L’importanza dei ritorni (e delle ripartenze)

Jabal al-Weibdeh, Amman

Sono un grande salutatore di animali, l’ho scoperto qualche anno fa. Ogni volta che vedo un qualsiasi animale, soprattutto mammiferi più o meno domestici, non resisto alla tentazione di salutarli. Ultimamente sto espandendo i miei orizzonti del saluto a uccelli, insetti, ragni; ma gli animali che saluto più volentieri, se si escludono le capre, sono sicuramente i gatti. Jabal al-Weibdeh, il quartiere di Amman abbarbicato sopra il centro antico della città, sopra i resti del tempio di Ercole e del teatro romano, mette a dura prova la mia capacità di salutarli tutti, i gatti, senza dare troppo nell’occhio. Nel suo saliscendi continuo di strade, scalinate sgarrupate, cortili interni semi abbandonati, case diroccate e case dall’equilibrio precario, sacchetti di immondizia qui e là, avvallamenti e buche pieni di erbacce e fiori e bottigliette di plastica, pezzi di muro e materiale da costruzione antico e moderno; in tutta questa meraviglia, e stando attento a rispondere al saluto del vecchio che mi sorride senza perdermi i murales su molte facciate, salutare ogni gatto diventa un’impresa complicata, da affrontare a ritmo lentissimo. Ma tutta questa confusa meraviglia, lontana dalla Amman caotica e trafficatissima dei quartieri più in basso, invita a rallentare il passo.

L’importanza delle ripartenze (e dei ritorni)

Penso che nulla sia cambiato nell’Amman in cui avevo, seppur brevemente, vissuto due anni fa, prima di partire per l’Afghanistan. I posti in cui andavo allora ci sono ancora adesso, gli scorci che avevo già fotografato li fotografo nuovamente ora. Molto mi sembra diverso: trovo nel bianco sporco di ogni casa che si sovrappone all’altra una certa melodia, ripenso al poco verde che mi sembrava di vedere e sorrido all’albero di limoni in un giardino mal curato, guardo il grigio dei marciapiedi mai continui e saltello da buca in buca, in un’allegra gimkana pedonale. Il primo taxi che prendo – una modernissima auto elettrica – mi regala una lunga conversazione con il tassista, che parla un buon inglese: ci soffermiamo a lungo sulla compresenza religiosa, sull’immutabilità della parola del Profeta (pbsl) nella cultura islamica, sulla proibizione religiosa della speculazione e come questa si intreccia con i bisogni capitalistici, sul sistema politico giordano e la situazione di Gaza e della Palestina. Tutto mi sembra un incredibile regalo, un’offerta che prendo a piene mani, e tutto mi sembra più bello e desiderabile, anche l’adesivo sulla scrivania della camera d’albergo che mi indica la qibla, la direzione della Caaba verso la quale rivolgere le preghiere. Nulla è cambiato; forse io, un po’.

A proposito di Palestina

Zain, uno dei maggiori operatori telefonici in Giordania, da metà ottobre ha cambiato il suo nome di rete in Gaza. Me ne accorgo quasi per caso, controllando se il mio numero italiano avesse copertura di rete in Giordania, e sorprendendomi nel leggere Gaza al posto del nome della rete. La cosa non mi sorprende troppo, e mi sembra un gesto simbolico forse utile a ricordarsi di cosa sta succedendo da 5 mesi a Gaza; ma in Giordania vivono quasi tre milioni di Palestinesi, e dubito che a loro serva questo cambio di nome per ricordarsi di Gaza. Camminando pigramente in un quartiere che non conosco, cercando di non perdere la direzione dell’hotel, mi imbatto in due veicoli militari ben rinforzati, e in un certo numero di poliziotti in tenuta anti-sommossa, molto più bardati della celere italiana; poco più avanti, due cordoni di altri poliziotti meno minacciosi ma molto all’erta proteggono l’incrocio di strade. Saranno in tutto un centinaio di poliziotti, che circondano un altro centinaio di persone, in prevalenza donne: è una piccola, rumorosa manifestazione di sostegno a Gaza e al popolo palestinese, di fronte a una moschea. Mi avvicino un po’ guardingo; non capisco bene gli slogan, ma capisco la parola Amerika e posso immaginare il contesto. Non che percepisca alcuna minaccia, ma io sono visibilmente straniero, e se qualcuno dovesse parlarmi istintivamente risponderei in inglese (e per qualche motivo ho pure un accento americano, quando parlo inglese) – insomma, potrei tranquillamente essere americano. Rimango una decina di minuti per sentire il ritmo degli slogan, urlati a grande voce da un instancabile oratore sul palco, e ripetuti a grande voce dai manifestanti. Non sono propriamente slogan: è una lunghissima canzone collettiva mononota, con le sue strofe di maggior successo, i suoi ritornelli e le sue ripetizioni, la forza dello stacco corale e l’urgenza del volume.

Non si legge bene la scritta in bianco, e la traduco: "Cosa farò da grande?"
Non si legge bene la scritta in bianco, e la traduco: “Cosa farò da grande?”

A mo’ di spiegazione

Sono a Amman per una formazione, mi sono fermato una decina di giorni appena. Non sono qui per tornare, ma per ripartire: ho un nuovo lavoro con il Norwegian Refugee Council (NRC), e presto dovrò proseguire verso Nairobi e poi, tra peripezie varie, riuscire a raggiungere il mio personalissimo nuovo paese di lavoro: il Sudan, e la sua angosciante e un po’ dimenticata situazione umanitaria, schiacciata mediaticamente da Ucraina e Gaza. Vi scriverò da lì – o prima da Nairobi – quando ci sarò. Qui a Amman ho partecipato alla famosa formazione di sicurezza di NRC: sei giorni molto intensi di apprendimenti vari e simulazioni delle peggiori situazioni che possano capitare a chi lavora in contesti di guerra – come muoversi nel fuoco incrociato, come affrontare un check-point illegale, come sopportare e affrontare un possibile rapimento. Ho imparato un sacco di cose utili che spero non siano mai utili, e ho mantenuto tutti i miei dubbi rispetto all’approccio un po’ militaresco di tanti insegnamenti. Siamo stati 6 giorni in un centro di addestramento militare – l’unico posto che permetta un certo tipo di simulazioni – e non sono mai stato così tanto sottoposto al suono di spari e esplosioni (non eravamo certo gli unici a esercitarsi, e c’era chi lo faceva con altri ovvi obbiettivi). Spesso salutavo gli innumerevoli gatti, o sentivo il cinguettare degli uccelli, o guardavo le capre brucare l’erba sulla collinetta verde punteggiata dai papaveri, oltre il recinto che delimitava la struttura; mi confortava la tranquillità della natura, tra le raffiche di spari.  

Hasta pronto, Colombia!

Cosa non ho visto

A Bogotà, tra la carrera 11 e la calle 85, c’è un edificio in costruzione, uno tra i tanti, e non so quale progetto nasconda – immagino un palazzo ripetitivamente moderno, con spazi differenziati tra appartamenti di medio lusso, uffici e negozi. Il cantiere è recintato da un muro, e sul muro sono affisse diverse foto naturalistiche; sono i luoghi turistici più famosi della Colombia, e sono foto bellissime. C’è il Nevado del Tolima con i suoi frailejones e i suoi 5220 metri di altezza; c’è il Caño Cristales nella Macarena, con i suoi colori vividi di ossido e alghe; c’è la lontana isola di San Andres, contesa con il Nicaragua, e le sue spiagge bianchissime di palme caraibiche; ci sono le colline del eje cafetero, l’altipiano ondulato sul quale si produce buona parte del caffè colombiano; c’è la ciudad perdida e la costa pacifica, i laghi di Antioquia e le baie di Tumaco. Tutti posti che – colpevolmente? – non ho visitato, nonostante le opportunità.

Cosa ho visto

La Colombia mi è eccessiva, o sicuramente eccede le mie capacità di esplorazione. Io della Colombia ho visto poco, e quel poco mi è bastato, in questi mesi che sono stati sei ma sono sembrati molti di più. Che poi: aver messo il naso nel remoto Putumayo e navigato su e giù il suo fiume; aver guardato ammagliato la luce del sole che scende sulla foresta amazzonica a Puerto Leguizamo o essermi commosso di un perfetto arcobaleno sopra la nostra barca; aver ascoltato ogni mattina il canto di tanti uccelli nascosti e il frinire di mille altri insetti e tante altre emozioni che ora non ricordo; tutto questo non mi sembra così poco. Sono anni che dico di essere un pessimo viaggiatore, nonostante il (o a causa del) lavoro che faccio: forse semplicemente non mi va di viaggiare per viaggiare, e la retorica della meta nel viaggiare che tanto mi ha affascinato ora non fa per me.

Cosa ho deciso di non vedere

Tra i viaggi che non ho fatto, ne spicca uno in particolare: non sono tornato a San José de Apartadò, ed è l’unico viaggio non fatto che, un po’, mi lascia l’amaro in bocca. L’occasione era ghiotta: quest’anno il numero di lunedì festivi e ponti vari in Colombia non è mai stato così alto, e un viaggio a Apartadò – per quanto non tra i più semplici – era ampiamente fattibile. Ci sono vari motivi per cui non sono andato, e non scarto anche una certa pigrizia, stanchezza e allergia per gli aeroporti – ma questi sono fattori che vedo più come giustificazioni che come motivi veri e propri. Il motivo dominante, penso, è che avevo paura del confronto. La Comunidad de Paz de San José de Apartadò mi aveva accolto, come volontario di Operazione Colomba, dieci anni fa, quando avevo 24 anni, una visione del mondo diversa, una visione di me stesso diversa. Per dire: non solo non lavoravo nell’aiuto umanitario, ma neanche sapevo che l’aiuto umanitario potesse essere un lavoro. Dico spesso che quell’esperienza mi ha cambiato la vita, e ci credo fermamente: e infatti non credo di essere più quello che ero dieci anni fa. Tornare a San José de Apartadò mi avrebbe costretto a un confronto, con il rischio che diventasse una ridefinizione: non mi sentivo pronto.

Cosa porto con me

Qualche giorno fa mi sono messo a pensare cosa mi mancherà della Colombia, e ho fatto una gran fatica a pensare a una sola cosa. Non penso mi mancherà Bogotà – questa città da cui mi sento un po’ travolto, come tutte le grandi città, e che mi ostino a vivere a piedi, confinato negli spazi di un quartiere troppo pulito; non mi mancherà l’ufficio a Bogotà, nel quale mi sono sentito spesso estraneo, salvato dal tavolo da ping pong sulla terrazza e da qualche volto amico; non penso mi mancherà Puerto Asìs – a cui comunque ho voluto bene nei tre mesi che mi ha regalato. Ma forse la nostalgia ha bisogno di tempo per formarsi, e inoltre si forma dall’assenza: so che mi troverò presto a ricordare con affetto i cieli drammatici e mutevoli di Bogotà e il mio pedalare affannato sopra i 3000 metri; so che mi mancheranno le cercropie di Bogotà, con i loro tronchi nudi e le gigantesche foglie di forma digitata, e mi mancheranno le buganvillee dai fiori viola rampicate sui mattoni chiari di certi palazzi; so che mi penserò sorridendo ai volti e alle voci di tante persone che ho trovato, che in realtà di pochi ci si dimentica, e in fondo non sono ancora stanco di cercare.

Cry me a river

Porto Assisi

A molti potrà sembrare scontato; io ho impiegato qualche settimana ad accorgermene. Puerto Asìs è Porto Assisi, e poco a nord c’è anche Puerto Umbria. Furono due missionari francescani a fondarla, nel 1912, con motivazioni più politiche che religiose: i confini tra Peru, Ecuador e Colombia erano ai tempi poco chiari, frutti di trattati interpretati differentemente da ognuno dei tre governi, e il governo colombiano cercava di estendere la sua influenza – o riprendere il controllo – della sua parte meridionale, nella foresta amazzonica. Ai missionari francescani Stanislao de las Corts e Ildefonso de Tulcan fu dato il compito e furono date le risorse per costruire una colonia agricola, formata inizialmente da una scuola, una chiesa, un carcere, un ufficio del governo, un porto fluviale e case per ospitare gli indigeni. I due frati – antichi project manager – avevano appena finito di dirigere i lavori per la strada di collegamento tra Pasto e Mocoa; si misero subito all’opera e il 3 maggio 1912 celebrarono una messa solenne nella nuova chiesa di Puerto Asìs alla presenza di lavoratori sotto contratto e qualche indigeno della zona. Non fu affatto facile trovare famiglie che avessero voglia di venire a lavorare nel Putumayo, nonostante la promessa di un appezzamento di terra con casa, e viveri gratuiti per i primi sei mesi: la foresta amazzonica incuteva ancora una certa paura (più che un certo rispetto).

La febbre del caucciù

I primi anni del ventesimo secolo furono anche gli anni apicali della febbre del caucciù, ossia lo sfruttamento massivo della pianta della gomma nella foresta amazzonica. Il governo colombiano doveva fare i conti con l’espansione delle imprese peruviane verso nord, tra il fiume Putumayo e il fiume Caquetà. Una di loro, la Peruvian Amazon Companycon sede a Londra – antica multinazionale – si era resa protagonista della riduzione in schiavitù delle popolazioni indigene nella foresta amazzonica: i racconti dei supplizi e delle crudeltà dei caucheros vennero documentate da un ingegnere statunitense e pubblicate in una rivista londinese, e portarono alla creazione di due processi – uno in Perù e uno a Londra. Nel 1921 la Peruvian Amazon Company fu costretta a chiudere, grazie anche alla campagna della Società Anti-Schiavitù e per la Protezione degli Aborigeni – probabilmente la più antica organizzazione per la difesa dei diritti umani. La situazione per le comunità indigene migliorò poco: alla fine degli anni venti il loro territorio fu il campo di battaglia della guerra colombo-peruviana, e negli anni trenta furono vittime della forzata colombianizzazione del territorio. Si stima che, a partire dagli anni successivi alla scoperta della vulcanizzazione della gomma e all’invenzione dello pneumatico (1887), siano morti più di duecentomila indigeni a causa della colonizzazione delle loro terre tra il fiume Putumayo e il fiume Caquetà, in quello che è ricordato come il genocidio del Putumayo.

Maloca e aricaguà

Ci pensavo a queste cose l’altro giorno, mentre entravo nella maloca di una comunità a sud di Puerto Leguizamo, qualche centinaia di metri sotto la linea dell’Equatore. La comunità – o meglio il cabildo indigena – è una fortunata convivenza di indigeni kichwa e qualche colono: sono in tutto qualche decina di famiglie, e hanno il vantaggio organizzativo delle piccole comunità coese e in grado di autogestirsi in quasi perfetta autonomia. La maloca è la struttura principale della comunità, dove avvengono le riunioni: è un’imponente struttura conica di pali di legno che raggiunge i tredici metri di altezza, con una circonferenza di una cinquantina di metri almeno. I pali sono incastrati e legati tra di loro senza l’utilizzo di chiodi, e il tetto è tutto composto da foglie di palma secche. Il tetto, nella parte più elevata, è aperto su due lati, per permettere la circolazione dell’aria. Nonostante il sole all’esterno, e una temperatura vicina ai 35 gradi, all’interno della maloca fa quasi fresco – merito della sua altezza, che permette all’aria calda di salire fino al tetto. A queste cose ci pensavo anche il giorno seguente, mentre incontravo il rappresentante di un’organizzazione del popolo kichwa, e si parlava dei frutti della palma Oenucarpus Bataua, bacche della dimensione di una prugna che in Colombia si chiamano milpesos, da cui si ricava una bevanda acidula con forte sentore di latte. Gli chiedevamo se lui sapesse perché si chiamassero milpesos: lui ci ha guardato un po’ stupito della domanda: “questo è il nome vostro, per noi si chiama aricaguà”.

Coloni

Tutt’ora, quando ci si riferisce a persone che vivono nelle comunità del Rio Putumayo senza far parte di un cabildo indigeno, si usa la parola colono. È in parte un retaggio del passato – ma come si è detto non è un passato chissà quanto remoto – e in parte un’affermazione necessaria a distinguere chi ci è sempre stato e chi è arrivato solo dopo. I colombiani sono un popolo che si muove, parecchio, all’interno del proprio stato: a volte sono costretti dal conflitto armato, a volte semplicemente inseguono possibilità economiche e di lavoro. È molto raro trovare una persona che sia nata e cresciuta nello stesso posto, con l’eccezione forse delle grandi città; e non è per nulla raro incontrare lavoratori alla giornata, che si spostano di città in città e di finca in finca (le fincas sono le piantagioni colombiane) a seconda del mercato del lavoro, con un semplice zaino a contenere i propri averi e spesso un machete alla cintola. Chi si muove verso i territori ancora abitati da comunità indigene, e chi ne lavora la terra, quello è certamente un colono. Secondo il censimento del 2005, nel Putumayo quasi il 18% della popolazione censita appartiene a una comunità indigena, una percentuale che scende al 4,3% a livello nazionale – circa un milione quattrocento mila persone. Nel censimento del 1993, si dichiarava appartenente a una comunità indigena solo l’1,6% della popolazione, poco più di mezzo milione di persone. Due fattori hanno portato a questa improvvisa esplosione demografica: da una parte un lavoro di sensibilizzazione culturale delle organizzazioni indigene, che hanno permesso una nuova consapevolezza identitaria. Dall’altra gli aiuti statali per le persone indigene, che hanno fatto si che molti coloni e contadini delle aree rurali si autodefinissero, impropriamente, indigeni. Una colonizzazione dell’identità.

Puerto Asìs, primi spunti

Moto familiari

Il mezzo di movimento più familiare a Puerto Asìs è la moto. Ci sono moto ovunque, di qualsiasi cilindrata, che vanno veloci o pianissimo, che girano in gruppetti o sole, con uno o più passeggeri, tutti rigorosamente senza casco (con l’emblematica eccezione degli agenti di polizia, che quando si vedono hanno un riconoscibilissimo casco verde). L’aggettivo familiare ha molteplici significati: la moto è familiare in quanto ogni famiglia ne ha almeno un paio, e non è per nulla raro vedere bambini di 10 anni guidare tranquillamente il loro mezzo; la moto è familiare anche perché è un mezzo per la famiglia, e non è per nulla raro vedere intere famiglie su una moto – padre, madre e due figli, il più piccolo con le mani sul manubrio o sugli specchietti e il più grandicello schiacciato tra il corpo del padre che guida e della madre passeggera. È meno frequente, ma certo non raro, vedere anche il cane della famiglia trasportato sulla moto – a volte in braccio a un passeggero, a volte tranquillamente seduto tra i suoi piedi. Oggi, in uno di quei casi di similitudine tra il padrone ed il suo cane, ho visto un grosso bulldog inglese con la lingua a penzoloni lasciarsi trasportare tranquillamente sul poggiapiedi di un grosso scooter dal suo enorme padrone colombiano.

Puerto Asìs

Rombi

Il suono delle moto è quindi una costante, ma non disturba poi troppo. Quasi nessuno accelera troppo, e l’unica molestia sono gli innumerevoli motoratòn – i tassisti su moto che non perdono l’occasione di suonare il clacson ogni volta che mi vedono camminare per strada, per invitarmi a prendere un passaggio. Camminare a Puerto Asìs è un’attività non particolarmente popolare: per qualsiasi spostamento, si prende la moto. C’è una buona ragione per evitare di camminare troppo, e non necessariamente riguarda i marciapiedi inesistenti o occupati dai tavolini di un bar o sconnessi o riempiti di sali scendi e pedane varie per l’ingresso a qualche negozio o bar; semplicemente, fa spesso troppo caldo per buona parte del giorno. È un caldo umido, spesso, che ti si appiccica addosso e cresce. I giorni più caldi si trasformano spesso nelle serate più fresche, quando scroscia all’improvviso un forte temporale equatoriale a raffreddare l’aria. I lampi sono impressionanti, ma molto di più lo sono i tuoni: lunghi, potenti rombi bassissimi che si prolungano per diversi secondi e fanno tremare le pareti delle case e le finestre.

Suoni

Non c’è dubbio che l’udito sia il senso più stimolato a Puerto Asìs, soprattutto nelle ore della notte e nella prima mattina, quando la città è ancora sonnolenta. Non c’è mai silenzio: è un rincorrersi di grilli, di raganelle e altri anfibi, di uccelli notturni che fischiano cantano e stridono, di gatti e altri animali che saltano sui tetti, di cani che abbaiano, di zanzare che ronzano, di altri rumori, versi e cinguettii sconosciuti che intimoriscono, incuriosiscono e di cui non si riesce a capire la provenienza. Nel mio giardino vola spesso un molto socievole kiskadee dal petto giallissimo, che deve il suo nome al suo verso acuto (che a me in realtà non suona come kis-ka-dee, però mi pare proprio lui). Spesso vedo anche dei bellissimi fringuelli zafferano (o botton d’oro, che nome splendido) saltellare nell’erba del giardino. Non sono invece ancora sicuro di aver identificato la colonia di uccelli che canta abitualmente dall’alto del grande albero1 vicino al muro che delimita il giardino: penso siano dei cacicco groppagialla – altro bel nome! –, ma non vedo da qui i grandi nidi penduli nei quali dovrebbe nidificare (che però ho visto sulle sponde del fiume Putumayo).

Botton d’oro (?)

1Mi piacerebbe capire meglio di che albero si tratta, ma sto già perdendo ore a cercare di classificare gli uccelli che vedo. Per una classificazione delle piante, datemi un po’ di tempo.

Natura

Puerto Asìs si trova all’inizio della grande foresta amazzonica, che dalle prime pendici delle Ande, pochi chilometri a ovest di qui, si estende fino all’altro capo del continente. Il porto è sul Rio Putumayo, che da il nome anche alla regione, e che segna il confine tra la Colombia e l’Ecuador, poi tra la Colombia e il Perù, prima di entrare in Brasile e sfociare nel Rio delle Amazzoni. Il Rio Putumayo è un fiume amazzonico enorme, a tratti largo anche cinquecento metri – e ora siamo nella stagione secca – di un colore marroncino, quasi rossastro, che va navigato con attenzione per evitare le secche e i tronchi. Da un lato c’è la Colombia, dall’altro l’Ecuador e poi il Perù, e su entrambi i lati è un verde fitto, intenso, con qualche raro gruppo di casette qua e là. A pochi chilometri da Porto Asìs, sul lato sinistro del fiume, c’è un piccolo appezzamento coltivato a coca – stranamente molto visibile al passaggio, visto che le grandi piantagioni sono un po’ più nascoste. Mi ha ricordato quei vigneti di qualche azienda vinicola, posti quasi in esposizione vicino a un’autostrada, per attirare clienti.

Davanti a un quadro (o uno specchio)

Ritorni, o forse no

Ho spesso vissuto il mio lavoro umanitario come un conoscere posti – o tentare di conoscerli – in cui sarei difficilmente ritornato. In realtà più il tempo passava, e più nuovi luoghi si aggiungevano alla lista, più mi sembrava bassa la possibilità di tornarci. Penso sia una questione di promesse un po’ false non mantenute: quel famoso tanto prima o poi torno che non si materializza, che si dice più per scacciare la paura del dimenticarsi. Vale per i luoghi, vale per le persone – ho conosciuto tante persone che difficilmente rivedrò, e a molte ho voluto bene. Quando avrò più la possibilità di bere una birra con Peter, Idi e Clement in un tukul polveroso a Mundri la domenica mattina? Quando mai mi capiterà di rivedere la piccola Maria, della famiglia di profughi di Hawija, che viveva nel settore O del campo di Jedd’ah? L’ultimo – forte – indizio di questa maturata convinzione di non ritorno risale ormai a un anno fa: iniziavano i bombardamenti sull’Ucraina, e gli amici e le amiche cominciavano a scappare da Slav’jansk. Anche il posto che mi sembrava il più facilmente raggiungibile, in vesti non umanitarie, diventava improvvisamente e tragicamente irraggiungibile. Per questo mi fa strano essere di nuovo in Colombia, e devo ancora abituarmi completamente all’idea che i ritorni siano possibili. O forse appunto non lo sono: ma che si, si può vivere di nuovo un luogo. Ci penserò ancora molto; ancora di più se mi capiterà di visitare San José de Apartadò.

La Candelaria

In queste prime settimane a Bogotà – un po’ per gli impegni lavorativi, un po’ per le escursioni fuori città nei fine settimana – non mi era ancora capitato di passare per La Candelaria, lo storico quartiere coloniale di Bogotà. C’è piazza Bolivar con diverse sedi istituzionali, c’è il museo dell’oro (in realtà un po’ fuori dalla Candelaria, in un palazzo moderno a nord), c’è il museo Botero. Dieci anni fa, nei cinque giorni passati a Bogotà sulle tracce di Enzo G. Baldoni, avevo camminato per molte ore tra le stradine strette e pendenti di ciottoli del quartiere. Avevo incontrato il Maestro Santiago Garcia, già malato di alzheimer, nel patio del teatro La Candelaria, e tentato un’inutile conversazione sul passaggio di Baldoni, dieci anni prima (è morto nel 2020, Santiago Garcia). Avevo lungamente indugiato davanti alla porta dell’hotel de la Opera, a pochi passi da piazza Bolivar, nel quale aveva soggiornato Baldoni e che forse ancora dava lavoro a Horacio – il-maggiordomo-che-tutti-vorremmo-avere (ma che forse era anche un integrante del Frente Urbano). Mi ero seduto a guardare gli artisti di strada nella Plazoleta, sorprendendomi di una Bogotà molto meno minacciosa di quanto mi ero immaginato.

Chiedo venia – però che sorriso enigmatico

La Candelaria, dieci anni dopo

Rileggo quello che avevo scritto dieci anni fa con un misto di tenerezza e pena. Mi lasciavo andare a lirismi con molto più facilità di adesso, e cercavo di vantare molte più informazioni di quante ne possedessi. La mia descrizione della Plazoleta Chorro de Quevedo, ricca di simbolismi e tentativi di interpretazione, aveva impresso nella mia memoria il ricordo di un luogo molto più grande, e molto più magico. Ripassandoci oggi mi stupisco della sua piccolezza, e della quantità di venditori ambulanti di chicha – un liquore di mais fermentato che dubito proverò – che non la rendono per forza invitante. Mi dilungavo in descrizioni semi-architettoniche di quello che vedevo, probabilmente senza alcun senso, e aggiungevo giudizi estetici tecnici, non personali (maledetto Bruce Chatwin e la mia fascinazione per le sue dettagliate descrizioni onniscienti). Descrivevo il museo Botero come una mezza accozzaglia di opere dell’artista colombiano e di altri artisti, aggiungendo quasi con sprezzo di come un tale miscuglio fosse tipico dei musei appartenenti a fondazioni bancarie – peccato che il museo non appartenga a una fondazione bancaria, e che tutte le opere siano state in effetti parte della collezione privata di Botero, che decise di donarle a una fondazione con la chiara istruzione che fossero esposte al pubblico.

Il museo Botero e ritorni, forse si

Il museo Botero è bellissimo. Ospitato in un palazzo coloniale di due piani, con un bel giardino interno porticato su tutti i lati, è visitabile gratuitamente, tutti i giorni, fino alle sette di sera. Ci si può camminare tranquillamente chiacchierando: non ha quel sentore di sacralità silenziosa di altri musei, ci sono tante opere diverse che è un piacere fermarsi ad ammirarle, o anche solo passarci uno sguardo veloce sopra e lasciarsi distrarre da un’altra immagine – viva o dipinta – qualche metro più in la. Ti accoglie all’ingresso la bellissima versione di Botero della Monna Lisa, così rotonda da non lasciare alcun dubbio sulla natura di quel sorriso enigmatico. Prosegui ridendo delle statue di grassi gatti e grassi uccellini, e ammiri con fascinazione le bellissime chiappe della statua della coppia abbracciata, nuda, di spalle. Vedi quadri di Picasso, di Monet, di Kokoschka, di Klee, di Matisse – in tutto 203 opere, 123 di Botero e 87 di artisti vari. C’è un quadro, al secondo piano in una stanza più scura, davanti al quale mi ero fermato ammirato, dieci anni fa. Rappresenta un uomo tondeggiante e poco minaccioso, nonostante il fucile a tracolla: è Tirofijo, Manuel Marulanda, l’uomo che Baldoni sognava di potere incontrare nel suo viaggio in Colombia nel 2001. Mi sono fermato davanti a quel quadro di nuovo, dieci anni dopo, e mi sono rivisto com’ero allora: emozionato, convinto di aver terminato un viaggio e una ricerca, con meno barba e meno posti in cui ritornare.

Paktia

Il passo Tera

Il passo Tera collega le province di Paktia e Logar, a sud-est di Kabul, tra le montagne dell’Hindu Kush. La strada è stata recentemente rinnovata, e ora si sale tra tornanti e gole su una strada larga, dove l’autista può dilettarsi nel superare all’esterno i lentissimi camion, stracolmi di merce, diretti verso Kandahar o Herat. Un passo così verrebbe voglia di affrontarlo in bicicletta. In cima, a 2895 metri sul livello del mare, stanno construendo una grande moschea. Mi chiedo chi ci andrà: il passo durante l’inverno rimane spesso chiuso a causa di neve e gelo, e le uniche persone che stanziano lassù sono i pochi soldati addetti al check-point. Anche adesso, e siamo in agosto, il vento soffia forte e freddo – e loro se ne stanno lì, imbacuccati nei loro vestiti afghani tradizionali o nelle loro divise militari, con qualche strato di scialle in più a coprirsi la testa.

Kuchi

Ci sono, in realtà, altri abitanti stagionali del passo Tera. Sono i nomadi kuchi, che piantano le loro tende nei declivi del passo, nelle parti più piane e accessibili. I kuchi rappresentano la più grande popolazione nomade di etnia pashto – il gruppo etnico dominante nella parte del paese che confina con il Pakistan. I talebani sono pashto, come buona parte dei miei colleghi – ma all’interno del gruppo etnico ci sono enormi differenze socio-culturali, e sotto-gruppi etnici con caratteristiche specifiche. I kuchi sono nomadi: passano l’inverno a sud, nelle piane di Kandahar o oltre il confine con il Pakistan, e l’estate tornano tra le montagne di Paktia, Paktika, Khost. Portano con sé le mandrie di capre o pecore, a volte di asini, e non è raro incontrare cammelli e dromedari attorno alle loro tende. C’è chi tra loro si è motorizzato, e trasporta persone e tende su qualche piccolo furgone colorato; ma molti di loro si muovono ancora a piedi, assieme alle bestie. Le loro tende sono essenziali, e sembrano quasi piatte: diversi teli, tesi, legati a piccoli paletti di legno e sospesi a venti centimetri dal terreno, per permettere all’aria di circolare, formano un trapezio che nel centro non supera i due metri di altezza.

Villaggi di castelli

La strada che scende dal passo Tera attraversa diversi villaggi, che a prima vista sembrano composti da tanti castelli di terra. Non sono costruzioni imponenti, ma sono fortemente suggestive: tutto attorno al perimetro rettangolare o quadrato si alzano mura di cinta alte fino a quattro metri, e a ogni angolo il muro non si chiude in forma retta, ma in piccole torri tonde o esagonali, con finestre e feritoie che guardano in ogni direzione. Ogni lato può essere lungo fino a cinquanta metri. I portoni principali, nelle costruzioni più antiche, sono sovrastati da un grande architrave in legno, e divisi al loro interno in tre porte più piccole, dalle quali spesso compaiono volti di bambini. Non sono castelli: sono le abitazioni tipiche di queste province. Al loro interno, passato il portone, si aprono grandi giardini di alberi da frutto, e si trovano diverse altre costruzioni, una per ogni nucleo famigliare. All’interno di abitazioni simili possono vivere trenta, quaranta, sessanta persone, tutte della stessa famiglia. I figli, una volta sposati, si trasferiscono dalla casa dei genitori a una adiacente, all’interno dello stesso muro di cinta. A volte queste lunghe mura sono costruite sul lambire della strada, e si alzano sia su un lato che sull’altro, dando l’impressione di attraversare un labirintico villaggio medievale.

Resti di una guerra (si, ma quale?)

Il nostro ufficio nella provincia di Paktia è a Gardez, la città principale, posta al centro di un’enorme valle piatta, ai cui lati sorgono montagne ben più alte del passo Tera. Gardez è a 2300 metri sul livello del mare. Gli ultimi due piani dell’ufficio stanno venendo ristrutturati, per fare spazio a quella che diventerà la guest-house per i colleghi internazionali di base a Gardez. L’ultimo piano è il sottotetto, e il tetto è di lamiera – non so quale piano ci sia per isolarlo, viste le temperature invernali. Da questo quarto piano, però, si può osservare buona parte della città, per quanto il panorama non sia particolarmente bello. Un collega apre una finestra e mi invita a guardare: a un centinaio di metri di distanza c’è un enorme parcheggio di carri armati. Saranno quasi trecento. Sono stati recuperati qualche anno fa in tutto il territorio della provincia, e spostati qui ad arrugginire – nessuno di loro è recuperabile. Sono carri armati dell’epoca sovietica, abbandonati o danneggiati qui durante le battaglie con i mujahidin negli anni 80’.

Case e vicini di casa

Architettura a Kabul

Ultimamente ho percorso – sempre rigorosamente in macchina – qualche strada in più a Kabul. La città non offre particolari splendori architettonici, e difficilmente potrebbe essere altrimenti visto le diverse ondate di distruzione alle quali è stata sottoposta, negli ultimi 200 anni circa. Qualche giorno fa, di ritorno da una visita nella provincia di Paktia, sono finalmente riuscito a intravedere la Bala Hissar, il complesso fortificato che fu quasi totalmente distrutto durante la prima e la seconda guerra anglo-afgana. Vicino allo stadio nazionale di calcio, a est del centro, ho attraversato un quartiere di palazzine in stile sovietico costruite negli anni Sessanta, del tutto simili a quelle nelle quali vivevo a Slovjansk. Nelle strade parecchio trafficate del centro, dove imperano facciate moderne di dubbio gusto, di tanto in tanto si possono vedere vecchie case di fango, qualche portone intarsiato, qualche finestra storta e decorata. Tra quello che ho visto, le costruzioni più affascinanti sono anche le più instabili e inaccessibili: con l’espandersi della città, sempre più famiglie hanno deciso di costruire sui pendii quasi verticali delle montagnole rocciose che circondano la città: le basse costruzioni di un piano sono costruite praticamente una sopra l’altra, su un pianoro scavato nella roccia, e hanno stretti sentieri e lunghe scalinate sgarruppate a collegarle.

Taimani, Shirpoor

Non ho ancora ben chiaro come si chiami il quartiere nel quale vivo a Kabul. Ho un indirizzo – che mi è servito solo quando ho registrato il mio primo arrivo in aeroporto – e so che il quartiere fa parte del Dipartimento di Polizia numero 4 (Kabul è divisa in una ventina di PD, police department). L’indirizzo dice Shar-e Naw, ossia città nuova, perché questa parte di Kabul è stata costruita nella prima metà del ventesimo secolo, a nord-ovest del centro città. Kabul era già allora in progressiva espansione – espansione che continuò a intesificarsi fino allo scorso decennio, potrando la popolazione di Kabul fino a quattro milioni e mezzo di abitanti. Shar-e Naw si estende su un’area molto vasta, e al suo interno ci sono diverse zone e aree, che potrebbero benissimo essere quartieri separati. La palazzina nella quale abito si trova praticamente tra due di questi quartieri. Il quartiere a nord-ovest si chiama Taimani; il quartiere a sud-est si chiama Shirpoor. Prima del 2003, Shirpoor non era il quartiere pieno di ville di gusto discutibile, tutte molto simili e pacchiane, che è ora: c’erano invece molte case tradizionali di fango, abitate da famiglie non abbienti. Nel 2003 le autorità hanno sgomberato con la forza centinaia di famiglie, per redistribuire gli appezzamenti a personalità del governo, dell’esercito, a uomini di affari molto poco puliti (tanto che c’è chi ha coniato il termine narchittettura per indicare lo stile molto simile delle ville del quartiere).

Il vicino di casa (quell’altro)

Da quando vivo qui a Kabul so che devo preoccuparmi di non aprire le finestre che potrebbero permettermi di guardare a nord-ovest (per fortuna la palazzina è orientata a sud-est), di non ascoltare musica a alto volume con le finestre aperte, di non stare in piedi sulla parte rialzata della terrazza, che sbuca oltre la protezione verdognola. Lo so perché il nostro vicino di casa, che abita in una casa a un piano, con un bel giardino, a fianco della nostra palazzina, ricopre un qualche ruolo parecchio importante nel governo attuale. Non ce lo siamo scelti, un vicino così: è stato lui a trasferirsi qui dopo l’agosto del 2021, probabilmente occupando una casa lasciata libera da chi a Kabul non ci vive più. Certo non sapevo che non era questo il vicino di cui avrei dovuto preoccuparmi maggiormente: sabato scorso sono stato svegliato verso le sei di mattina da un’esplosione, abbastanza vicina da sentirsi chiaramente, e stranamente non seguita da spari di armi da fuoco (solitamente un’esplosione a Kabul fa parte di un attacco coordinato di vari elementi, e all’esplosione segue uno scontro a fuoco). Inizialmente non ci ho badato particolarmente, e sono sceso in cucina, sbadigliando, per fare colazione. Solo la mattina seguente ho capito che quella era l’esplosione del missile che ha ucciso Ayman Al-Zawahiri, il leader di Al Qaida dopo la morte di Osama Bin Laden. Vorrei poter dire che era un bravo vicino, che salutava sempre quando lo incontravo – ma abitava a un chilometro da qui, risulterei poco credibile.

Proteste (un po’ surreali)

Sembra che la casa dove viveva Al-Zawahiri fosse di proprietà di qualcuno riconducibile alla Rete Haqqani, una delle due fazioni principali all’interno dei Talebani (quella più militare e oltranzista). In ogni caso, appare alquanto improbabile che uno degli uomini più ricercati al mondo potesse vivere nel centro di Kabul senza che il governo afgano dei Talebani ne sapesse nulla. Oggi è venerdì, il primo venerdì dopo la morte di Al-Zawahiri, e ci sono state proteste pacifiche in diverse città dell’Afghanistan, dopo la preghiera. I manifestanti protestavano contro la violazione della sovranità territoriale del paese, contro la “violazione dei prinicipi internazionali” (parole del portavoce del governo), contro la violazione degli accordi di Doha – che per altro avrebbero dovuto impegnare i Talebani a non offrire ospitalità a organizzazioni come Al-Qaeda sul territorio nazionale. Tutto ciò avviene quando sono appena iniziate le commemorazioni per l’Ashura, ricorrenza islamica particolarmente sentita dai sciiti (si ricorda la morte dell’imam Hussein, figlio di Ali, nipote del Profeta Maometto pbsl). La popolazione sciita è minoritaria in Afghanistan, ed è particolarmente esposta agli attacchi dei gruppi sunniti più radicali, in special modo l’IS-KP. Le strade di Kabul sono piene di posti di blocco, presenze di talebani armati a presidiare i luoghi di culto sciiti, e un gran traffico.

Sulla strada

Kabul – Jalalabad

La strada per Jalalabad si divide in tre momenti: l’uscita da Kabul, l’attraversamento delle montagne del Hindu Kush attraverso la forra di Tang-e Gharo, e il passaggio nella larga valle che porta a Jalalabad. L’uscita da Kabul quasi non si nota, che la città si estende fino alle pendici delle prime montagne, e la strada percorre un continuo di negozi, mercati, venditori ambulanti e abitazioni. L’attraversamento del Hindu Kush è pittoresco, con la strada che si infila nella stretta forra scavata dal fiume Kabul e lambisce i fianchi rocciosi e spogli della montagna, passando attraverso gallerie buie; si incrociano diversi lentissimi camion, sia in salita che in discesa, carichi di merce e finemente decorati con motivi sgargianti. Di tanto in tanto un check-point è gestito con una certa disinvoltura da qualche soldato annoiato (in un caso talmente annoiato da sdraiarsi a fianco della piccola mitragliatrice puntata verso la strada e lasciare l’incombenza del controllo sbrigativo dei veicoli a un ragazzino di forse undici anni). La strada è mal protetta da qualche paracarro in cemento, e a ogni minimo spazio laterale in più ci sono improvvisati auto-lavaggi, che pompano acqua dal fiume e la spruzzano, con una gomma, su un piccolo piazzale di cemento. La valle che si apre al di là delle montagne è ampia, e con un forte contrasto di colori: lì dove passa il fiume, il verde è intenso, e ci sono campi di melograno, mandrie di mucche al pascolo, campi di grano e orti verdissimi; solo poco più in là, la montagna è aridissima, senza alcun arbusto e senza nessuna possibilità di ombra – l’ocra e il grigio sono i colori predominanti, ma ci sono chiazze di roccia violacea, come lividi sulla roccia.

Batikot

Sono stato a visitare un ambulatorio medico, nella piccola cittadina di Batikot, qualche decina di chilometri a ovest di Jalalabad. Sulla strada per Batikot – cercando di prestare poca attenzione alle mosse azzardate della mia macchina, delle altre macchine, delle biciclette, pedoni, muli e risciò – si possono osservare diversi oliveti, aranceti, gli alberi di melograno carichi di boccioli rosso acceso, piccoli appezzamenti coltivati a grano. Molte abitazioni sono ancora costruite secondo lo schema tradizionale: un perimetro rettangolare, cintato da un muro di fango con un’unica piccola porta, che apre verso un cortile sul quale si affacciano altre costruzioni basse di fango, legno e argilla. Di tanto in tanto, tra le pompe di benzina e GPL moderne, gli onnipresenti negozi di verdura e mercanzie varie, ci sono bei laboratori di giare di terracotta, di diverse dimensioni ma tutte con il fondo piatto, quasi tozzo. Ci sono anche dei cumignoli panciuti, non troppo alti e anneriti dal fumo, a indicare piccole fabbriche di mattoni. Per accedere alla clinica di Batikot, si attraversa un mercato affollatissimo, da percorrere a passo d’uomo (va detto che questo termine è più che mai azzeccato in un mercato afghano, che di donne in giro ce ne sono pochissime): mi sarebbe piaciuto scendere dalla macchina e camminare a piedi tra le bancarelle.

Riconoscibile

Le regole di sicurezza imporrebbero di indossare una mascherina durante i viaggi in macchina, oltre all’ovvia cintura di sicurezza. A Batikot, entrando nel caotico mercato, ci siamo tolti mascherina e cintura, che le regole di sicurezza impongono anche di mantenere un profilo bassissimo, e di essere il meno riconoscibili possibile; indossare la mascherina e allacciarsi la cintura sono ovvi segni di riconoscimento per uno straniero. Devo ancora capire quanto le shalwar kamiz che indosso (i vestiti tradizionali afghani, con i larghissimi pantaloni tenuti in vita da una corda e la lunga camicia fino al ginocchio) riescano a mascherarmi tra gli afghani. Un collega mi ha detto che potrei tranquillamente essere confuso con un afghano, ma non so se scherzasse o volesse farmi un complimento. Per non sbagliare e adeguarmi ai costumi, è da un po’ che non mi faccio la barba (ma non penso raggiungerà mai la fatidica lunghezza richiesta). Ma per non adeguarmi troppo, una delle shalwar kamiz che ho comprato è di un rosa acceso, con i pantaloni bianchi: non ne ho viste in giro di simili.

Rischi

Faccio una certa fatica a percepire il rischio a cui, da straniero, sono esposto. Faccio fatica a valutarlo, e non capisco se il rischio di rapimenti sia agitato come uno spauracchio da chi si occupa di sicurezza all’interno dell’organizzazione, o se e quanto sia reale. Le misure di sicurezza che dettano la mia vita qui sono d’altronde studiate per evitare qualsiasi rischio, non tanto per limitarlo. Anche gli attentati a Kabul e in altre città, quindi, mi sembrano distanti, quasi invisibili: ma il contesto sta rapidamente peggiorando, con attentati che non mirano più solamente a obiettivi militari, ma colpiscono indiscriminatamente luoghi affollati – un mercato, moschee sciite e sunnite, una scuola, un autobus. Un’altra mia difficoltà nel valutare il rischio dipende interamente dalla mia ignoranza rispetto alle dinamiche politiche e militari del paese: sono incapace di immaginare scenari futuri possibili. L’unico scenario che riesco a immaginare è lo status quo, e certo non è uno scenario positivo. Intanto l’altra notte le celebrazioni per l’Eid-al-Fitr, la festa di fine Ramadan, mi hanno dato un’idea di quante armi ci siano a disposizione della popolazione a Kabul: per una buona mezz’ora il cielo della città si è riempito di centinaia di scie rosse, quasi scenografiche se non fossero proiettili, e il rumore – ora più metallico, ora più sordo – di diverse armi ha riempito l’aria.

Kabul

In generale Kabul ha un’impronta alla mano e senza pretese, come una città balcanica nel senso buono del termine. È raccolta intorno ad alcune alture spoglie e rocciose, che emergono bruscamente dalla pianura verdeggiante e la proteggono. In lontananza si vede lo scenario delle montagne sempre incappucciate di neve, il parlamento è costruito in mezzo a un campo di grano e vi sono viali alberati per l’accesso alla città. D’inverno, forse, essendo a un’altitudine di quasi duemila metri, ha l’inconveniente del freddo, ma in questa stagione il clima è perfetto, poiché il caldo è sempre temperato dal freddo. I cinematografi e l’alcol sono proibiliti. Il medico della legazione ha dovuto smettere di curare le donne dietro richiesta della Chiesa, anche se talvolta vanno da lui travestite da ragazzi. La politica di occidentalizzazione forzata è ora sospesa.

Robert Byron, La via per l’Oxiana, 1937

Kabul

Mi devo accontentare delle parole di Robert Byron per descrivere la città. e devo dire mi sembrano calzanti. Però inizio a scoprire piccole nuove cose, tutte limitate e poco significanti, ma forse affascinanti proprio per la difficoltà del scoprirle. La terrazza della guest house (al suo piano più alto, oltre la recinzione verde) offre una meravigliosa vista sulla cittadella antica di Kabul, che si staglia sulle montagne lontane, guardando a nord-ovest. Il ristorante Sufi è ospitato in una bella casa storica, con le porte di noce scuro intagliate, e una stanza porticata con colonne di legno antico, dall’apparenza instabile e intagliate pure quelle. Di sera, in mezzo al cinguettio dei passeri, l’abbaiare di qualche cane randagio e i soffi di qualche gatto che si azzuffa, si sente spesso un verso vibrato, lungo, con picchi acuti vagamente fastidiosi: dev’essere un pavone in qualche giardino qui vicino. Di notte, le luci della città non danno fastidio a chi volesse guardare il cielo stellato, o godersi la luna piena: l’illuminazione è scarsa e non continua, e la miriade di piccole lucine bianche tremolanti nei quartieri più popolati sul fianco delle alture spoglie e rocciose da l’impressione di un mare mosso colmo di bioluminescenza.

Nel limite del poco che posso vedere, sono contento di ogni piccola scoperta.

Per strada

Ci muoviamo solo in macchina, come prevedeno i protocolli di sicurezza, tra la guest house, l’ufficio e i pochi posti autorizzati. I protocolli di sicurezza hanno però un inaspettato vantaggio: l’autista non prende quasi mai la stessa strada, e questo mi permette di guardarmi intorno un po’ di più, di osservare le strade da altre angolazioni. Il quartiere dove vivo e lavoro è forse il più liberale, che si vede qualche donna per strada senza il velo integrale, i manichini femminili sono ancora esposti nei negozi aperti, la presenza di barbuti armati è quasi un’eccezione. Qualche giorno fa, nel tragitto tra il supermercato e la guest house, ho notato un uomo sulla sessantina, alto, con la barba lunga, grigia e ben curata, in una mimetica un po’ consunta e un kalashnikov a tracolla: mi ha dato una strana impressione di grande tranquillità, e non ne ho capito il motivo. Ai lati della strada ci sono spesso uomini appisolati nelle loro carriole arrugginite, con le quali trasportano merci per qualche afghani: sono sdraiati dentro le carriole, in una posizione che non può essere un granché comoda, eppure sembrano quantomai rilassati e a loro agio.  

Contrasti

Prima dell’inizio del Ramadan avevo qualche occasione in più di parlare con i colleghi afgani, durante una pausa, sulla terrazza dell’ufficio. Mi sono presto reso conto di come basti una domanda (come si chiama quella montagna? Dov’è il Nord? Sei nato a Kabul?) e un po’ di curiosità per conoscere qualcosa in più sulle loro storie, i loro villaggi, il loro paese. Un collega mi ha mostrato alcune foto del suo villaggio natale, nel nord del paese, vicino al bacino del fiume Oxus – quel fiume che neanche Robert Byron è riuscito a vedere. Doveva aver scattato le foto recentemente: il villaggio era circondato da campi verdissimi, e sulle montagne grigie e brulle attorno c’era ancora neve bianchissima. La sua descrizione delle foto era stupefacente, per contrasti: “Questa è la casa della mia famiglia, e qui c’è l’orto dove colitiviamo un po’ di tutto. Davanti a questa porta hanno ammazzato mio fratello”; “Questa è una piccola miniera d’oro, in un giardino poco distante: si scava un po’, poi si lavano i sassi e la terra con l’acqua, attraverso un colino, e si trovano pepite d’oro”; “Questa è un pepita d’oro che abbiamo trovato. Ha un livello di purezza altissimo”; “Questa è la riva dell’Oxus, poco lontano da qui hanno ammazzato un altro dei miei fratelli”; “Questa è una foto della mia famiglia. Questi due sono i miei fratelli che non ci sono più, possa Allah avere misericordia di loro”.

Prime impressioni

Ahmad Shah Baba International Airport

All’aeroporto di Kandahar soffia un forte vento. Non possiamo scendere dal piccolo Embraer 145 sul quale voliamo da Doha a Kabul, ma ho la fortuna di avere un posto vicino al finestrino, e l’aereo ha parcheggiato proprio davanti al terminal. Mr. Bryan, lo steward con la voce più calda e suadente che ricordi, recita un “Ladies and gentlemen, welcome to Kandahar” di ordinanza. È tutto fermo. L’unico aereo sulla pista è un vecchio relitto abbandonato. Ci sono alcuni elicotteri malmessi, e gli hangar sono chiusi a prendere polvere. Una rondine appare davanti al mio finestrino: sta volando controvento, e per tutto lo sforzo che ci metta rimane ferma nello stesso posto. Poi decide di invertire la rotta, e schizza via. Il terminal dell’Ahmad Shah Baba International Airport di Kandahar è un edificio anche grazioso, con un ripetuto motivo di archi a ogiva, e un porticato esterno per schermare i passeggeri dal vento e dal sole. Ma passeggeri non ce ne sono quasi: ne scende uno, ne salgono due, e sono (siamo) tutti lavoratori del settore umanitario.

Kabul e un dollaro

Il primo incontro con Kabul è con i poliziotti di frontiera dell’aeroporto. Mi dicono essere gli stessi che lavoravano qui prima dell’agosto 2021, e sono cordiali o scontrosi come qualsiasi poliziotto di frontiera. Non mi sembra di essere in luogo molto diverso da quelli che ho già visto, ma gli aeroporti principali hanno il vizio di assomigliarsi molto. Un uomo afghano ha già caricato i nostri pochi bagagli su un carrello, e si offre di portarli fino al parcheggio. Ci chiede una mancia all’arrivo, e il dollaro che dovrebbe essere la norma non sembra soddisfarlo. Decido allora di liberarmi del mio dollaro feticcio: lo tenevo nel portafoglio da dieci anni almeno, tanto che aveva preso il colore caffelatte della pelle del portafoglio. Me l’aveva dato una signora americana, pensando di darmi chissà quale mancia immagino, quando lavoravo in un ristorante a Trento. Lì per lì mi fece ridere la sua ricerca di complicità nel mettermi nel taschino un singolo dollaro: poi però avevo pensato che era il mio primo dollaro, e non avevo resistito alla narrativa paperoniana. Non mi ha pesato lasciarlo alla prima persona in Afghanistan; anzi ho pensato possa essere di buon auspicio.

Kabul per strada

Ho visto pochissimo di Kabul, che i movimenti sono ristretti al minimo indispensabile. Quanto ho visto non mi ha impressionato per diversità o stranezze, per povertà o miseria, né per presenze armate particolarmente inquietanti. Di tanto in tanto si vedono i barbuti al potere, e i loro kalashnikov e le divise militari; di tanto in tanto un edificio è protetto da sacchi di sabbia, un veicolo militare a guardia e una bandiera bianca con iscrizioni in arabo svetta da un palo. Sono entrato nell’Emirato Islamico dell’Afghanistan dalla capitale, e le capitali hanno la fama di essere più liberali delle province. Mi guardo intorno, nel viaggio dall’aeroporto alla guest house che ci ospita: per strada un traffico non intenso ma caotico, con un promiscuo passaggio di macchine, biciclette, caretti trainati da asini malconci e motociclette. Per strada uomini, principalmente, quasi tutti vestiti tradizionalmente ma non tutti con barba e cappello d’ordinanza. Per strada anche donne e ragazze, e vestono quasi tutte un hijab rilassato, a coprire solo parte del capo lasciando vedere i capelli.

Non ho visto nulla

Le mie prime impressioni di Kabul non rappresentano ovviamente nulla, sono solo uno sguardo limitato sul poco che posso vedere. E posso vedere veramente poco: la terrazza della guest house è protetta sui quattro lati da una rete metallica alta due metri e mezzo coperta con un tessuto di plastica verde, simile a quelli che si usano nei campi sportivi. Sembra sia per evitare che noi si possa guardare dall’alto due case vicine, che appartengono a talebani di qualche sorta. Perfino le finestre in camera mia sono protette da una pellicola opaca, che i vicini intransigenti hanno protestato. Dalla terrazza dell’ufficio, meno protetta, posso vedere in lontananza le montagne del Hindu Kush a nord, e le colline appuntite e affollate intorno a Kabul. C’è un pino marittimo nel cortile dell’ufficio, che svetta alto, sul qualche qualche piccione, colomba o cuculo si nasconde e canta.