Babushka e patronimici

Babushka

Sotto casa mia – una palazzina grigia di quattro piani sulla strada principale del centro, con ingresso rialzato sul retro del palazzo, di fronte a uno sgarruppato cortile e parcheggio male organizzato – stazionano stabilmente, dalle sei alle otto di sera, tre babushka, tre nonnine. Che poi non penso siano poi così anziane, forse hanno da poco superato i settant’anni, forse sono alla soglia dei settant’anni. Si autodefiniscono nonnine (è una delle poche cose che capisco quando le incontro sulle scale e mi lasciano il passo, “пожалуйста, я бабушка” mi dicono, “passa prego, io sono una nonnina”) e aderiscono perfettamente all’ideale della nonnina di città. Ogni volta che torno a casa con qualcuno mi sento i loro occhi addosso, un po’ protettivi un po’ giudicanti: io le saluto, loro ricambiano all’unisono; ogni volta che chiudo il portone di ingresso con un poca attenzione, e questo sbatte pesante nel suo metallo militare grigio, sento il loro sguardo di disapprovazione sulla schiena, e sguscio dentro il palazzo senza voltarmi. L’altro giorno tornavo da una corsa, sudatissimo (l’estate qui è torrida): una di loro, la mia vicina di casa, si alza dalla panchina vedendomi arrivare, e mi fa cenno con la mano di avvicinarmi. Così faccio, e inizia una simpatica conversazione nella quale, in qualche modo, ci capiamo (la farò breve: ogni mese la babushka raccoglie 25 grivna da ogni appartamento della scala per pulire le scale – io non avevo ancora pagato il mese). Salgo a casa, mi faccio una doccia e scendo con le 25 grivna (ma ho solo un pezzo da 50, quindi pago per due mesi), e a quel punto colgo l’occasione per chiedere come si chiamino, le mie babushka: avrei fatto fatica a ricordarmene tre, di nomi, così concentrato com’ero nel non sbagliare di troppo le mie poche frasi in russo per bofonchiare un “меня завут даниеле”. Di nomi però me ne arrivano sei. Ovviamente, non ne ricordo mezzo.

Patronimici

Eppure lo avrei dovuto sapere, che di nomi me ne sarebbero arrivati sei, e non tre. Anzi: da qualche mese speravo di avere la possibilità di presentarmi a una signora che, nel dirmi il suo nome, avesse aggiunto il patronimico. Irina Ivanov’na. Tatiana Antonov’na. Evgeniia Alexandrov’na. Io di letteratura russa sono assolutamente digiuno, però associo il patronimico a ambientazioni letterarie, a mondi ottocenteschi o del primo novecento (prima della Rivoluzione d’Ottobre, anche se pure Lenin era Vladimir Ilyich). Quindi speravo, un giorno, di riuscire a rivolgermi, con tutto un rispetto pomposo un po’ macchietta, a una Anastasiia Petrov’na. O di imitare quella coppia di amici vicina al divorzio, che durante le discussioni un po’ più animate smettono di chiamarsi con il nome proprio e usano solo il patronimico, più per provocazione che per rispetto. E di nuovo mi trovo affascinato da come ci chiamiamo e facciamo chiamare: avevo appena lasciato l’Iraq, dove il rispetto porta a chiamare un padre e una madre con il nome del primogenito (Umm Muhamad, Abu Sharif), e ora in Ucraina mi trovo a dover conoscere il nome del padre, e non del figlio. Immagino voglia dire qualcosa, rispetto all’importanza del passato o del futuro, di ciò che è stato rispetto a ciò che verrà, di chi saremo rispetto a chi siamo stati.

Intermezzo, utile a capire quanto segue: nel ristorante da dove sto scrivendo, davanti al mio tavolo siedono tre donne molto belle, di diverse età – da quanto capisco e origlio, sono tutte e tre madri, e non me ne stupisco. Una di loro mi ha appena sorriso, dopo aver goffamente urtato il mio tavolo: si stanno concedendo qualche giro di cognac e cola. Tre tavoli più in là, due uomini della mia età stanno bevendo qualche birra di troppo, cercando di attirare le attenzioni della cameriera con grandi e simpatiche sbracciate (sempre meglio del девочка!, ragazza! con il quale qui si apostrofa la cameriera di turno). Mi sono fatto una risata alla loro coreografica ultima sbracciata, e ho alzato il bicchiere di birra per un brindisi a distanza. Ho smesso di ridere con loro, e di scambiare lo sguardo, quando ho visto che, nascondendosi poco e goffamente, stavano scattando fotografie delle tre donne di fronte al mio tavolo, guardandole con fare lascivo.

L’obbligo del padre

Per chi se lo fosse chiesto, il patronimico è un obbligo. Fa parte del nome ufficiale, ed è indicato nei documenti di identità. Per chi se lo fosse chiesto, il matronimico non esiste. Un giorno ho avuto il coraggio di chiedere a una collega: e chi nasce senza un padre? Temevo una pratica simile al nostro superato (ma non troppo) di NN, nomen nescio, con la quale si indicavano fino agli anni settanta i figli di padre sconosciuto. Qui la soluzione adottata è diversa: si indica il nome del padre della madre. Perché un padre è necessario, non se ne può fare a meno. Nessuna delle persone con cui ne ho parlato ci vede un grande problema – fa parte della tradizione, mi dicono. La lingua russa ha ancora enormi sessismi, che io vedo problematici e chi mi circonda meno: un uomo che si sposa “si prende moglie” (жениться, il verbo è riflessivo), una donna che si sposa “va dietro a un marito” (letteralmente, она вышла затуж). Questo penso significhi qualcosa, e quando provo a parlarne mi dicono che questa è una lingua antica, ma la realtà è diversa. L’altro giorno ho proposto a un amico di annunciare il suo matrimonio dicendo che starà “dietro a una moglie” – una soluzione più riparatrice che trasformatrice, lo so, e non so se la prenderà in considerazione.

Aggiornamento dal ristorante: il ragazzo sbracciante è venuto a chiedermi se stessi scrivendo un libro, visto che siedo così serio dietro il computer. Parlava un bell’inglese con un accento forzatamente americano, e ci siamo fatti due risate a caso mentre mi diceva le due parole di italiano che sa (cazzo di cane denota un minimo di fantasia in più rispetto al classico vaffanculo). Una delle donne nel tavolo davanti a me si è girata verso di me, a conversazione finita, e mi ha fatto un mezzo applauso. Al mio что? Cosa? mi ha detto, un po’ brilla, “you are a very beautiful boy”. Io ho sorriso un po’ imbarazzato, pensando all’uso del boy, ragazzo al posto del man, uomo, proprio ora che sto cercando di riconciliarmi con i miei trentadue anni e i primi, evidenti, capelli bianchi.

Amarcord (senza conclusioni)

Andrea (Andy) Rocchelli

Un collega, mentre passeggiamo verso casa dopo lavoro, all’improvviso mi chiede se conoscevo quel giornalista italiano ucciso qui a Sloviansk. Non avevo ancora collegato questo luogo a Andrea (Andy) Rocchelli, fotoreporter di Pavia, ucciso in Ucraina nel 2014. Ne ricordavo, a vaghe linee, la notizia, e il certo rumore che fece, in Italia. Andy fu ucciso, insieme al collega russo Andrei Mironov, a pochi chilometri dal centro di Sloviansk, vicino a Andriivka, oltre i binari del treno. Fu ucciso che aveva 30 anni. Fu ucciso sette anni fa, il 24 maggio 2014, mentre portava avanti un reportage fotografico dalla linea del fronte. Tre giorni dopo, il quotidiano La Stampa pubblicò in prima pagina una sua foto: un gruppo di bambini incastrati in una cantina per proteggersi dagli spari di artiglieria, illuminati da una luce fredda, circondati da enormi barattoli di verdura in conserva e marmellate. Andy sta sopra di loro, in cima alla ripida scala di legno, e inquadra i volti di otto bambini attraverso la cornice di pavimento, storta, dell’ingresso alla cantina.

Vitalii Markiv

Vitalii Markiv, il soldato ucraino di allora 25 anni che ha avuto un ruolo nella morte di Andy e Andrei, è stato prima condannato a 24 anni dal tribunale di Pavia, poi assolto per assenza di prove dalla Corte di appello di Milano, lo scorso novembre. Entrambe le sentenze, quella di condanna e quella di assoluzione, confermano la dinamica di quel 24 maggio: l’esercito ucraino uccise deliberatamente Andy e Andrei, aggiustando la mira dei mortai per centrare gli obiettivi, sparando dalla collina del Karachun verso il fosso dove Andy e Andrei (e un collega francese, ferito nell’attacco) si erano riparati. Le motivazioni della sentenza di assoluzione sono complicate, e dipendono da un cavillo procedurale (ne potete leggere qui: www.andyrocchelli.com). Vitalii Markiv, una volta scarcerato, fu riaccolto in Ucraina come un eroe. Ci furono anche manifestazioni per la sua liberazione fuori dalla Corte di appello di Milano – e tante altre ce ne furono a Kyiv e altrove in Ucraina. Sul sito www.euromaidanpress.com si può leggere un lungo articolo sulla sua vicenda, e sulle celebrazioni nel giorno del suo ritorno in Ucraina. Markiv, che in Italia è cresciuto e ha studiato (ed è cittadino italiano), in un’intervista rilasciata quel giorno ringrazia l’Italia per avergli insegnato i valori europei, e la perdona per gli errori che lo hanno costretto tre anni in un carcere. Sulla pista dell’aeroporto di Kyiv, appena sbarcato dall’aereo, ha dichiarato: “la sentenza pronunciata dal tribunale di Pavia [la sentenza di colpevolezza] ha dimostrato che la propaganda del Cremlino non ha limiti, ma la giustizia ora esiste”.

Le verità

Vitalii Markiv poteva chiamarsi Sergei Tselivac, poteva avere 35 anni, sua madre poteva chiamarsi Svitlana e non Oksana, sua moglie poteva chiamarsi Daria e non Diana. Vitalii poteva essere uno dei suoi commilitoni, che assieme a lui stavano preparando, nel maggio 2014, l’attacco a Sloviansk, per riprendere il controllo della città dai separatisti filo-russi. Vitalii è probabilmente stato sfortunato: quel giorno, al mortaio, poteva trovarsi qualcun altro, e lui essere di servizio al magazzino. La sorte di Andy e Andrei difficilmente sarebbe cambiata. Sloviansk, vale la pena ricordarlo, passò di mano senza una vera battaglia: le truppe separatiste decisero di ritirarsi verso Donetsk. La responsabilità della morte di Andy e Andrei è difficilmente contestabile: i colpi di mortaio provenivano da una collina sotto il controllo dell’esercito ucraino, e Andy e Andrei si trovavano in una zona controllata dai separatisti. Il governo ucraino, e con lui parte dell’opinione pubblica ucraina, sostiene invece Andy e Andrei siano stati uccisi dai separatisti filo-russi, e l’intera responsabilità sia attribuibile a loro. Sostengono che il processo a Vitalii sia parte della strategia di disinformazione russa, che mira a mostrare l’esercito ucraino e i battaglioni di volontari come carnefici senza pietà che sparano sui giornalisti.

Oggettività delle fonti, e dei ricordi

Su Wikipedia, la pagina in inglese dedicata a Vitalii Markiv è stata scritta in Ucraina, da un utente chiamato Trydence. Trydence è di sesso maschile, europeo, viene dall’Ucraina, è orgoglioso di essere ucraino, è di stirpe ucraina, vive a Kyiv, non fuma, ama la musica rock, appoggia la democrazia in Bielorussia, osteggia il comunismo sia nella teoria che nella pratica, appoggia l’entrata dell’Ucraina nella NATO e sa scrivere e leggere in cirillico. Nella sua prima versione della pagina dedicata a Vitalii Markiv, pubblicata nel gennaio 2018, scrive che Vitalii rimase in Italia fino al 2013, e poi tornò in Ucraina, per unirsi al Maidan, il movimento filo-europeista che rovesciò il governo di Victor Janukovyc e cambiò radicalmente la storia recente di questo paese. Nella mia memoria, quindi nella narrazione che ricordo di aver letto, quella fu una lotta a favore di una progressiva integrazione dell’Ucraina nell’Unione Europea (nacque, d’altronde, dalla mancata firma di Janukovyc dell’accordo di partenariato europeo), contro la corruzione e la cleptocrazia. Il sito euromaidanpress.com, quello che esulta per la liberazione di Vitalii Markiv e sostiene che il tribunale di Pavia fosse sotto l’influenza della propaganda russa, crede in una Ucraina democratica e unita, libera da pressioni e coercizioni straniere e basata sullo stato di diritto.

Vitos Gaumarjos!

Ieri ero seduto sugli scalini di fronte al Pantheon, a Roma. Ero molto stanco, e non avevo nessuna voglia di entrare con gli ospiti della Fondazione in mezzo a tutta quella gente. Annoiato, guardavo senza troppo interesse qualche post su Facebook, senza badare troppo a ciò che vedevo e leggevo.

Improvvisamente, mi appare una bella foto di Vitaly: i suoi occhi neri grandi, i capelli ricci e lunghi chiusi in un codino, la sua barba ben curata e folta e un mezzo sorriso che aveva spesso addosso. Vitaly è stata la prima persona amica che ho incontrato a Tbilisi: mi è venuto a prendere in aeroporto alle 4 di mattina, mi ha accompagnato in hotel e dato le prime nozioni della città. Durante le giornate del workshop è sempre stato occupatissimo e disponibilissimo, per sciogliersi quando, seduti a cena, parlava emozionato della tradizione georgiana del tamada, colui che gestisce i brindisi attorno a un tavolo. Vitaly era il vice-tamada del nostro tavolo, colui che può spiegare o completare il brindisi dopo il tamada. Vitaly è morto domenica notte, in circostanze improvvise e tragiche – come solo la morte di un ragazzo può essere. Era un bel tipo, Vitaly, e per quanto lo conoscessi appena non riesco a non commuovermi nel scrivere queste ultime righe. Lavorava con il progetto di Shelter City Tbilisi, che da ospitalità e protezione ai difensori dei diritti umani minacciati in altri paesi.

Mi viene da dedicargli, per quanto inutile il gesto, lo scritto di qualche giorno fa su Tbilisi.

Vitos Gaumarios! (A Vito!)

Contraddizioni o schizofrenie: Paul Malong

Paul Malong ha formato un nuovo movimento di opposizione al governo, il Fronte Unito del Sud Sudan. Nella dichiarazione resa pubblica, chiama a raccolta tutti i patrioti che credono in un Sud Sudan unito, non diviso dal tribalismo, un Sud Sudan dove viga lo stato di diritto, dove l’impunità non sia regola e la corruzione non sia sistemica. Paul Malong parla di come la popolazione stia soffrendo in Sud Sudan, di come i civili non riescano a procurarsi cibo, acqua, medicine, di come l’educazione sia al collasso e la sanità pubblica non esista, di come lo Stato sia sull’orlo del totale crollo finanziario. Paul Malong si scaglia contro il malgoverno del presidente Salva Kiir, contro l’enorme corruzione in tutti i ranghi, contro un’amministrazione che si accaparra i pochi fondi pubblici, contro i “gatti grassi” che continuano a mangiare sulla pelle della popolazione. Paul Malong sostiene che sia necessario costruire uno stato di istituzioni forti, non di uomini forti, perché sono le istituzioni a sostenere lo stato, non i singoli uomini. Paul Malong dichiara che il Fronte Unito del Sud Sudan farà parte dell’alleanza dei movimenti politici e militari che si oppongono al governo, dichiara che il Fronte Unito del Sud Sudan ha già sottoscritto l’accordo di cessate il fuoco, dichiara che vorrà sedersi al tavolo dei negoziati a Addis Abeba. Paul Malong si firma Comandante in Capo del Fronte/Esercito Unito Sud Sudanese – e questa è la prima volta che menziona di essere a capo di un esercito.

Paul Malong è abituato a comandare: è stato governatore dell’importante regione del Northern Bahr el Ghazal dal 2005 all’indipendenza nel 2011, per poi essere nominato da Salva Kiir (l’attuale e finora unico presidente del Sud Sudan) a capo delle forze armate sud sudanesi. Lo scorso novembre, con una mossa azzardata e pericolosa, dettata forse dal timore di un colpo di stato, Salva Kiir ha deposto Paul Malong, che prima a cercato di ribellarsi, poi è stato posto agli arresti domiciliari, poi ha invitato alcuni generali a ribellarsi, poi è riuscito a raggiungere Nairobi per farsi curare, per poi finire in Sudan e proclamare la nascita del Fronte Unito Sud Sudanese. Durante gli anni a capo dell’esercito, Paul Malong è stato responsabile di cruenti eccidi e massacri e ha comandato una temutissima unità paramilitare. Paul Malong, per capire l’importanza dell’uomo forte, veniva chiamato King Paul. Nel luglio 2016, quando Juba ripiombò nel caos della guerra civile dopo una breve tregua, le truppe sotto il controllo di King Paul hanno messo la capitale a ferro e fuoco. Paul Malong è accusato di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, commessi quando era a capo dell’esercito sud sudanese, ossia fino a 5 mesi fa.

Ganyiel – la parola agli ultimi

Ganyiel è un posto incantevole. Talmente bello che tanti ci vengono a vivere, per scappare dalle nefandezze della guerra, dai conflitti tra clan, dalle violenze e minacce dei soldati. Durante la missione a Ganyiel mi è capitato di incontrare molte persone, e di intervistarne qualcune. La parola a loro, che a Ganyiel sono gli ultimi: gli ultimi arrivati, e quelli che più soffrono.

“Mi chiamo Maria Nyaguat, vengo da una zona vicino a Bentiu, nello Unity. Ho lasciato il mio villaggio che ora non esiste più – molti se ne sono andati a Khartoum, alcuni hanno raggiunto la zona protetta dalle Nazioni Unite, alcuni sono andati a Fangak e altri qui in Panyijiar. Qui c’è sicurezza, e non vogliamo scappare di nuovo. Ci sono voluti sei giorni di cammino per arrivare da Bentiu a Mayendit, e allora mi sono fermata lì una settimana per riposare. Dopo sono riuscita a raggiunger la casa di mio zio qui, e sono stati altri 5 giorni di viaggio, un po’ in canoa, un po’ a piedi. Siamo arrivati in gruppo: io, la moglie di mio figlio, quattro bambini e altre due famiglie, in tutto una ventina, solo donne e bambini. Se avessimo viaggiato con gli uomini, ci avrebbero ucciso. Ma donne e bambini da soli li lasciano stare, solo qualche calcio e minacce”.

“Mi chiamo Nyabeth Makong. Ho lasciato Mayendit nel 2016 quando è la città è stata attaccata, mio marito è morto e quindi ora sono una vedova. Durante il tragitto nella canoa non ho avuto particolari problemi di sicurezza con i soldati: l’unica cosa che è successa è che mio figlio è caduto dalla barca, ed è annegato. Al momento sopravvivo raccogliendo frutti selvatici, supplicando un po’ di cibo dai vicini, e mangiando le ninfee. A volte riusciamo a pescare un pesce. Essere così vicino al fiume è bello, perché qualcosa da mangiare lo si trova sempre, ed è sicuro, non c’è la guerra”.

“Mi chiamo Angelina Nyatuat. Sono arrivata qui nel dicembre 2016, ero già cieca. La moglie di mio figlio ha camminato con me da G. a P., e poi mi ha messo in una canoa con altri ragazzini, anche loro venivano mandati in posti più sicuri. Tutto intorno al mio villaggio stavano ammazzando tantissime persone, ma la moglie di mio figlio ha deciso di rimanere e io sono venuta da sola. Ho camminato con lei da G. a P., poi ho preso una canoa fino a Mayendit e poi un’altra fino a Nyal. Prima di arrivare qui, la canoa sulla quale viaggiavo si è rovesciata e sono caduta in acqua. Tutto quello con cui viaggiavo, i miei soldi, la mia pipa, il mio tabacco, la mia coperta, il materasso e la zanzariera, tutto è caduto nel fiume, ma alcuni ragazzi mi hanno salvata tirandomi a riva. Hanno pagato loro per l’ultimo tratto di canoa, io avevo perso tutto. La famiglia del marito di mia figlia mi ha accolto bene, e ora sto con lei. Il mio unico problema è la malattia: non vado neanche al mercato perché le medicine sono troppo costose. Le cure che mi danno i medici mi confondono: io penso che me le spieghino bene, ma quando arrivo a casa ho già dimenticato tutto.”

I nomi sono di pura fantasia. Le storie, di pura realtà.

Mobruk e Pierluigi Cappello

È il primo ottobre, e qui non soffia un fiato di vento. Il mango nel cortile sta riacquistando le forze perdute, e le poche foglie rossicce ritornano al verde carico, un verde scuro sempre più scuro tra i suoi fitti rami. È il primo ottobre, sto sudando mentre il sole si avvicina pericolosamente al mio tavolo di plastica beige sul quale le braccia si incollano, sotto il patio davanti all’ufficio. Una mosca continua a svolazzarmi di mano in mano, di pelle in pelle; un’altra la insegue in una qualche baruffa aerea. È il primo ottobre, e le nuvole sparse non si muovono oltre la tozza papaia, di cui vedo la cima, al di là del filo spinato.

Oggi sono stato svegliato da quelli che penso siano ratti, acquattati tra il soffitto e il tetto: la domenica non sembrano riposare, e si danno da fare laboriosi, invisibili sopra la mia testa. Vorrei un gatto, ma il randagio che in tarda sera viene spesso a farci visita non è benvenuto dagli addetti alla sicurezza, che lo scacciano minacciando inseguimenti impossibili. I ratti invisibili si sono calmati all’arrivo del sole, quando l’intercapedine loro casa diventa calda e loro si rifugiano in qualche buco tra i muri vuoti. Ho ripreso sonno, nel mio letto sonoro a ogni movimento, uno stridere di polistirolo pressato sotto il mio materasso, per limitare il buco centrale nel quale sprofondo. Penso però sia vietato dormire la domenica oltre le otto e mezza: i soldati hanno deciso di svegliare i pochi ancora a letto come me con qualche lunga raffica di mitraglia. Non me ne spavento, si capisce che stanno solo provando delle nuove armi appena arrivate. Ma l’istinto è ormai prevalente: non rimani nel letto in mutande se senti sparare, anche se a chilometri di distanza.

La distanza dal mio letto al bagno la conto in venti passi. Quella dal bagno alla cucina, sono altri venti passi. Taglio i frutti della passione con una certa insistenza, da quando ho informato il mercato cittadino della mia golosità. Alcuni sono già fermentati: lo capisci dall’odore acre che emana la polpa, e dalla mancanza di liquido quando li apri. Li ripongo da parte, e affondo il coltello in un altro frutto sano, il cui succo mi sporca la mano prima che io svuoti la polpa nel colino. Dicono che il frutto della passione sia ricchissimo di vitamine, e io ci credo, e spero mi assolva dalle sigarette e dall’immobilismo sportivo, di cui non posso farmi colpa. Preparo il caffè nella piccola moka Bialetti: l’acqua bollente al posto di quella fredda, che la cucina a carbone ha tempi che mal si conciliano con un risveglio a ratti sul tetto e raffiche di mitraglia. Aspetto che l’acqua coli tra i semi viscidi dei frutti tagliati nella grande brocca azzurra di plastica; nel frattempo incastro la moka tra il carbone ardente e la teiera, sperando che non perda il suo equilibrio alquanto precario: non vorrei tingere di nero il pavimento grigio e la mia colazione.


Mobruk entra nel compound al suono cigolante della vecchia carriola, su cui carica quattro taniche di acqua alla volta, che saranno il mio sciacquone o la mia doccia. Mobruk ha sempre una faccia felice, anche se vive una vita miserabile. Mi sorride e lo saluto, bofonchia un good morning stentato, io non ho ancora bevuto il caffè e non riesco a ricambiare il sorriso. Penso che lui un po’ se ne risenta: qui se non c’è una vera ragione per essere tristi, bisogna sorridere. Mobruk non ha una vera ragione per essere triste, e allora sorride: in quella carriola ci sono quattro taniche di acqua che lui, cinquant’anni magri magri, ha pompato dal pozzo, ha caricato sulla carriola, trasportato al compound e scaricato riempiendo i barili. In quella carriola ci sono 20 sterline sud sudanesi, quasi 20 centesimi di euro, e quando anche l’ultimo barile sarà pieno, lui avrà intascato 100 sterline sud sudanesi, quasi un euro. In due giorni e mezzo di lavoro qui potrà permettersi una birra, o forse un bottiglietta di un pessimo gin ugandese. E Mobruk non lavora solo qui, racimola altri lavoretti con la sua carriola, presa in prestito da chissà chi. Non ha una vera ragione per essere triste, quindi mi sorride e bofonchia good morning. Non so molto di lui, ma tutti lo conoscono ancora da quando tutta la comunità viveva a Kotobi, qualche decina di chilometri da qui, dieci anni fa. Neanche Peter sa se abbia una moglie, dei figli. Ignoro dove viva. A volte lo vedo aggirarsi con quell’aria da cane randagio, e mi chiedo come facciano quelle gambe così magre a sopportare l’inezia del suo corpo. Lui spesso non mi vede, e allora lo saluto io urlandogli kef?, e lui mi risponde spesso ma batal, non c’è male. Da distante non lo vedo, ma sono sicuro mi sorrida.


È il primo di ottobre, e a Cassacco, in Friuli, a 4000 chilometri da qui, è morto il poeta Pierluigi Cappello. Come spesso mi accade, non lo conoscevo. Come spesso mi accade, lo leggo postumo, e i suoi testi mi commuovono, come a volte mi accade la domenica. E quindi chiudo la mail con uno stralcio di una sua poesia (‘Parole povere’)

Uno l’ho ricordato adesso adesso

in questo fioco di luce premuta dal buio

ma non ricordo che faccia abbia.

Uno mi dice a questo punto bisogna mettere

la parola amen

perché questa sarebbe una preghiera, come l’hai fatta tu.

E io dico che mi piace la parola amen

perché sa di preghiera e di pioggia dentro la terra

e di pietà dentro il silenzio

ma io non la metterei la parola amen

perché non ho nessuna pietà di voi

perché ho soltanto i miei occhi nei vostri

e l’allegria dei vinti e una tristezza grande.

Amici

Dopo quasi due mesi di snervante attesa, di tentativi falliti, di rifiuti dell’ultimo secondo e inviti disattesi, questa settimana siamo finalmente riusciti a uscire dai pochi chilometri quadrati che delimitano Mundri. Lo abbiamo fatto in maniera quasi frenetica, che c’erano tante comunità che meritavano di essere visitate e tanti amici da ritrovare, con cui confrontarsi. Abbiamo tenuto assemblee in sei località diverse nel giro di tre giorni, abbiamo ascoltato le difficoltà e le rimostranze di un centinaio abbondante di persone diverse, abbiamo stretto – come al solito – decine e decine di mani. Mani nodose, mani raggrinzite, mani enormi con pollici enormi, mani con indici callosi dal contatto con il metallo del grilletto, mani insicure e mani molto più sfrontate, mani amiche.

Nel tipico salutarsi del Sud Sudan, la mano si stringe in maniera diversa a seconda di chi incontri: a una persona rispettata – un anziano, un capo tradizionale – stringo la mano destra ponendo la mia sinistra sopra le nostre; a un giovane ragazzo a cui voglio provare la mia vicinanza, stringo la mano più volte, alternando prese con il palmo aperto a prese con il pollice e le dita attorno alla sua mano; a una vecchia mama trattengo la sua mano senza stringerla, ponendo la mia sinistra sopra il mio polso destro, in segno di rispetto; a un amico che non vedo da tanto tempo stringo la mano e poi la pongo sopra la sua spalla destra, mentre lui fa lo stesso, in un abbraccio che rispetta le distanze dei corpi.

La parola ‘amico’ è particolare, in questo contesto. A volte mi trovo a utilizzarla con estremo pudore, quasi con timore di essere inopportuno. In un contesto normale, farei fatica a identificare come amico chi imbraccia un kalashnikov. Qui, ho ben poca scelta, e loro mi dicono di averne avuto ancora meno. Il mio lavoro mi obbliga ad andare oltre la divisa, oltre gli oggetti caratterizzanti, per scoprire la persona che ci si nasconde. In questa ricerca, quando fruttuosa, penso risieda la possibilità dell’amicizia. Che poi immagino sia reciproca: anche gli altri devono spogliarmi del mio lavoro, del mio ruolo privilegiato da internazionale protetto e ben pagato che lavora grazie a disgrazie altrui, per riuscire a considerarmi amico.

Quando questo sforzo di svestizione riesce, e quando a questo ci si aggiunge la necessaria dose di simpatia e affinità, nascono bei rapporti umani, che trovano i loro minuti spazi prima o dopo attività programmate, nelle quali le differenze, le divise, sono invece fondamentali.

Così l’altro giorno mi trovavo a scherzare con un amico rispetto ai suoi recenti ‘problemi di salute’ – due pallottole in corpo – e ai rischi del mestiere, invitandolo tra le sue e mie risate alla cautela. Un po’ come invitare un’elettricista a non toccare mai i fili della corrente senza prima averla staccata: in poche parole, un invito stupido. Oppure parlavo tranquillamente con un altro amico dei problemi nel trovare i soldi per mandare una delle figlie a scuola, lui che tra figli legittimi e ragazzi che considera tali si prende cura di 12 persone. Gli basterebbero 100 dollari, mi dice, e io devo in fretta rimettergli addosso la divisa e rimettermi addosso la mia, per ricordarmi che questa amicizia non prevede favori – almeno qui, almeno ora. Oppure incontro un altro amico, uno che mi sta molto simpatico per essersi firmato George W. Bush sulla scheda partecipanti di una formazione qualche mese fa, e ironizzo sulla sua tenuta ufficiale da avvocato, la toga nera lunga e la fascia ufficiale attorno al corpo – un formalismo che non mi sarei per nulla aspettato visto il contesto (un villaggio di capanne di bambù, con solo la chiesa in muratura).

Sono amicizie strane, e mi piacerebbe avere l’opportunità di parlare tranquillamente del più e del meno, della loro vita, della famiglia lontana, delle differenze che ci separano e delle somiglianze che ci uniscono. Le divise diverse che portiamo – i nostri ruoli – me lo impediscono.

Cartolina da Kediba

Retro della cartolina, a mo’ di spiegazione:

Venerdì scorso mi è capitato di ritornare a Kediba, una cittadina fantasma che avevo già visitato qualche settimana prima. Per capire meglio la situazione della popolazione che vive attorno alla cittadina avevamo deciso di organizzare, attraverso una personalità del posto, un incontro con circa trenta rappresentanti di diversi settori della popolazione (rappresentanti dell’amministrazione locale, leader tradizionali e religiosi, portavoce di gruppi di donne, di giovani, di insegnanti).

La strada verso Kediba è una di delle peggiori della regione, anche perché da diversi mesi non viene più utilizzata. Attraversiamo un ponte fatto di tronchi mezzi bruciati con il fiato sospeso. La strada attraversa però una vegetazione gloriosa e incontaminata, e nei primi quindici chilometri non c’è segno di vita umana attorno. Passiamo vicini alla capanna dove durante il primo viaggio un soldato dell’opposizione ci aveva intimato lo stop. Questa volta non c’è nessuno.

Già qualche chilometro prima di Kediba iniziamo a osservare uno strano via vai di persone sulla strada, che salutano estremamente felici al nostro passaggio: tutte sembrano seguire la nostra direzione. Peter ipotizza forse stiano andando a una celebrazione importante in chiesa, e forse ci stiano scambiando per qualche vescovo o prelato importante. Arrivati a Wandi, qualche chilometro da Kediba, ci troviamo davanti a un centiaio di persone radunate sotto il mango centrale, sul lato destro dello spiazzo principale che costituisce il centro di Wandi. Incuriositi, decidiamo di fermarci per chiedere cosa stesse succedendo: un leader locale ci informa che nella chiesa è passato il messaggio che la popolazione si sarebbe dovuta ritrovare tutta assieme, perché ‘qualcuno’ sarebbe arrivato. Io, Peter e Idi ci guardiamo abbastanza increduli, e timidamente speriamo di non essere noi quel ‘qualcuno’.

Le nostre flebili speranze svaniscono una volta raggiunta Kediba: la cittadina si è magicamente ripopolata, ci sono persone ovunque. Per capire quello che sta succedendo, decidiamo di incontrare l’autorità locale con la quale ci eravamo accordati per un incontro con trenta persone. Due le opzioni possibili: in due settimane la situazione è migliorata a tal punto che l’intera popolazione ha deciso di ritornare a vivere a Kediba; l’autorità locale ha capito male il nostro messaggio (o l’ha travisato di proposito), e ha riunito l’intera popolazione per incontrarci.

Chiaramente, la risposta corretta è la seconda, e lui ha organizzato un’assemblea pubblica, nella quale parleranno tutti i rappresentanti maggiori, e chiaramente anche noi di Nonviolent Peaceforce.

L’immagine della cartolina

Sono in piedi dietro a una scrivania e di fronte a tante, troppe persone. Non ho mai parlato a un pubblico così vasto, o forse si, durante qualche manifestazione. Ma allora non penso che molti mi stessero a sentire. Qui a Kediba, queste persone (mille? millecinquecento?) si sono ritrovate per descrivere a me e alla mia organizzazione la loro situazione, le loro priorità e preoccupazioni. Io ho la faccia sorridente, emozionata e vagamente tesa. Ho appena finito di ascoltare l’intervento della leader del gruppo di donne locale, che mi ha mostrato i frutti e le radici selvatiche sulle quali la popolazione basa la propria sopravvivenza alimentare. Prima di lei, un leader tradizionale spiegava come l’aiuto umanitario dovesse arrivare prima della vera stagione delle piogge, che renderà il passaggio in automobile impossibile.

Parlo con voce chiara e ben ritmata, per permettere a chi capisce l’inglese di capirmi e a Idi, che mi traduce nella lingua locale, di comprendere bene quello che intendo. Accanto a me siede la massima autorità civile del posto; dietro di me, un buon numero di soldati. L’immagine della cartolina mi vede però di spalle, e quindi si può osservare davanti a me un numero imprecisato di donne, di bambini attenti e lattanti, di uomini.

Sulla mia destra c’è una ragazza giovane, minuta, con lineamenti eritrei e una maglietta blu scuro; vicino a lei una donna allatta la sua bimba, che di tanto in tanto frigna per poi calmarsi; dietro di loro si intravede un signore con le linee tribali ben marcate sul viso, cinque linee orizzontali che solcano la sua fronte; di fronte a me, un po’ nascosta dai miei capelli, seduta su una radice del secondo mango, c’è una donna grassa e sorridente, e vicino a lei un vecchio cieco; dietro di loro un gruppo di ragazze si stringe nell’ombra, cambiando posizione al muoversi del sole; sulla sinistra della foto una donna con un vestito fucsia e belle rughe a scavarle il viso siede su una stuoia di bambù (il moderatore le chiede di spostarsi un po’ più in la, che devono passare le persone che parlano); dietro di lei, qualche centinaio di teste più in là, siedono su due sedie pieghevoli due leader religiosi: uno ha una bella barba bianca e una postura nobile, e siede vicino a sua moglie, una donnina tutta tendini e sorrisi, e l’altro fra poco chiuderà l’assemblea con una preghiera eterna; sul ramo basso del mango sotto il quale siedono i religiosi, si sono arrampicati due ragazzini per vedere meglio. Ah, davanti a me, un po’ nascosta dalla scrivania, si può vedere una bambina di forse un anno: è la seconda volta che prova ad avvicinarsi alle mie gambe muovendosi a gattoni, e io sarei quasi tentato di farla venire e prenderla in braccio, ma come al solito la madre si alza a raccoglierla.

Sto per dire quello che la mia organizzazione può e non può fare per la popolazione: un leader locale, durante il suo discorso, mi ha pregato di non mentire, e cerco di essere il più sincero possibile. La mia organizzazione può passare il loro messaggio a chi si occupa di portare aiuti tangibili, come cibo, medicine, semi; la mia organizzazione non può assicurare che questo messaggio verrà accolto dalle altre organizzazioni, tanto meno che queste reagiranno in tempi brevi, se mai reagiranno.

Ma la mia organizzazione può, e io in particolare devo, non dimenticarmi di tutte queste persone, non dimenticarmi che Kediba non è una città fantasma, che c’è una comunità che vive e lotta con tutti i suoi mezzi per sopravvivere, e che ha bisogno di aiuto. Che Kediba esiste, ed esistono le persone che vedete in questa cartolina.

Per questo motivo mi sono dilungato nel cercare di descriverne alcune. Non ho questa foto, e devo allenare la mia memoria, e cercare di fare in modo di rispettare l’impegno preso con 1500 sconosciuti, che si sono trovati in un venerdì di maggio per parlare con Nonviolent Peaceforce e che mi hanno applaudito fiduciosi quando ho detto ‘Arboya’, ‘grazie’ in lingua locale, commosso.

James

James siede su una sedia sdraio di paglia blu, sotto il più maestoso albero di mango che io abbia mai visto; i rami pesanti e bassi sono sorretti da grossi bastoni, sui quali si arrampicano pigre formiche arancioni. Tutto intorno razzolano galline più o meno spelacchiate, che a turno si rincorrono e nascondono sotto i rottami di un vecchio fuoristrada con dei massi al posto delle ruote.

Siedo su una vecchia pietra tombale e osservo i due operatori di un’organizzazione umanitaria porre le loro domande, attraverso un interprete locale, al vecchio James. Non penso che mai ci siano state così tante facce bianche all’ombra di questo mango. James siede con le gambe incrociate, e mentre racconta la fuga e l’approdo della sua gente abbraccia un bambino dai vestiti raffazzonati, forse uno dei suoi tanti nipoti, che rimane in piedi accanto alla sedia, poco interessato alla conversazione. Non so chi mi ricorda, James: avrà quasi settant’anni e una robusta barba riccia e bianca sul volto, una rarità per la gente di questa regione, che egli deve potersi permettere solo grazie al rispetto che suscita. Alle domande degli operatori, risponde senza enfasi nè vittimismi, e spiega fermo e con una certa serenità i motivi che lo hanno spinto a muovere la sua comunità dal luogo di origine – luogo di razzie e scontri, controllato da una parte in conflitto – al luogo dove ora si trovano – luogo di razzie ma meno scontri, controllato dall’altra parte in conflitto. Non si sente vittima del conflitto, ma rimarca la completa assenza di assistenza di qualunque genere per la sua gente.

Quando giunge il nostro turno di parola, lascio che sia il mio collega sudsudanese, figlio di questa terra, a portare avanti la conversazione, senza che io senta il bisogno di farmi tradurre alcunché. Io, nel frattempo, mi soffermo a osservare la postura elegante del vecchio James, che non si lascia tradire dalle infradito sfondate e dalla camicia bucherellata qua e là, e dai pantaloni di varie taglie piu grandi del necessario. Con il gomito appoggiato sul bracciolo della sedia segue la conversazione con gesti stretti del polso e delle dita, a indicare luoghi e sottolineare frasi. Il suo sguardo non si increspa mai, anzi si fa piu penetrante e lucido quando, in inglese, ci dice che anticiperà il nostro viaggio per assicurarci una presenza sicura.

James si scusa, e si alza per andare a pisciare nella latrina di canne di bambu pochi metri piu in là. Il nipote trotterella via con i pantalocini blu ben al di sotto della linea delle natiche.

Sulle tracce di Enzo G. Baldoni – parte ottava

Eduin, il ragazzo dagli occhi di aguardiente

Cos’è successo al Cartucho me lo racconta, in termini minimi, Eduin, un ragazzo con gli occhi spenti e la mano incollata alla bottiglia di aguardiente. Mi si siede affianco nel parco del Planetario, mentre sto scrivendo seduto sul prato. È un ragazzo curioso e sembra abbia voglia di fare due chiacchiere. Mi chiede dell’Italia, di cosa ho visto in Colombia, di cosa sto scrivendo. Gli chiedo del Cartucho e mi dice che l’hanno ripulito i poliziotti, ma che ora è anche peggio perché chi viveva li ora si è sparso in tutta la città. Gli chiedo se c’è un altro posto che è nato dopo la fuga dal Cartucho. «C’è il barrio ‘L’» risponde «se vuoi possiamo andarci, ti accompagno io». Beve un altro sorso e mi offre la bottiglia, che rifiuto cordialmente. Lo guardo negli occhi mentre impreca contro la politica, contro il governo, contro i ricchi ed i poliziotti. Ha 23 anni. Mi alzo, lo ringrazio della chiacchierata, gli dico che purtroppo non ho proprio tempo per venire con lui alla ‘L’. Indeciso sul da fare gli offro una sigaretta e gli allungo 2000 pesos, e mi sento sporco di fortuna e di tutte le buone occasioni che mi ha dato la vita. Mi chiede di aggiungere uno zero alla banconota che gli porgo, di farli diventare 20000. Gli dico che se anche lui mi veda così, ben vestito per andare ad un pranzo, non ho molti soldi. Va bene, raccontiamoci un’altra cazzata.

Il Cartucho – mi raccontano poi amici-di-amici – è stato smantellato tra il 2003 e il 2007, dopo la costruzione del Parque del Tercer Milenio. Gli abitanti sono stati sfollati o uccisi, ci sono stati forti scontri. Il quartiere che ha preso il suo posto nell’infame compito di accogliere, trattenere e contenere tutte le persone che la città non vuole vedere e mostrare su chiama «el Bronx». Poca fantasia, questi colombiani.