prima parte ha degli elementi alquanto familiari: sembra un po’ di stare in un areoporto all’aperto, un areoporto controllato e gestito da militari con il kalashnikov di ordinanza addosso, anche nei vari uffici dove i vari documenti vengono scansionati e controllati. C’è anche il classico tavolaccio per il controllo dei bagagli, e due splendidi cani anti-droga (un pastore tedesco e un labrador assonnato), e le classiche domande retoriche di un posto di frontiera (quanti soldi hai addosso, stai trasportando droga o qualcosa di illegale). 

La seconda parte dell’attraversamento è affascinante, ed è difficile da descrivere: si cammina per un chilometro circa attraverso la terra di nessuno, su una strada stretta perfettamente asfaltata che farebbe pensare a una pista ciclabile immersa nel verde, se non ci fossero su entrambi i lati della strada i cartelli rossi, romboidi, con sopra disegnato un teschio, a indicare la presenza di mine. A ogni lampione svetta una bandiera ucraina, e attorno a noi camminano alcune famiglie: c’è un bambino in monopattino che gioca a superarci, poi si ferma, poi ci supera ancora. Anche la sorellina ha un monopattino, più piccolo, e cammina a fianco a sua madre, pochi passi dietro di noi. Al termine dei lampioni con la bandiera ucraina, c’è un ponte di ferro sopra un fiume che scorre calmo, immerso tra gli alberi; le bandiere cambiano colore, non sono più giallo e blu ma azzurro blu e rosso. Ci si avvicina al territorio controllato dalla Repubblica Popolare di Luhansk. All’inizio del ponte una donna aspetta l’arrivo dei suoi famigliari: mi giro un attimo per osservarla, in tempo per vedere la bambina scendere dal monopattino, gridare “Nonna!” e correrle incontro, abbracciandola. Non è una scena inusuale: ma in questo contesto, mi commuove.

Continua…

Babushka e patronimici

Babushka

Sotto casa mia – una palazzina grigia di quattro piani sulla strada principale del centro, con ingresso rialzato sul retro del palazzo, di fronte a uno sgarruppato cortile e parcheggio male organizzato – stazionano stabilmente, dalle sei alle otto di sera, tre babushka, tre nonnine. Che poi non penso siano poi così anziane, forse hanno da poco superato i settant’anni, forse sono alla soglia dei settant’anni. Si autodefiniscono nonnine (è una delle poche cose che capisco quando le incontro sulle scale e mi lasciano il passo, “пожалуйста, я бабушка” mi dicono, “passa prego, io sono una nonnina”) e aderiscono perfettamente all’ideale della nonnina di città. Ogni volta che torno a casa con qualcuno mi sento i loro occhi addosso, un po’ protettivi un po’ giudicanti: io le saluto, loro ricambiano all’unisono; ogni volta che chiudo il portone di ingresso con un poca attenzione, e questo sbatte pesante nel suo metallo militare grigio, sento il loro sguardo di disapprovazione sulla schiena, e sguscio dentro il palazzo senza voltarmi. L’altro giorno tornavo da una corsa, sudatissimo (l’estate qui è torrida): una di loro, la mia vicina di casa, si alza dalla panchina vedendomi arrivare, e mi fa cenno con la mano di avvicinarmi. Così faccio, e inizia una simpatica conversazione nella quale, in qualche modo, ci capiamo (la farò breve: ogni mese la babushka raccoglie 25 grivna da ogni appartamento della scala per pulire le scale – io non avevo ancora pagato il mese). Salgo a casa, mi faccio una doccia e scendo con le 25 grivna (ma ho solo un pezzo da 50, quindi pago per due mesi), e a quel punto colgo l’occasione per chiedere come si chiamino, le mie babushka: avrei fatto fatica a ricordarmene tre, di nomi, così concentrato com’ero nel non sbagliare di troppo le mie poche frasi in russo per bofonchiare un “меня завут даниеле”. Di nomi però me ne arrivano sei. Ovviamente, non ne ricordo mezzo.

Patronimici

Eppure lo avrei dovuto sapere, che di nomi me ne sarebbero arrivati sei, e non tre. Anzi: da qualche mese speravo di avere la possibilità di presentarmi a una signora che, nel dirmi il suo nome, avesse aggiunto il patronimico. Irina Ivanov’na. Tatiana Antonov’na. Evgeniia Alexandrov’na. Io di letteratura russa sono assolutamente digiuno, però associo il patronimico a ambientazioni letterarie, a mondi ottocenteschi o del primo novecento (prima della Rivoluzione d’Ottobre, anche se pure Lenin era Vladimir Ilyich). Quindi speravo, un giorno, di riuscire a rivolgermi, con tutto un rispetto pomposo un po’ macchietta, a una Anastasiia Petrov’na. O di imitare quella coppia di amici vicina al divorzio, che durante le discussioni un po’ più animate smettono di chiamarsi con il nome proprio e usano solo il patronimico, più per provocazione che per rispetto. E di nuovo mi trovo affascinato da come ci chiamiamo e facciamo chiamare: avevo appena lasciato l’Iraq, dove il rispetto porta a chiamare un padre e una madre con il nome del primogenito (Umm Muhamad, Abu Sharif), e ora in Ucraina mi trovo a dover conoscere il nome del padre, e non del figlio. Immagino voglia dire qualcosa, rispetto all’importanza del passato o del futuro, di ciò che è stato rispetto a ciò che verrà, di chi saremo rispetto a chi siamo stati.

Intermezzo, utile a capire quanto segue: nel ristorante da dove sto scrivendo, davanti al mio tavolo siedono tre donne molto belle, di diverse età – da quanto capisco e origlio, sono tutte e tre madri, e non me ne stupisco. Una di loro mi ha appena sorriso, dopo aver goffamente urtato il mio tavolo: si stanno concedendo qualche giro di cognac e cola. Tre tavoli più in là, due uomini della mia età stanno bevendo qualche birra di troppo, cercando di attirare le attenzioni della cameriera con grandi e simpatiche sbracciate (sempre meglio del девочка!, ragazza! con il quale qui si apostrofa la cameriera di turno). Mi sono fatto una risata alla loro coreografica ultima sbracciata, e ho alzato il bicchiere di birra per un brindisi a distanza. Ho smesso di ridere con loro, e di scambiare lo sguardo, quando ho visto che, nascondendosi poco e goffamente, stavano scattando fotografie delle tre donne di fronte al mio tavolo, guardandole con fare lascivo.

L’obbligo del padre

Per chi se lo fosse chiesto, il patronimico è un obbligo. Fa parte del nome ufficiale, ed è indicato nei documenti di identità. Per chi se lo fosse chiesto, il matronimico non esiste. Un giorno ho avuto il coraggio di chiedere a una collega: e chi nasce senza un padre? Temevo una pratica simile al nostro superato (ma non troppo) di NN, nomen nescio, con la quale si indicavano fino agli anni settanta i figli di padre sconosciuto. Qui la soluzione adottata è diversa: si indica il nome del padre della madre. Perché un padre è necessario, non se ne può fare a meno. Nessuna delle persone con cui ne ho parlato ci vede un grande problema – fa parte della tradizione, mi dicono. La lingua russa ha ancora enormi sessismi, che io vedo problematici e chi mi circonda meno: un uomo che si sposa “si prende moglie” (жениться, il verbo è riflessivo), una donna che si sposa “va dietro a un marito” (letteralmente, она вышла затуж). Questo penso significhi qualcosa, e quando provo a parlarne mi dicono che questa è una lingua antica, ma la realtà è diversa. L’altro giorno ho proposto a un amico di annunciare il suo matrimonio dicendo che starà “dietro a una moglie” – una soluzione più riparatrice che trasformatrice, lo so, e non so se la prenderà in considerazione.

Aggiornamento dal ristorante: il ragazzo sbracciante è venuto a chiedermi se stessi scrivendo un libro, visto che siedo così serio dietro il computer. Parlava un bell’inglese con un accento forzatamente americano, e ci siamo fatti due risate a caso mentre mi diceva le due parole di italiano che sa (cazzo di cane denota un minimo di fantasia in più rispetto al classico vaffanculo). Una delle donne nel tavolo davanti a me si è girata verso di me, a conversazione finita, e mi ha fatto un mezzo applauso. Al mio что? Cosa? mi ha detto, un po’ brilla, “you are a very beautiful boy”. Io ho sorriso un po’ imbarazzato, pensando all’uso del boy, ragazzo al posto del man, uomo, proprio ora che sto cercando di riconciliarmi con i miei trentadue anni e i primi, evidenti, capelli bianchi.

Amarcord (senza conclusioni)

Andrea (Andy) Rocchelli

Un collega, mentre passeggiamo verso casa dopo lavoro, all’improvviso mi chiede se conoscevo quel giornalista italiano ucciso qui a Sloviansk. Non avevo ancora collegato questo luogo a Andrea (Andy) Rocchelli, fotoreporter di Pavia, ucciso in Ucraina nel 2014. Ne ricordavo, a vaghe linee, la notizia, e il certo rumore che fece, in Italia. Andy fu ucciso, insieme al collega russo Andrei Mironov, a pochi chilometri dal centro di Sloviansk, vicino a Andriivka, oltre i binari del treno. Fu ucciso che aveva 30 anni. Fu ucciso sette anni fa, il 24 maggio 2014, mentre portava avanti un reportage fotografico dalla linea del fronte. Tre giorni dopo, il quotidiano La Stampa pubblicò in prima pagina una sua foto: un gruppo di bambini incastrati in una cantina per proteggersi dagli spari di artiglieria, illuminati da una luce fredda, circondati da enormi barattoli di verdura in conserva e marmellate. Andy sta sopra di loro, in cima alla ripida scala di legno, e inquadra i volti di otto bambini attraverso la cornice di pavimento, storta, dell’ingresso alla cantina.

Vitalii Markiv

Vitalii Markiv, il soldato ucraino di allora 25 anni che ha avuto un ruolo nella morte di Andy e Andrei, è stato prima condannato a 24 anni dal tribunale di Pavia, poi assolto per assenza di prove dalla Corte di appello di Milano, lo scorso novembre. Entrambe le sentenze, quella di condanna e quella di assoluzione, confermano la dinamica di quel 24 maggio: l’esercito ucraino uccise deliberatamente Andy e Andrei, aggiustando la mira dei mortai per centrare gli obiettivi, sparando dalla collina del Karachun verso il fosso dove Andy e Andrei (e un collega francese, ferito nell’attacco) si erano riparati. Le motivazioni della sentenza di assoluzione sono complicate, e dipendono da un cavillo procedurale (ne potete leggere qui: www.andyrocchelli.com). Vitalii Markiv, una volta scarcerato, fu riaccolto in Ucraina come un eroe. Ci furono anche manifestazioni per la sua liberazione fuori dalla Corte di appello di Milano – e tante altre ce ne furono a Kyiv e altrove in Ucraina. Sul sito www.euromaidanpress.com si può leggere un lungo articolo sulla sua vicenda, e sulle celebrazioni nel giorno del suo ritorno in Ucraina. Markiv, che in Italia è cresciuto e ha studiato (ed è cittadino italiano), in un’intervista rilasciata quel giorno ringrazia l’Italia per avergli insegnato i valori europei, e la perdona per gli errori che lo hanno costretto tre anni in un carcere. Sulla pista dell’aeroporto di Kyiv, appena sbarcato dall’aereo, ha dichiarato: “la sentenza pronunciata dal tribunale di Pavia [la sentenza di colpevolezza] ha dimostrato che la propaganda del Cremlino non ha limiti, ma la giustizia ora esiste”.

Le verità

Vitalii Markiv poteva chiamarsi Sergei Tselivac, poteva avere 35 anni, sua madre poteva chiamarsi Svitlana e non Oksana, sua moglie poteva chiamarsi Daria e non Diana. Vitalii poteva essere uno dei suoi commilitoni, che assieme a lui stavano preparando, nel maggio 2014, l’attacco a Sloviansk, per riprendere il controllo della città dai separatisti filo-russi. Vitalii è probabilmente stato sfortunato: quel giorno, al mortaio, poteva trovarsi qualcun altro, e lui essere di servizio al magazzino. La sorte di Andy e Andrei difficilmente sarebbe cambiata. Sloviansk, vale la pena ricordarlo, passò di mano senza una vera battaglia: le truppe separatiste decisero di ritirarsi verso Donetsk. La responsabilità della morte di Andy e Andrei è difficilmente contestabile: i colpi di mortaio provenivano da una collina sotto il controllo dell’esercito ucraino, e Andy e Andrei si trovavano in una zona controllata dai separatisti. Il governo ucraino, e con lui parte dell’opinione pubblica ucraina, sostiene invece Andy e Andrei siano stati uccisi dai separatisti filo-russi, e l’intera responsabilità sia attribuibile a loro. Sostengono che il processo a Vitalii sia parte della strategia di disinformazione russa, che mira a mostrare l’esercito ucraino e i battaglioni di volontari come carnefici senza pietà che sparano sui giornalisti.

Oggettività delle fonti, e dei ricordi

Su Wikipedia, la pagina in inglese dedicata a Vitalii Markiv è stata scritta in Ucraina, da un utente chiamato Trydence. Trydence è di sesso maschile, europeo, viene dall’Ucraina, è orgoglioso di essere ucraino, è di stirpe ucraina, vive a Kyiv, non fuma, ama la musica rock, appoggia la democrazia in Bielorussia, osteggia il comunismo sia nella teoria che nella pratica, appoggia l’entrata dell’Ucraina nella NATO e sa scrivere e leggere in cirillico. Nella sua prima versione della pagina dedicata a Vitalii Markiv, pubblicata nel gennaio 2018, scrive che Vitalii rimase in Italia fino al 2013, e poi tornò in Ucraina, per unirsi al Maidan, il movimento filo-europeista che rovesciò il governo di Victor Janukovyc e cambiò radicalmente la storia recente di questo paese. Nella mia memoria, quindi nella narrazione che ricordo di aver letto, quella fu una lotta a favore di una progressiva integrazione dell’Ucraina nell’Unione Europea (nacque, d’altronde, dalla mancata firma di Janukovyc dell’accordo di partenariato europeo), contro la corruzione e la cleptocrazia. Il sito euromaidanpress.com, quello che esulta per la liberazione di Vitalii Markiv e sostiene che il tribunale di Pavia fosse sotto l’influenza della propaganda russa, crede in una Ucraina democratica e unita, libera da pressioni e coercizioni straniere e basata sullo stato di diritto.

Ozerianivka, o dei confini che creiamo (che cos’è un confine, terza puntata)

Verso Ozerianivka

Ozerianivka è un piccolo villaggio contadino, qualche chilometro a nord di Toretsk, a quasi due ore di macchina da Sloviansk. Ci si arriva passando da Bakhmut, una cittadina tranquilla conosciuta per produrre l’unico spumante ucraino prodotto con il metodo champenoise, il nostro metodo classico. Non l’ho ancora assaggiato, e nel paesaggio che ho visto dal finestrino della macchina non ho notato vigneti (ma sapere che c’è chi produce un metodo classico a un’oretta di macchina da Sloviansk mi rinfranca parecchio). Bakhmut è stata completamente risparmiata dai combattimenti di sette anni fa: le truppe separatiste l’hanno solo attraversata, nella loro ritirata verso la città di Donetsk. La strada per Ozerianivka è una strada di campagna particolarmente malmessa, ma non molto diversa da tante strade che portano a piccoli villaggi contadini in tutto il mondo. C’è una miniera – mi pare di aver capito ancora in funzione, anche se apparentemente abbandonata – di argilla, che dava lavoro a parecchie persone della zona: la qualità dell’argilla è particolarmente buona, e contribuiva alla manifattura di ceramiche, particolarmente importante nell’area a nord di Donetsk.

Ozerianivka

Ozerianivka è un piccolo villaggio contadino, con una certa storia alle spalle. Me ne accorgo camminando per le strade sterrate, tra piccole casette diroccate con le vecchie mura in mattoni a vista. Un’abitante del posto me lo conferma: Ozerianivka è stata fondata nel 1812, quando un gruppo di contadini iniziò a lavorare alle dipendenze di un signorotto locale. Prima del 2014, prima del conflitto armato, circa 800 persone vivevano qui; ora sono circa 170. C’è chi si arrangia con qualche pezzo di campo da coltivare; c’è chi il suo lo affitta, per qualche migliaio di hrivna all’anno, a aziende più grosse; c’è chi ancora lavora nella miniera di argilla e chi ha trovato qualcosa a Bakhmut. La maggioranza delle persone sopravvive delle magre pensioni, cento-duecento euro al mese, e di qualche sussidio statale molto variabile. Ci sono parecchie galline, e qualche vacca. Non c’è miseria, o perlomeno non mi sembra di averne vista. Ci sono le difficoltà di un piccolo villaggio contadino, che deve far fronte alle dinamiche di un mondo in rapido cambiamento: un cambiamento che il conflitto armato ha accelerato, un cambiamento che è stato una delle motivazioni del conflitto armato.

I confini che creiamo

Ozerianivka è un piccolo villaggio contadino, situato a 6,4 chilometri dalla linea del fronte. Immagino in linea d’aria, quindi a portata di un obice (per me, completamente digiuno di tecniche militari, gli obici erano fionde medievali: purtroppo invece no). 6,4 chilometri sono pochi, quindi. Sono però troppi per entrare nelle grazie, o nelle attenzioni, dell’aiuto umanitario, che si concentra con poca flessibilità nella zona dai zero ai cinque chilometri dalla linea del conflitto. Per gli standard umanitari di questo angolo di mondo (ma le semplificazioni esistono anche altrove), in quella zona si concentrano i villaggi, e le popolazioni, più vulnerabili. Non che sia un’idea di per sé sbagliata: ci sono villaggi letteralmente sulla linea del fronte, con strade tutte da inventare perché tagliate in due da una trincea, ora (nel più famoso, Opetnje, vivono 36 persone, e non hanno la minima intenzione di andarsene). Il problema di queste divisioni è che necessariamente creano esclusione, creano un confine: i criteri di vulnerabilità sanno essere estremamente tecnici, quasi cinici. Ora che l’aiuto umanitario sta virando verso la cooperazione allo sviluppo, con progetti più lunghi e più strutturati (e molto più focalizzati sul cambiamento delle dinamiche socio-economiche dei luoghi), la nuova zona di interesse si è estesa: tra gli zero e i venti chilometri dalla linea del fronte.

Il campo

Ozerianivka è un piccolo villaggio contadino, e non ci ho trovato particolari differenze con i villaggi contadini a me più familiari. La strada sterrata e colma di buche sulla quale ho camminato mi ricordava via Cal di Treviso, la strada che porta alla casa di famiglia a Villorba, non fosse che non c’era la canaeta, il fosso di acqua per l’irrigazione. Ricordo le lamentele di nonna Filomena per quella strada di sabbia e sassi, e la sorpresa nel vederla asfaltata dal comune, forse per un regalo ai sessant’anni di matrimonio. Mi capita di pensare, lavorando in luoghi così distanti e così familiari, al dopoguerra italiano: mio padre è nato 6 anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, mia madre 8 anni dopo, in un contesto di distruzione sociale e economica forse (sicuramente?) peggiore di quello di Ozerianivka. Non c’erano, allora, strani uomini stranieri che si aggiravano per San Lorenzo in Banale, o per Villorba, senza parlare una parola di italiano, con il titolo di Protection and Community Engagement Advisor. Non c’ero io.

Lo so, qui il conflitto armato c’è ancora. Per questo è interessante capire cos’è un confine.

Appunti misti (che cos’è un confine, seconda puntata)

7 anni fa

Il 12 aprile 2014, sette anni fa, Sloviansk veniva occupata dai separatisti filo-russi. Sarebbe stata liberata solo pochi mesi dopo, senza troppi spargimenti di sangue, quando i separatisti decisero di ritirarsi verso Donetsk prima di scontrarsi con l’esercito ucraino. Non c’è una storia condivisa di quei tre mesi, che sei anni sono ancora troppo pochi per scriverla. Sono costretto a scriverne, quindi, in termini partigiani: Sloviansk è stata occupata sei anni fa, e liberata qualche mese dopo. Vorrei poter non sottostare a questi termini partigiani, ma questa è la narrazione che mi circonda: e sono qui da troppo poco tempo per metterla in discussione. L’idea è – prima o poi – di riuscire a passare un po’ di tempo anche dall’altra parte della linea del fronte, per capire come cambi la narrazione degli stessi eventi.

Quella linea

La linea del fronte è lunga circa 240 chilometri: da Mariupol, città industriale affacciata sul Mar d’Azov in territorio ucraino, sale a nord e passa a ovest di Donetsk, quella che era la quarta città più popolosa dell’Ucraina, tagliando letteralmente l’aeroporto a metà; sale poi a nord includendo qualche miniera e separando qualche sfortunato villaggio, per poi puntare a est, superare Luhansk per qualche decina di chilometri a nord e finire inesorabilmente al confine con la Federazione Russa. La linea separa in due la regione del Donbass, ossia i due oblast di Luhansk e Donetsk: il Donbass definisce la regione storica, con una sua epica definita ma ormai desueta e un’importanza economica che difficilmente avrà mai più. Una regione di minatori e industrie pesanti, mitizzata nell’epoca sovietica. Vi ricordate di Aleksey Grigoryevich Stakhanov? Era nato a Lugovaya, non lontano da Voronezh, in quello che adesso è territorio della Federazione Russa, ma il suo mito nasce nel Donbass: le 102 tonnellate di carbone in cinque ore e quattordici minuti le aveva scavate a Kadiivka, vicino a Luhansk. Ah, Kadiivka è il nome ucraino della città: in russo si chiama Stakhanov.

A proposito di Voronezh

Voronezh è una città russa circa 300 chilometri a nord del confine con l’Ucraina. Il nome non mi direbbe assolutamente nulla, se Marta, mia sorella, non ci avesse passato qualche settimana durante uno scambio scolastico quando io avevo quattordici o quindici anni, e se non avessimo a nostra volta ospitato un ragazzo di Voronezh a Trento (con l’inglese me la cavicchiavo già, e mi toccò tradurre mio padre che voleva sapere cosa pensasse il ragazzo riguardo a Putin – per la cronaca, il ragazzo diceva in maniera alquanto disinteressata che a lui Putin andava benissimo, e mio padre non sapeva bene come reagire). A Voronezh in questi giorni la Federazione Russa sta ammassando una quantità incredibile di soldati e mezzi militari, fatti venire apposta da ogni angolo dell’esteso territorio nazionale, inclusa la Siberia. Il governo russo fa spallucce e dice che sono esercitazioni militari, e che comunque non deve giustificare gli spostamenti di truppe all’interno dei propri confini. Il governo ucraino giustamente si spaventa e cerca di mantenere la calma, che basterebbe una disattenzione, un errore, e l’esercitazione russa avrebbe modo di diventare un po’ meno teorica. Gli Stati Uniti alzano la voce e l’Europa nicchia.

Neutralità

Il lavoro umanitario mi impone la neutralità rispetto alle parti in conflitto: non mi costa in realtà un grande sforzo, che non provo nessuna attrazione per la guerra, per la retorica dell’esercito glorioso e delle resistenze e rivoluzioni armate. Quando incontro, nel percorso da casa al lavoro, qualche soldato o soldatessa dell’esercito ucraino forse in licenza forse in partenza per il fronte, cerco di incrociare lo sguardo, quasi come a trasmettere un augurio: non di vittoria, ma di sopravvivenza. Lo scorso fine settimana, a Charkiv (seconda città dell’Ucraina, a nord di Sloviansk), ho visto diverse giovani coppie abbracciate sulle panchine, o tenersi la mano passeggiando, lui con la divisa militare addosso, lei curatissima in qualche vestito primaverile. Non so dire se fossero i sorrisi di chi si ritrova o di chi si sta per lasciare. Ho provato un’infinita tenerezza, come guardassi le foto sbiadite dei miei nonni alla loro stessa età, in divisa militare anche loro.

Cosa bolle in pentola (che cos’è un confine, prima puntata)

Borscht

Il borscht (si scrive così, ma si pronuncia con qualche suono in più) è una zuppa di barbabietola, cipolle, carote, spesso carne di maiale. È considerato un piatto tradizionale ucraino, ma lo è di diversi paesi dell’Europa centrale e orientale, oltre che caucasici. La puoi mangiare nei ristoranti tipici di Varsavia, e viene servita come piatto tradizionale della cucina nazionale a Kyiv come a Mosca. È proprio buono, il borscht, e segue la bellissima regola delle cucine povere: si fa con quel che c’è. Se c’è il maiale, metti il maiale; se è festa, metti il manzo; se allevi galline mettici la gallina e se non hai carne, non mettercela. Mangerai sempre una buona zuppa rossastra, dai toni violacei, servita con un cucchiaio di panna acida. A Kyiv l’ho assaggiata due volte: in ristorante self-service per lavoratori degli uffici del centro vicino al Majdan Nezaležnosti, e in un ristorantino curatissimo, minimalista, dove le ricette tradizionali ucraine vengono rivisitate con maestria (in quel caso, il borscht era cotto per dodici ore insieme al succo di prugna, e la carne era affumicata con un qualche legno ucraino, ma non ricordo quale).

I confini culinari

Da cittadino italiano che vive all’estero mi sono abituato (come molti, immagino) al rituale della discussione sul cibo italiano: l’orrore per la carbonara con la panna, l’assoluto disprezzo per la pizza con l’ananas e la battaglia contro gli spaghetti bolognese (questa meno, ma ognuno ha le sue battaglie da combatter). Sono discussioni obbligate praticamente con qualsiasi persona con la quale ti presenti a un ristorante o a una cena, che quando non ci si conosce si ricorre agli stereotipi, e va bene così. Io ho smesso di scandalizzarmi o di fingere scandalo: domani proverò la pizza della Pizzeria Celentano, una catena di pizzerie che spopola qui in Ucraina. Penso che il nome dipenda dalla grande popolarità di alcuni cantanti italiani nell’Unione Sovietica degli anni 70’/80’ (Iva Zanicchi, quando venne eletta euro-parlamentare, mostrava con orgoglio nel suo curriculum di essere stata la prima cantante proveniente dall’Occidente a esibirsi a Mosca, per dire). So che non mangerò una pizza: mangerò la trasformazione di un’idea molto semplice, la sua contaminazione con una tradizione che non è quella partenopea. Il menu, lo ammetto, promette malissimo, e sono indeciso se prendere la meno peggio, o il peggio del peggio. Che anche il peggio del peggio deve avere una ragione per esistere e essere su un menu, qui a Sloviansk.

I piatti che escludono

Nel Medio Oriente, tra Israele, Palestina, Lebano e Giordania, va in scena da anni una profondissima diatriba culinaria, su chi abbia inventato quello che in italiano chiamiamo hummus, la crema di ceci, pasta di semi di sesamo e limone. La stessa crisi, bene o male, la si trova riguardo ai falafel, le polpette di pasta di ceci fritte nell’olio. La contesa va avanti a suono di eventi organizzati per battere qualche guinnes dei primati a tema e rivendicazioni proto-politiche. Un po’ come con il borscht: nessuno Stato accetta che un altro Stato reclami la paternità (o la maternità: ma lo Stato per me è schifosamente maschile) di un qualche cibo che fa parte della tradizione. Ovviamente, quando c’è un conflitto armato di mezzo, una disputa territoriale, un “noi contro loro”, la disputa culinaria raggiunge altri livelli e altri obiettivi. Ma pure noi italiani ce la prendiamo parecchio (o forse facciamo finta? Ditemelo voi) quando vediamo la pizza con l’ananas.

Che cos’è un confine (prima puntata)

Non riesco a trovare nulla di più innaturale, controproducente e malefico di un tavolo che esclude. Nell’appartamento che ho comprato qualche mese fa, ho deciso di farci stare un enorme tavolo da dieci persone, nonostante preveda di viverci da solo. “Aggiungi un posto a tavola / che c’è un amico in più. / Se sposti un po’ la seggiola / stai comodo anche tu.” – non ricordo chi la cantasse. L’appropriazione di un piatto tradizionale, e forse ancora di più la piccata e minacciosa risposta all’appropriazione di un piatto tradizionale, è forse la quintessenza della stupidità del confine nazionale. O meglio: è la quintessenza della resistenza e della malvagia del confine nazionale; per esistere deve creare alterità, creare inimicizia, separare culture vicine che nella loro esistenza hanno imparato a condividere un tavolo, e un piatto di quel che c’era.

A mo’ di spiegazione

La domanda più pressante che ho trovato in questo primo mese a Sloviansk, e alla quale temo non riuscirò a dare risposta, è semplice: quella linea che divide l’Ucraina dai territori delle auto-proclamate Repubbliche Popolari di Luhansk e Donetsk è un fronte militare o un confine? O questi sono termini novecenteschi, che avranno sempre meno senso di esistere, in pace e in guerra? Alla prossima puntata.

Incontro con Sloviansk

Un nuovo benvenuto

Quando due anni fa, abbastanza casualmente, passai una settimana in Georgia, uno dei primi incontri che feci fu con una donna, forse completamente ubriaca, che su una panchina mi parlò di chissà cosa, per poi accarezzarmi la testa e andarsene. Uno dei primi incontri che ho fatto qui a Sloviansk è stata un’altra donna, che davanti a un piccolo negozio sulla strada per l’ufficio dove lavoro chiedeva, senza dare troppo nell’occhio, qualche spicciolo. Al mio dirle, in un inglese imbarazzato, che non parlo ucraino né russo, lei mi ha bofonchiato qualcosa in tedesco. Ne è nata un’estemporanea conversazione in tedesco, meno imbarazzato ma molto sorpreso, da parte di entrambi, e un piacevole “es hat mich sehr gefreut” – mi ha fatto molto piacere, finale. Mi piace questo parallelo di storie: sembra che, arrivando in un paese dal passato sovietico, debba essere una donna a darmi uno strano benvenuto, sulla strada. Anche questa volta, mi piace interpretarlo come un buon auspicio.

Nevica

Oggi nevica, e dall’appartamento nel quale sto vivendo guardo i neri tetti tutti uguali delle palazzine di fronte alla mia colorarsi di bianco, e confondersi bene con un cielo dello stesso colore. Che poi sapere che nevica è un piacere: vuol dire che non fa poi così freddo. Rimpiango di essere fondamentalmente allergico ai berretti di lana, e di aver dimenticato una sciarpa calda: le sferzate di vento freddo sono taglienti. La prima serata passata qui a Sloviansk, solo qualche giorno fa, sono andato a mangiare qualcosa con una collega in un ristorante georgiano; nel salutarci, le ho assicurato che sapevo dov’era casa mia, nonostante ci fossi stato solo una volta, e per meno di dieci minuti, a mezzogiorno. Ma d’altronde ero sulla stessa strada, trovare il numero civico non poteva essere complicato. Peccato che gli indirizzi siano un po’ strani qui, e per arrivare al numero 22 della Vulytsya Tsentralna bisogna entrare dalla Vulystya Vasylivska, una strada perpendicolare. Passeggiare un buon quarto d’ora su e giù per una strada buia, con il termometro a meno dodici e senza alcuna capacità linguistica per chiedere informazioni, non è piacevolissimo.

C’è musica in piazza

Il punto di riferimento per orientarsi nel centro di Sloviansk è la Soborna Ploshcha, la piazza principale con la chiesa dello Spirito Santo, il municipio di Sloviansk e il basamento di metallo sul quale, fino al 2014, svettava la statua di Lenin. La piazza sembra più punto di passaggio che punto di ritrovo, se non fosse per qualche gruppetto di ragazzi con lo skateboard e, di sera, qualche piccolo branco di cani randagi, per nulla intimorenti. Per andare in ufficio da casa devo passare per la piazza, e per andare al supermercato devo passare per la piazza, e anche i due ristoranti che ho provato fin ora danno sulla piazza. Ai quattro angoli della piazza, installati su pali della luce, ci sono degli altoparlanti; immagino abbiano una funzione rilevante, a tempo debito. Al momento, però, si limitano a passare una selezione di musica quantomeno bizzarra, e personalmente discutibile: venerdì alle 8 di mattina rimbombava a volume alto Livin’ la vida loca di Ricky Martin, e ieri mentre andavo al supermercato mi è sfuggita una risata ascoltando, per fortuna per soli pochi metri, Blue (Da Ba Dee) degli Eiffel 65.

Un contesto umanitario strano

Sloviansk si trova 650 chilometri a est di Kyiv, 200 chilometri circa dal confine con la Russia sia a est che a nord. Per arrivarci, ho preso un comodissimo treno molto mattiniero da Kyiv, che in circa sei ore mi ha portato qui. Sul treno, dove ho dormito e lavoricchiato, c’era una carrozza bar che serviva un cappuccino più che decente. Qui a Sloviansk sono alloggiato, per il momento, in un mini appartamento rinnovato molto recentemente e molto confortevole, ma ho già trovato un altro mini appartamento da prendere in affitto per i prossimi mesi, ugualmente ben rinnovato e confortevole. Il proprietario sta preparando il contratto, e spero di trasferirmi nei prossimi giorni. I colleghi non ucraini nell’organizzazione dove lavoro sono pochi, e due di loro hanno deciso di trasferirsi qui a Sloviansk con la famiglia. È un contesto umanitario strano: Sloviansk si trova a una novantina di chilometri dalla linea di contatto, che separa i territori controllati dal governo ucraino da quelli controllati dalle autoproclamate repubbliche separatiste filo russe.