Babushka e patronimici

Babushka

Sotto casa mia – una palazzina grigia di quattro piani sulla strada principale del centro, con ingresso rialzato sul retro del palazzo, di fronte a uno sgarruppato cortile e parcheggio male organizzato – stazionano stabilmente, dalle sei alle otto di sera, tre babushka, tre nonnine. Che poi non penso siano poi così anziane, forse hanno da poco superato i settant’anni, forse sono alla soglia dei settant’anni. Si autodefiniscono nonnine (è una delle poche cose che capisco quando le incontro sulle scale e mi lasciano il passo, “пожалуйста, я бабушка” mi dicono, “passa prego, io sono una nonnina”) e aderiscono perfettamente all’ideale della nonnina di città. Ogni volta che torno a casa con qualcuno mi sento i loro occhi addosso, un po’ protettivi un po’ giudicanti: io le saluto, loro ricambiano all’unisono; ogni volta che chiudo il portone di ingresso con un poca attenzione, e questo sbatte pesante nel suo metallo militare grigio, sento il loro sguardo di disapprovazione sulla schiena, e sguscio dentro il palazzo senza voltarmi. L’altro giorno tornavo da una corsa, sudatissimo (l’estate qui è torrida): una di loro, la mia vicina di casa, si alza dalla panchina vedendomi arrivare, e mi fa cenno con la mano di avvicinarmi. Così faccio, e inizia una simpatica conversazione nella quale, in qualche modo, ci capiamo (la farò breve: ogni mese la babushka raccoglie 25 grivna da ogni appartamento della scala per pulire le scale – io non avevo ancora pagato il mese). Salgo a casa, mi faccio una doccia e scendo con le 25 grivna (ma ho solo un pezzo da 50, quindi pago per due mesi), e a quel punto colgo l’occasione per chiedere come si chiamino, le mie babushka: avrei fatto fatica a ricordarmene tre, di nomi, così concentrato com’ero nel non sbagliare di troppo le mie poche frasi in russo per bofonchiare un “меня завут даниеле”. Di nomi però me ne arrivano sei. Ovviamente, non ne ricordo mezzo.

Patronimici

Eppure lo avrei dovuto sapere, che di nomi me ne sarebbero arrivati sei, e non tre. Anzi: da qualche mese speravo di avere la possibilità di presentarmi a una signora che, nel dirmi il suo nome, avesse aggiunto il patronimico. Irina Ivanov’na. Tatiana Antonov’na. Evgeniia Alexandrov’na. Io di letteratura russa sono assolutamente digiuno, però associo il patronimico a ambientazioni letterarie, a mondi ottocenteschi o del primo novecento (prima della Rivoluzione d’Ottobre, anche se pure Lenin era Vladimir Ilyich). Quindi speravo, un giorno, di riuscire a rivolgermi, con tutto un rispetto pomposo un po’ macchietta, a una Anastasiia Petrov’na. O di imitare quella coppia di amici vicina al divorzio, che durante le discussioni un po’ più animate smettono di chiamarsi con il nome proprio e usano solo il patronimico, più per provocazione che per rispetto. E di nuovo mi trovo affascinato da come ci chiamiamo e facciamo chiamare: avevo appena lasciato l’Iraq, dove il rispetto porta a chiamare un padre e una madre con il nome del primogenito (Umm Muhamad, Abu Sharif), e ora in Ucraina mi trovo a dover conoscere il nome del padre, e non del figlio. Immagino voglia dire qualcosa, rispetto all’importanza del passato o del futuro, di ciò che è stato rispetto a ciò che verrà, di chi saremo rispetto a chi siamo stati.

Intermezzo, utile a capire quanto segue: nel ristorante da dove sto scrivendo, davanti al mio tavolo siedono tre donne molto belle, di diverse età – da quanto capisco e origlio, sono tutte e tre madri, e non me ne stupisco. Una di loro mi ha appena sorriso, dopo aver goffamente urtato il mio tavolo: si stanno concedendo qualche giro di cognac e cola. Tre tavoli più in là, due uomini della mia età stanno bevendo qualche birra di troppo, cercando di attirare le attenzioni della cameriera con grandi e simpatiche sbracciate (sempre meglio del девочка!, ragazza! con il quale qui si apostrofa la cameriera di turno). Mi sono fatto una risata alla loro coreografica ultima sbracciata, e ho alzato il bicchiere di birra per un brindisi a distanza. Ho smesso di ridere con loro, e di scambiare lo sguardo, quando ho visto che, nascondendosi poco e goffamente, stavano scattando fotografie delle tre donne di fronte al mio tavolo, guardandole con fare lascivo.

L’obbligo del padre

Per chi se lo fosse chiesto, il patronimico è un obbligo. Fa parte del nome ufficiale, ed è indicato nei documenti di identità. Per chi se lo fosse chiesto, il matronimico non esiste. Un giorno ho avuto il coraggio di chiedere a una collega: e chi nasce senza un padre? Temevo una pratica simile al nostro superato (ma non troppo) di NN, nomen nescio, con la quale si indicavano fino agli anni settanta i figli di padre sconosciuto. Qui la soluzione adottata è diversa: si indica il nome del padre della madre. Perché un padre è necessario, non se ne può fare a meno. Nessuna delle persone con cui ne ho parlato ci vede un grande problema – fa parte della tradizione, mi dicono. La lingua russa ha ancora enormi sessismi, che io vedo problematici e chi mi circonda meno: un uomo che si sposa “si prende moglie” (жениться, il verbo è riflessivo), una donna che si sposa “va dietro a un marito” (letteralmente, она вышла затуж). Questo penso significhi qualcosa, e quando provo a parlarne mi dicono che questa è una lingua antica, ma la realtà è diversa. L’altro giorno ho proposto a un amico di annunciare il suo matrimonio dicendo che starà “dietro a una moglie” – una soluzione più riparatrice che trasformatrice, lo so, e non so se la prenderà in considerazione.

Aggiornamento dal ristorante: il ragazzo sbracciante è venuto a chiedermi se stessi scrivendo un libro, visto che siedo così serio dietro il computer. Parlava un bell’inglese con un accento forzatamente americano, e ci siamo fatti due risate a caso mentre mi diceva le due parole di italiano che sa (cazzo di cane denota un minimo di fantasia in più rispetto al classico vaffanculo). Una delle donne nel tavolo davanti a me si è girata verso di me, a conversazione finita, e mi ha fatto un mezzo applauso. Al mio что? Cosa? mi ha detto, un po’ brilla, “you are a very beautiful boy”. Io ho sorriso un po’ imbarazzato, pensando all’uso del boy, ragazzo al posto del man, uomo, proprio ora che sto cercando di riconciliarmi con i miei trentadue anni e i primi, evidenti, capelli bianchi.

Krumstedt / Villorba

La campagna mi era familiare, eppure non ero mai stato lì. Itzehoe, Meldorf, Krumstedt. Paese, Carità, Villorba. Si sentiva solo, un po’ più pronunciato, l’odore del mare, ma la distanza era quasi la stessa. Itzehoe, Meldorf, Krumstedt. Paese, Carità, Villorba.

Romano Marchi detto Angelo, tra l’estate del 1943 e l’estate del 1944 passò dalla campagna di Paese, Carità, Villorba alla campagna di Itzehoe, Meldorf, Krumstedt. In mezzo, l’autunno del 1943 in Albania, l’inverno del 1944 in treno e la primavera dello stesso anno, tra Brema e Amburgo.

Romano Marchi detto Angelo è mio nonno, e mi chiedo se anche a lui, al primo arrivo, quella campagna dovesse sembrargli familiare. Ne dubito.

I documenti ufficiali del Regio Esercito Italiano mi dicono che il 10 giugno del 1943 Romano Marchi è rientrato nella 605esima compagnia mitraglieri in Albania, il 17 settembre del 1943 è catturato dalle forze armate tedesche e internato in Germania, l’8 maggio 1945 è liberato dalle truppe inglesi, il 22 agosto 1945 rimpatriato dalla prigionia. I documenti ufficiali del Terzo Reich mi dicono che dal 20 agosto 1944 al 17 maggio del 1945 è stato occupato come aiuto contadino, a Krumstedt (buffo come l’occupazione sia perdurata nove giorni oltre la liberazione). La memoria di mio nonno Angelo, ora, mi dice meno di queste scarne informazioni.

Nel marzo 2011, mentre studiavo a Berlino, mi ritrovai un po’ per caso ad Amburgo. L’anno prima, Romano Marchi detto Angelo aveva ricevuto la Medaglia d’Onore come cittadino italiano deportato e internato nei lager nazisti. La richiesta di concessione della Medaglia d’Onore fece riemergere, in famiglia, vari documenti storici di quegli anni e io, bilingue tedesco per fortuna e coincidenza, li lessi come un grande regalo. Sentivo anche di dover saldare un debito per un altro regalo, quello perso: parecchi anni prima, quando ancora la memoria non vacillava, Romano Marchi detto Angelo, mio nonno, si era lasciato intervistare, davanti a un registratore, nella cucina della vecchia casa contadina di Villorba, riguardo alla sua esperienza nella Seconda Guerra Mondiale. Quella cassetta non riuscì più a trovarla, e tutt’ora mi sembra la più grossa perdita materiale della mia vita. Ero ad Amburgo, e Itzehoe, Meldorf, Krumstedt distavano solo poche decine di chilometri. Sentivo il dovere morale, oltre alla curiosità, di andarci.

Mio nonno non ha mai parlato molto della Seconda Guerra Mondiale, anche se sarebbe più corretto dire che mio nonno non ha mai parlato molto e basta. Tornato in Italia sposò Filomena Pizzolato, che in quegli anni l’aveva aspettato; tra il 1948 e il 1966 ebbero quattro figli e quattro figlie; fino a qualche anno fa ha continuato a lavorare, instancabilmente ma sempre più stanco, una campagna di pura sussistenza: c’era poco tempo per le parole. Con le figlie e i figli solo accennava, vagamente, a qualche ricordo della prigionia. Con la moglie, non lo so dire, ma non penso si dilungasse in confessioni. Con me bambino, quel giorno, seduti al tavolo in cucina in un pomeriggio di tarda primavera, mi aveva raccontato della cartolina, spiegato cosa fosse una piazza d’armi, dell’appendicite che quasi lo ammazzava, del ritorno in Albania e la consegna ai tedeschi, del viaggio in treno, verso la Germania, del tempo passato a Brema e a Amburgo a ripulire le strade dalle macerie, della malattia, della famiglia di contadini che l’aveva preso a lavorare, fino alla liberazione. Soprattutto il racconto di questa famiglia mi restò impresso: mio nonno ne parlava con riconoscenza, quasi con gratitudine, convinto che senza di loro non sarebbe mai tornato a casa. Ero ad Amburgo, ed ecco che i debiti diventavano due: la cassetta smarrita e un ringraziamento a chi, per eterogenesi dei fini, aveva permesso la sopravvivenza di mio nonno, la nascita di mio padre, la mia esistenza.

Krumstedt è un piccolo paesino di campagna, a qualche decina di chilometri dal confine con la Danimarca, nello stretto lembo di terra che dalla Germania continentale si spinge, senza un motivo apparente, verso nord. Per arrivarci, da Amburgo, si prende un treno fino a Itzehoe, poi un altro verso Meldorf, e poi da lì ci si arrangia per gli ultimi 10 chilometri. Seguivo la traccia di un documento: l’Arbeitsbuch für Ausländer del Reich tedesco – ancora oggi l’idea che nel 1944 la Germania nazista avesse chi si occupava di redigere un libretto di lavoro per stranieri a ogni prigioniero di guerra internato mi lascia incredulo. L’Arbeitsbuch sbagliava di un giorno la data di nascita di mio nonno (il 20 febbraio 1921 invece del 21), ma mi indicava il villaggio, Krumstedt, un nome, Heinrich Hennings, e una professione, Landes Betrieb, lavoro agricolo. Una veloce ricerca online mi diceva che a Krumstedt una famiglia di nome Hennings rimaneva. Valeva la pena tentare una visita.

Chi mi sarei trovato davanti? La Germania ufficialmente ha fatto i conti con il suo passato nazista, e nel 2011 i movimenti di estrema destra come Pegida e Alternative für Deutschland dovevano ancora mostrarsi. Però non tutti hanno voglia di rivangare il passato, e io non potevo sapere cosa ne fosse successo di Heinrich Hennings, ammesso che non fosse ancora vivo. Krumstedt è un paesino, ma ci sono ben un ristorante e un bar, che danno ristoro principalmente ai ciclisti che sfruttano le poco trafficate stradine di campagna. Era un sabato di inizio marzo, eppure non faceva freddo, e splendeva un bel sole che veniva voglia di camminare. Mi aggirai per il paese senza una meta, per capirne la fisionomia e fantasticare su quale casa fosse quella della famiglia Hennings. Krumstedt mi sembrava invecchiato abbastanza da non essere troppo diverso a quello di settant’anni prima: un piatto villaggio sonnolento con poco da offrire, oltre alla vasta campagna attorno. Case dai tetti spioventi, antichi e arrugginiti attrezzi agricoli nei cortili, un vecchio molino a vento a cui erano cadute le pale. Difficilmente le fattorie hanno insegne, e trovare quella della famiglia Hennings seguendo il fiuto sembrava complicato. Entrai nel ristorante, per bere qualcosa e chiedere informazioni. Era affollato di una famiglia in festa, forse per un compleanno, e non mi sembrava il luogo adatto per abbozzare una conversazione. Gironzolando trovai anche il bar, in una vecchia Dorfgemeinschaftshaus, una sorta di casa del popolo tedesca. Per mia fortuna era aperto, e una ragazza più o meno della mia età si mostrò stupita a vedere entrare una persona sconosciuta, dal vago accento straniero. Mi sedetti al bancone, ero l’unico cliente, e feci due chiacchiere con lei, che dopo una laurea a Amburgo aveva deciso di tornare al paese di origine, per gestire il piccolo bar. Costruita quella minima fiducia che permette di parlare di sé, le dissi della mia ricerca, e le chiesi se conoscesse la famiglia Hennings. La conosceva, e la fattoria non distava che qualche centinaia di metri; mi disse che erano persone tranquillissime, molto dedite al lavoro di campagna, e mi indicò la direzione. Rincuorato, uscì dal locale e mi avviai verso l’indirizzo. Ora veniva il difficile: come presentarsi, una volta suonato il campanello? Quali parole usare? Trovai la casa in fondo a una piccola stradina di campagna come molte: una casa di mattoni rossi a due piani, con il tetto spiovente massiccio e il granaio alle spalle. Il campanello diceva Familie Hennings: ero arrivato. Suonai quasi con pudore, mi rispose una voce di donna. Penso di averle detto: “Sono Daniele Marchi, uno studente italiano. Ho dei documenti che dimostrano che mio nonno ha lavorato qui, settant’anni fa”. Non ricordo esattamente cosa rispose lei, prima di aprire la porta; ricordo che a un certo punto la porta si aprì, e una signora dell’età di mia madre, alta con i capelli biondi corti e gli occhiali mi guardò stupita. Le mostrai le copie dei documenti che tenevo nello zaino, e lei riconobbe la firma del suocero, il signor Heinrich Hennings. Si mostrò incredula e incuriosita, e mi disse di entrare, che avrebbe chiamato il marito, che era ancora con le bestie nei campi. Mi accomodai in cucina: era una casa di campagna, una campagna un po’ più benestante di quella di mio nonno, con le stesse foto di famiglia alle pareti, i radiatori antichi e i mobili di legno. Nell’attesa, mi sentivo incredibilmente piccolo di fronte alla storia che stavo ripercorrendo.

La signora mi offrì un caffè, e mi disse che il marito sarebbe arrivato presto (ho dimenticato tutti i nomi di quella famiglia). Nel frattempo mi chiese di raccontare la storia di mio nonno, e io le dissi quello che sapevo, dicendole di come Romano Marchi detto Angelo fosse riconoscente a quella famiglia, che gli aveva salvato la vita. Mentre aspettavamo il marito, lei decise di fare alcune chiamate alle sorelle di lui che, più anziane, sicuramente dovevano ricordarsi qualcosa; lei invece era nata durante la guerra, e di quel periodo aveva solo informazioni di seconda mano. Parlò con sua nuora nel dialetto locale, che è un miscuglio difficilmente comprensibile di tedesco e danese, con qualche reminiscenza di inglese – e io non potevo non pensare al dialetto trevigiano, incomprensibile per chiunque non sia veneto. Mi passò la cornetta del telefono, e all’altro capo una voce di donna anziana mi raccontò che certo, si ricordava di un uomo italiano durante gli ultimi anni della guerra in cui lei era poco più che adolescente, e si ricordava di come questo le facesse il filo, promettendole di portarla con sé in Sicilia. Ovviamente, non parlava di mio nonno (che, oltre a non essere siciliano, faccio enorme fatica a immaginare guascone con le ragazze del luogo durante la prigionia), ma alcune storie sono troppo belle per essere smentite. Decisi di rispondere, semplicemente: “Das werde ich nicht meiner Grossmutter erzählen!” – questo no, non lo racconterò a mia nonna.

Altri documenti ufficiali mi dicono che a mio nonno fosse permesso, per esempio la domenica, muoversi liberamente nel villaggio, e che non fosse tenuto sotto custodia al di fuori delle ore lavorative. Come pensare a quelle domeniche di tempo di guerra in una remota campagna tedesca, con questi strani prigionieri di guerra quasi Gastarbeiter (i lavoratori stranieri, diventati poi centrali nella ricostruzione tedesca dopo la Seconda Guerra mondiale) che si muovono liberamente per il paese, e questo giovane siciliano che cerca di impressionare una ragazza tedesca parlandole di un futuro in Sicilia? Mi manca l’immaginazione per pensare a una situazione tale, perché della Seconda Guerra mondiale ho conosciuto attraverso scuola e libri soprattutto la ferocia, la brutalità e la determinazione dell’annientamento (e l’eroismo, il valore, e la lotta partigiana), e a volte mi dimentico che quella narrazione è necessariamente parziale, perché anche la guerra più annichilente è fatta di uomini e donne, spinti da desideri, da bisogni necessità e sogni, di uomini e donne. Perché anche la guerra più annichilente è una parte del vissuto, che può ingigantirsi ma non diventare il tutto: rimarrà sempre, per quanto nascosta, una speranza del poi.

Arrivò il marito, un uomo alto e allampanato sulla settantina, con gli occhiali e la tuta da lavoro, i capelli radi bianchi. Arrivarono anche i due figli, anche loro dai campi: uomini forti, robusti, dediti e gioviali. Furono sorpresi di sapere di me e della storia di mio nonno, eppure non ricordo quella sorpresa come qualcosa di troppo evidente o sbalorditivo. Era più uno strano diversivo a un sabato pomeriggio qualunque. Ripercorremmo, anche con le foto, la storia della famiglia Hennings, e mi fecero vedere alcune foto d’epoca, della famiglia riunita. Heinrich Hennings era anche lui sul fronte, durante la Seconda Guerra Mondiale, e per uno strano caso del destino combatté sulla Linea Gotica, sembra vicino a Rimini. Il padre, che all’epoca era poco più che un bambino, mi mostrò vecchi dipinti della casa, com’era un tempo, e qualche struttura – una scala, una porta – che esisteva anche all’epoca. Mi disse più volte che i lavoratori come mio nonno mangiavano su un tavolo a fianco alla cucina, e mangiavano lo stesso cibo che veniva preparato per tutti – non ce n’era tanto, che tutto era razionato. Patate, cavoli, altri tuberi. Mi disse che lui se li ricordava bene, e si ricordava che venivano trattati bene. Mi disse che, grazie al cielo, il nazismo aveva perso, che sennò chissà cosa sarebbe successo – e in queste parole non ci vedevo alcuna circostanza, ma una chiara e semplice presa di posizione.

Con una fetta di torta nel piatto e un caffè, parlammo di altro: della loro campagna, della mia famiglia e della loro, delle vacche, della vita a Krumstedt, dell’esperienza di uno dei figli, qualche anno prima, in una fattoria in Nuova Zelanda. Mi ritrovai a mio agio in quel mondo contadino che gira su sé stesso, con e come le stagioni e i cicli di vita di una vacca.

Itzehoe, Meldorf, Krumstedt. Paese, Carità, Villorba. La mia famiglia e la famiglia Hennings. Sovrapponevo, quel pomeriggio, due campagne e due storie che un vezzo della storia ha voluto fare incontrare. Nell’esperienza di Romano Marchi detto Angelo, nato a Villorba il 21 febbraio 1921, parte della 605esima compagnia mitraglieri, catturato dalle Forze Armate tedesche, internato in Germania e liberato dall’esercito inglese, non posso dimenticarmi che il protagonista è un contadino, non un soldato né un prigioniero di guerra. Solo un errore della storia, un virus guerrafondaio, l’hanno costretto a vestire i panni del soldato e del prigioniero di guerra, ma lui non è mai entrato nella parte. Un contadino che ha sempre sopravvissuto nella campagna.

Appunti misti / 2

Proteste, che alcuni chiamano rivoluzione (parte seconda)

Le città dell’Iraq meridionale sono ancora attraversate da grandi proteste e dalla reazione violenta del governo. Non capisco molto delle proteste, che anche qui hanno la caratteristica di non essere guidate, di rifiutare il concetto di leadership, di contestare apertamente tutti i vecchi modelli di spartizione del potere, sia esso tribale, politico, religioso. L’aspetto più interessante sembra essere la voglia di rivalsa nazionale espressa dai manifestanti a Baghdad e nelle altre città: le interferenze americane e quelle iraniane vengono ugualmente contestate, e un consolato iraniano è stato incendiato dai manifestanti. Il ruolo dell’Iran nella repressione delle proteste ha un certo peso nel comportamento del governo iracheno, sia riguardo alla gestione delle proteste che nella persistenza del governo del primo ministro Mahdi. Dopo un altro bagno di sangue – quasi 300 morti in due giorni – Madhi ha deciso di rassegnare le dimissioni. E ora non si capisce bene cosa avverrà: l’Iraq potrebbe essere pronto per nuove elezioni, ma sembra meno pronto per riforme politiche strutturali che possano soddisfare le richieste di chi manifesta.

Il pacco del governo

Detta così può sembrare un’informazione collegata a quanto scritto sopra, e in parte lo è. I cittadini iracheni hanno diritto, ogni mese, a un pacco di aiuti alimentari e di generi di prima necessità che ricevono direttamente dal governo. Il pacco è una politica ereditata dal regime di Saddam Hussein. Oggi contiene poca roba, del riso, dei legumi, olio, un buono per la benzina. Ai tempi di Saddam, mi dicono, il pacco conteneva di tutto, e in grande quantità: le persone a cui ho chiesto informazioni ricordavano soprattutto la schiuma e le lamette da barba, e le sigarette. Ogni pacco, che veniva distribuito a tutte le famiglie, indipendentemente dalla loro condizione, conteneva almeno una stecca di sigarette. Non mi stupisce che gli iracheni fumino così tanto. La distribuzione avveniva, e ancora avviene, famiglia per famiglia: ogni nuova coppia di sposi si registra per ricevere l’apposito documento. Questo processo ha anche un risvolto inatteso, legato al ritorno delle popolazioni sfollate. In molti check-point i soldati chiedono di vedere il documento e controllano che nessuno dei membri del nucleo famigliare compaia nella lista di miliziani e simpatizzanti dello Stato Islamico. Per quanto possa sembrare macchiavellica, questa scelta ha degli aspetti positivi: un fratello di un miliziano dello Stato Islamico, qualora uno dei due faccia parte di un altro nucleo famigliare, non verrà rispedito nei campi sfollati (discorso a parte per i padri, purtroppo).

Il quarto nome

La questione dei nomi – di come ci chiamiamo – mi affascina, e mi ricordo colleghe sud sudanesi ridere di me che sapevo solo il nome di mio padre, mio nonno e mio bisnonno (e solo grazie alla fortuna di avere un padre primogenito), mentre loro ricordavano perfettamente i nomi dei loro antenati fino alla quattordicesima generazione. Qui in Iraq una persona ha un nome solo, seguito nei documenti dal nome del padre e da quello del nonno. In una società tribale, organizzata per clan e sotto clan, questo permette di sapere esattamente chi è chi. C’è però un grosso problema, con risvolti drammatici: l’omonimia. Molti cittadini assolutamente innocenti sono stati incarcerati perché il loro nome era uguale a quello di un miliziano dello Stato Islamico. Alcuni di loro sono morti in carceri sovraffollate, soprattutto durante la liberazione dei territori controllati dallo Stato Islamico. L’omonimia è resa ancora più probabile da alcune tradizioni religiose in fatto di nomi: un uomo di nome Mohammad chiamerà probabilmente il suo primo figlio Qasim, così come fece il Profeta (pbsl). E va da sé che un Ali spesso chiami suo figlio Hassan. Gli agenti della sicurezza nazionale avevano quindi il loro bel da fare nel capire quale dei dieci Hassan Ali Abdullah (nome di fantasia) fosse il pericoloso ricercato. Aggiungeteci poi che tutti i miliziani dello Stato Islamico agivano a volto rigorosamente coperto, e le cose si complicano ancora di più. Per questo, in molti check-point, i soldati più gentili chiedono al malcapitato omonimo di presentare una copia del documento d’identità del padre, nel quale ci sarà scritto il suo quarto nome, quello del bisnonno.

L’obbligo del figlio

Il nome proprio e quello del padre perdono d’importanza, quantomeno nel vivere comune, nel passaggio all’età adulta. Hasan Ali Abdullah diventerà Abu Mohammad – padre di Mohammad – nel momento in cui chiamerà il suo primogenito Mohammad. La regola è quasi interamente dedicata al primo figlio maschio, anche se mi dicono che ci sono padri chiamati con il nome della prima figlia – io non ne ho conosciuti. Alcuni uomini decidono di farsi chiamare con il nome del figlio ancor prima di averlo avuto, perché già sanno come si chiamerà, e già sanno che avranno un figlio. Anche le donne lo sanno, che un figlio dovranno averlo, ma a loro non è concesso il lusso di pensare al nome in anticipo. Un figlio bisogna averlo, è d’obbligo. L’obbligo del figlio è molto più forte dell’importanza del sentimento, ampiamente opzionale. E l’obbligo del figlio è questione di famiglia, di clan, è questione di onore e di prestigio. La pressione sociale attorno all’obbligo del figlio è fortissima, e può portare un uomo innamoratissimo della propria moglie a vedersi costretto a sposarne un’altra, senza alcuna voglia, per potere rispettare il suo obbligo. Non pensiate che ci sia molto spazio per il libero arbitrio, a meno di non voler rinunciare al rispetto del padre, degli amici e della propria comunità.

Ayadiyah – l’acqua (الماء)

Ayadiyah è un paese che sembra di montagna, incastonato nella conca di un piccolo fiume, sotto un colle piatto e lungo di terra rossa e un altro piccolo promontorio sul lato opposto. Sorge quasi nascosto, come tutti gli altri villaggi abili nel mimetizzarsi con le tinte aride della stagione secca, e non ha alte costruzioni o antenne a segnalarne, da lontano, la presenza. Sulla strada da Tel Afar, quasi appare improvvisamente dietro una curva a destra, poco oltre un vecchio magazzino di attrezzi agricoli. La strada è un sali-scendi di ponti in costruzione e buche, ai cui lati sono disseminati diversi rottami di auto incendiate. Spesso, sui fianchi delle colline spoglie, si intravedono vecchi tunnel richiusi da un muro di pietre. L’indicazione stradale prima di entrare al villaggio dice: dritti per il centro, a destra per Mosul.

Il punto di incontro. Durante un’emergenza c’è sempre un punto di incontro. Ci si trova, ci si conta, ci si organizza. Ayadiyah era il punto di incontro per i miliziani dello Stato Islamico nel caso qualcosa fosse andato storto a Tel Afar. Ayadiyah era il posto tranquillo, dove vivevano molte delle famiglie, isolato rispetto a Tel Afar, snodo militare e amministrativo dello Stato Islamico.

Io faccio fatica a immaginarla, Ayadiyah, tra il giugno del 2014 e il settembre del 2017. Qualcuno mi ha raccontato di Tel Afar, di come lo Stato Islamico avesse imposto le sue regole poco alla volta alla popolazione locale, di come abbia distrutto la fortezza ottomana, di come la città fosse un importante luogo di passaggio tra Mosul e Raqqa, in Siria. Ma di Ayadiyah durante quegli anni so poco, e temo che non saprò molto mai. Chi conosco non c’era, e chi c’era non penso abbia alcuna voglia di parlarne. Ecco che io allora immagino Ayadiyah come il lato umano dei miliziani dello Stato Islamico in questo angolo di Iraq. Se a Tel Afar smerciavano le donne yazide schiavizzate, trasportavano armi, distruggevano e uccidevano tutto quanto non fosse in linea con il loro pensiero, a Ayadiyah avevano le loro famiglie, i loro bambini che correvano attorno ai cortili, le galline che razzolavano la strada polverosa. Ayadiyah era il momento di stacco, dove anche il poliziotto della hisba poteva chiudere un occhio se il vecchio incontrato per strada stava fumando una sigaretta. La immagino come il luogo sicuro, la casa, alla quale ritornare. E l’ovvio punto d’incontro se le cose si fossero messe male.

Le cose si misero male a fine agosto 2017, quando l’esercito iracheno, le milizie filo-iraniane, i peshmerga curdi, le unità di mobilitazione popolare, con l’aiuto dell’aviazione statunitense, riconquistarono prima Mosul, e poi rapidamente Tel Afar. I miliziani dello Stato Islamico rimasti ripararono a Ayadiyah, e ingaggiarono una battaglia durata dieci giorni – un tempo considerevole, per un villaggio di qualche migliaio di persone. Il tranquillo villaggio di Ayadiyah diventato l’ultima roccaforte dello Stato Islamico nella grande provincia di Niniveh. La distruzione fu pressoché totale. Chi tornò a Ayadiyah dopo la liberazione dallo Stato Islamico si trovò di fronte un paese sparito tra i colori aridi della terra attorno, perché del paese era rimasto ben poco.

Ora la vita a Ayadiyah ha ripreso il suo corso, come però rallentato, più resistente e modesto, rispetto a cinque anni fa. La compresenza di nuovi piccoli negozi incastrati tra le macerie di un primo piano barcollante, comune a tutte le città distrutte dalla guerra, dà allo stesso tempo un senso di precarietà e di fermezza. Un barbiere taglia i capelli a poco prezzo, tra una casa sventrata e una rasa al suolo. La fortezza di Ayadiyah, come quella di Tel Afar, non esiste più, ché la furia iconoclasta dello Stato Islamico si è espressa anche qui (ecco che la mia immaginaria narrazione, già di per sé fasulla, vacilla). Alcuni fori di proiettile sui muri sono stati riempiti di stucco, alcune pareti sono state ricostruite. Le macerie di qualche casa completamente distrutta sono state rimosse, mentre gli scheletri di calcestruzzo armato di molte strutture rimangono lì, pendenti. All’interno di qualche edificio – un’abitazione, una vecchia scuola – si intravedono ancora gli oggetti personali di chi ci aveva vissuto o studiato, segno che nessuno, anche per la concreta paura di mine e proiettili inesplosi, ci è mai tornato.

Ma la mia collega si è fidanzata, ed è felice, e un gruppo di giovani auto-organizzati ha ripulito e ristabilito quella che mi dicono essere la fontana del villaggio. Non avendola mai vista, chiedo di poterci andare, a mo’ di saluto all’Ayadiyah che rinasce.

Camminando una prima e forse ultima volta tra i vicoli in salita della parte vecchia del villaggio, tra le rovine delle costruzioni storiche in pietra, con le loro belle volte ormai a vista, ci si imbatte in pochi, pochissimi abitanti. Camminiamo tutti assieme, siamo una decina, e la nostra presenza quasi turistica sembra invisibile e nota a tutti. La fontana è nascosta dietro a un piccolo promontorio di case, rovine e immondizia, in una piccola conca. Un forte odore di zolfo ci accoglie nell’avvicinarci. L’inglese è lingua straniera di tutti, e la fontana non è una fontana: è una sorgente di acqua sulfurea, una volta usata come bagno termale. Il gruppo di giovani auto-organizzati ha rimesso attorno alla sorgente delle larghe piastrelle bianche e risistemato la scalinata, dando una sensazione di anfiteatro alla piccola grotta da cui nasce la sorgente. L’acqua è limpida e trasparente, vagamente turchina. Un collega riempie una bottiglia di plastica e me la regala.

Ed è difficile, difficilissimo, non pensare a un’altra sorgente, a un’altra acqua sulfurea, maleodorante e benefica, con cui mi sciacquavo la faccia qualche mese fa: Srebrenica. Srebrenica con la sua camminata salutare fino alle terme Guber e il colore rosso della roccia; Srebrenica con i suoi segni ancora evidenti della guerra, e i progetti vaghi per sfruttare nuovamente quell’acqua salutare.

Srebrenica e Ayadiyah, due esperienze così lontane e così vicine, nel segno comune di un’acqua che puzza e purifica. Me ne vado da qui con il cuore più leggero, e la sensazione di aver unito altri due punti di chissà quale disegno.

Tbilisi, Georgia

La discussione tra il prete ortodosso – una bella tunica nera lunghissima, una barba bianca macchiata e folta, un bel testone pelato e lucente – e un gruppo di ragazzi sembrerebbe essere interessante. Ovviamente, non capisco nulla, e mi posso godere solo quest’omaccione vestito di nero con il rosario in perenne movimento tra le mani, e i suoi stivali neri quasi militari. Penso parlino di società, di libertà, di modi di vivere – ma lo intuisco dall’unica parola che per caso capto, la versione georgiana dell’aggettivo “omosessuale”. Ma poteva tranquillamente trattarsi di altro.

Mi sembra di capire qualcosa di più quando una donna di mezza età viene incontro, con passo traballante, alla panchina dove sono seduto. Potrebbe avere tra i 40 e i 60 anni, e mi bofonchia qualcosa nel suo essere completamente ubriaca; io non provo nemmeno a dirle che non capisco cosa stia dicendo. Mi sorride, per quanto le permettano i suoi pochi denti, mi prende le mani, mi accarezza la testa. La prendo come una benedizione in queste prime ore a Tbilisi.

La città ha fascino, certamente. Ha fascino il centro storico, con il suo mescolarsi di rinnovato e decadente, per quanto fascino possano avere vecchie case diroccate di cui si intravede la passata bellezza, e di fronte alle quali turisti curiosi si scattano fotografie. Curiosi, perché per camminare queste stradine di seconda mano in salita almeno un po’ di curiosità ci vuole; mi chiedo quanto resisteranno ancora queste case cadenti, i balconi di legno ricamati, le finestre che a stento mantengono l’originale perpendicolarità, le crepe sui muri. L’architettura tradizionale georgiana occupa molto spazio per una città in crescita, e i cortili interni sono luoghi bellissimi, caotici e economicamente inutili: la gente ci stende la biancheria, gli onnipresenti gatti ci fanno casa, vecchie auto ci trovano un improvvisato cimitero. I cortili serviranno sempre meno, sulle strade secondarie del centro città battute dai turisti curiosi.

Il resto dei turisti meno curiosi, un numero sempre più consistente, frequentano le strade restaurate stracolme di ristoranti di dubbio gusto estetico, hotel a ogni porta, procacciatori di gite in barca, di gite in autobus, di gite in funivia a ogni angolo. Qualche enorme casinò rovina la vista del fiume Kura e del saliscendi collinare sul quale poggia Tbilisi. Sia chiaro: è tutto fuorché brutto. Ma è il lato nuovo, bonificato, di una città in grande fermento.

Davanti al grande centro commerciale che si affaccia sulla Freedom Square, e per buona parte dell’eterno viale Shato Rustaveli, c’è un denso via vai di persone, tra bancarelle di libri, hippies che vendono artigianato dal dubbio valore, musicisti o futuri tali che cercano di tirare su qualche Lari. Passo davanti a un ragazzo mentre attacca due accordi secchi, riconoscibilissimi: The wind of change, degli Scorpions. Non l’ascoltavo da anni, e non mi era mai capitato di sentirla suonare per strada da un ragazzo poco più che ventenne. L’ho trovata vagamente paradigmatica di questo paese in continuo e rapido cambiamento.

Il vento del cambiamento – o quantomeno la versione politica cantata dagli Scorpions – è soffiato forte in Georgia nel 2003, con la Rivoluzione delle Rose capeggiata da Saakashvili, presidente della Georgia dal 2004 al 2013. Mikhail Saakashvili è un personaggio controverso, romanzesco, e in queste giornate a Tbilisi non ho capito se venga odiato, rimpianto o semplicemente dimenticato. Dopo essere stato eletto – forse meglio proclamato, con il 96% dei voti – nel 2004, Saakashvili iniziò un’operazione tutt’altro che semplice: modernizzare la Georgia, eliminare la corruzione e l’insicurezza che regnavano nel paese, per avvicinarlo all’Occidente, Europa e Stati Uniti. Nel 2004 era il più giovane presidente al mondo: George W. Bush lo portava sul palmo della mano, qualcuno diceva che sarebbe stato ricordato come il Nelson Mandela del ventesimo secolo, l’Unione Europea ammirava benevola e le organizzazioni per i diritti umani, seppur con qualche distinzione, registravano con sorpresa il crollo delle pratiche corruttive, dei crimini violenti e dell’insicurezza.

Ma è chiaro che la politica, specie quella di radicale cambiamento e quella che pretende risultati immediati, non può avvenire senza compromessi forti. Per Sakaashvili il compromesso fondamentale riguardava i metodi di governo: il fine giustificava molti, troppi mezzi. Mezzi pubblici, come l’aumento esponenziale della popolazione carceraria, un paranoico giustizialismo e un controllo ossessivo e capillare del territorio, la mano libera a pratiche di tortura. Mezzi personali e privati, che nel suo caso – almeno così si dice – si traducevano nell’abuso di cocaina. Nel 2008 vinse nuovamente le elezioni, ma del Mandela del ventesimo secolo rimaneva ormai poco o nulla, il consenso popolare e quello internazionale scricchiolavano e poi, fatto non da poco, c’era una guerra che bussava alla porta, letteralmente, di Tbilisi. L’odiato orso russo (difficile però dire quanto, o da quando) tornava a riprendersi angoli di territorio che riteneva suoi.

Saakashvili resistette qualche anno, poi, accettando la sconfitta alle elezioni parlamentari del 2012, abbandonò il paese. Non lo fece proprio di sua spontanea volontà: in Georgia venne accusato di diversi crimini, tra cui l’abuso di potere, che lui sosteneva motivati politicamente. Si rifugiò in Ucraina e sostenne il movimento Euromaidan nel 2014, facendo attivamente politica e non nascondendo il suo obiettivo di ripetere lì le riforme fatte in Georgia. Ricevette pure la cittadinanza ucraina, il che lo privava di quella georgiana, e diventò governatore della regione dell’Odessa. Non fece i conti con un piccolo problema: un conto è riformare (con epurazioni e controlli, ma anche con l’aumento degli stipendi dei dipendenti pubblici) un paese di tre milioni di abitanti, un altro è affrontare la realtà di un paese di ben altre dimensioni.

L’esperimento ucraino fallì di lì a poco, e Sakaashvili si rifugiò prima negli Stati Uniti, poi in Olanda, poi forse in Polonia e ora bene non si sa. Di certo gli è stata tolta anche la cittadinanza ucraina e ora, a poco più di cinquant’anni, è un apolide ex-molte cose.

È davvero complicato capire cosa i georgiani pensino di Sakaashvili: molti cercano di evidenziare che aveva ottimi collaboratori, ma che lui non era un granché. C’è chi mi dice che, più semplicemente, si era bevuto il cervello, anche a causa delle droghe. Però nessuno rimpiange le riforme fatte in quel periodo: l’amministrazione è stata profondamente riformata, l’apparato di polizia sanificato (oggi la sede centrale della polizia, un enorme, futuristico palazzone all’ingresso della città, è quasi completamente costruita in vetro, e gli agenti hanno numeri identificativi sulle loro divise), la burocrazia drasticamente ridotta, il che ha permesso di attirare capitali stranieri e nuovi investimenti.

Questo aspetto sembra preoccupare qualche georgiano: i capitali stranieri che arrivano hanno spesso il volto olivastro di qualche emiro del Golfo, di ricchi iraniani o il passo pesante di qualche oligarca russo. Ossia, di coloro che storicamente hanno spaventato, occupato, dominato la Georgia. I georgiani sono persone di un orgoglio profondo verso la loro terra e la loro cultura: non ho parlato con nessuno che non la consideri la più bella del mondo, o che non ne decanti le tradizioni. Hanno una lingua molto particolare, un alfabeto cuneiforme unico nelle regioni caucasiche, una tradizione culinaria e specialmente enologica antichissima. L’idea che qualche altro possa conquistarla, sia manu militari che manu pecuniae, con i soldi, li infastidisce parecchio. Se poi “l’altro” è, poniamo, degli Emirati Arabi e non, poniamo, americano o europeo, la cosa li infastidisce ancora di più.

Cammino (come sempre cammino molto quando non so dove andare) in un quartiere residenziale vicino alla stazione. Stavo cercandone un altro, di quartiere, ma non capisco come non riesco a trovarlo, ed è il secondo giorno di fila che vado in esplorazione. Il casualissimo e forse poco attendibile articolo trovato su internet mi parlava di un quartiere vibrante, ricco di ristoranti e posticini carini: quello dove sto camminando, e che avevo intuito dovesse essere lo stesso grazie a Google Maps, non ha nulla di tutto ciò.

È un quartiere residenziale, difficile dire se vecchio o nuovo, perché le case sembrano in perenne costruzione, o in perenne instabilità. Ci sono solo loro, qualche bottega di quelle con la frutta e la verdura esposte in strada, qualche piccolissimo bar rinchiuso in una baracchetta di legno. Sono in un posto abbastanza centrale della città, ma mi sembra di essere in un villaggio di montagna dai ritmi lenti, le strade strette e in salita, i melograni davanti a casa, i grassi grappoli di uva a maturare ancora appesi sui balconi, i cani e i gatti pigri, solo qualche vecchio che ansima sulle strade ripide. Mi perdo (come sempre mi perdo molto quando cammino) seguendo però un obiettivo preciso: perdersi abbastanza da non sapere dove si è, ma non troppo da non sapere più come ritrovarsi.

Penso di iniziare a capire cosa attragga così tanti turisti tedeschi verso questa città: non sono solo i club di musica elettronica che fanno invidia a Berlino – tra tutti il Bassiani, una specie di Berghain georgiano –, sono le contraddizioni che si vedono (calmo/frenetico, rurale/cittadino, nazionale/internazionale, tradizionale/moderno), le situazioni che si respirano, il Wind of change che soffia ma non impetuoso. Tbilisi è poor but sexy, povera ma attraente, il motto che era stato coniato per Berlino più di dieci anni fa.

Una cosa mi stupisce particolarmente: Tbilisi è la città nella quale, quantomeno nel quartiere governativo e turistico, ho visto più bandiere dell’Unione Europea sventolare affianco alla bandiera nazionale. Per ogni bandiera bianca con le croci rosse ce n’è una blu con le stelle in cerchio, davanti agli uffici pubblici, davanti al tribunale, davanti alle biblioteche. Sembra che la Georgia faccia parte dell’Unione Europea, o quantomeno ne stia per diventare stato membro a breve (in realtà, fa solo parte della politica di vicinato, senza avere prospettive di membership). La prospettiva europea però non manca, e un amico a cui chiedo il perché mi guarda stupito, e dice che siamo solo noi europei a non capire l’importanza dell’Unione – io non ho molta voglia di iniziare una complicata discussione sullo stato dell’Unione, e mi accontento di compiacermi che l’ideale europeo sia ancora vivo, da qualche parte.

La Madre della Georgia, l’enorme monumento che campeggia sulla collina nobile di Tbilisi, guarda austera la città, con una coppa di acqua in una mano e la spada nell’altra, a indicare che gli amici troveranno accoglienza e ristoro, e i nemici resistenza e ribellione. Resta da capire, come sempre, che faccia avranno i prossimi amici.

Mayendit

L’orizzonte è piatto, un’infinita distesa di terra bruciacchiata qua e là, paglia secca e qualche palma. Curiose protuberanze si ergono, ritmate, nel paesaggio, segno della pazienza laboriosa di milioni di formiche. La terra è grigia, arida, rotta in solchi profondi. Un serpente spaventato si rifugia in una delle tante crepe. Capre brucano il poco verde rimasto, rincorrendosi sui cumuli di terra. Ogni tanto, una palma più alta delle altre, addirittura un palmeto – e sembra proprio un miraggio da cartolina.

Si riconosce, laggiù sulla sinistra, l’incerto passaggio di un fiume: la monotonia del giallo tradisce una macchia verde, e grossi uccelli sconosciuti svolazzano. Più lontano, molto più lontano di quanto l’occhio immagini, un gregge di vacche pascola annoiato. La sagoma delle capanne, con quel loro tetto alto, vagamente panciuto, e quello strano pennone finale, rende l’immagine di tante pagode disperse, quasi una valle birmana di templi. Una capanna grande, due capanne piccole ai lati – al centro le vacche, ai lati le persone. La capanna grande è quasi sempre vuota: le vacche sono altrove, o spesso non ci sono più. Chiedo a una donna se i ragazzini che non vedo con lei siano con la mandria. Scrolla le spalle, sorride: quale mandria? Di vacche non ce ne sono rimaste: sono state tutte prese. Una volta, si. Una volta le famiglie sceglievano, due ragazzi una ragazza un uomo, a vivere assieme alle vacche, per le vacche, seguendo le necessità delle vacche. L’uomo seguiva la mandria, non il contrario.

Ora delle vacche non rimane che il ricordo. Ma non è un ricordo morto: l’uomo ricorda, sa quando la vacca è stata rubata, sa come riconoscerla, è sicuro che la riconoscerebbe anche ora, anche tra altre mille vacche. I nuer hanno infiniti modi per descrivere una vacca, a seconda del manto, delle chiazze sul collo, del colore della coda, delle macchie di leopardo sul ventre. Le combinazioni sono infinite, e il nome si ripete nella famiglia, che la vacca più bella merita che il suo nome sia quello della prima figlia, dopo il matrimonio. La vacca è tutto, e della vacca tutto si usa, più di una volta: lo sterco diventa difesa contro le mosche e le zanzare, una volta essiccato e bruciato; poi, quando è bianco-cenere, diventa un naturale dentifricio, che rende i denti bianchi e forti. Ora non mi stupirò più quando vedrò un bambino giocare con lo sterco, e nessuno dirgli nulla.

Rileggo la bibbia antropologica di Evans Pritchard, scritta non lontano da qui, quasi novant’anni fa: un bambino gioca ancora con la sagoma di fango di un bue, identica a quella disegnata a pagina 39. La vacca sposa, la vacca risolve i conflitti, la vacca ingrassa la famiglia, la vacca dona latte e sangue, la vacca insegna il rispetto e la necessità, la vacca è essenziale, la vacca è una misura di ricchezza e di forza; l’uomo finge di domare la vacca, ma ne è schiavo, come di qualsiasi ricchezza che necessiti cure e attenzioni.

Il conflitto, più che la modernità, sta cancellando lentamente le tradizioni: il potere si è evoluto male, non ha rispettato la bilancia naturale degli eventi, ha armato gruppi più e meglio di altri, ha permesso che l’equilibrio delle razzie – un po’ a me, un po’ a te – si rompesse. L’attacco è avvenuto a sorpresa, e tutto sembrava bruciare: raccogli i bambini, e scappa verso le isole, dove quei mostri corazzati non ti potranno seguire. Gli uomini provano una disperata protezione, poi scappano anche loro. Non c’era tempo per prendere le vacche, che docili si sono sottomesse al nuovo padrone.

Qui, ora, non ci sono quasi più vacche: molte sono state razziate, ed è difficile andarsele a riprendere, che bisogna essere ben armati per attaccare una mandria. Ma dammi una mandria lontana, e ti saprò riconoscere la mia yang en kuäc, la mia vacca dal manto maculato, la mia yang en kwe chot, tutta scura con il muso bianco e senza corna. Anche se sono passati anni ormai, la riconoscerò – anche perché devo ancora pagarci un pegno, con quella vacca. Le vacche sono presenze virtuali, ora: sono come le azioni di un qualche investitore testardo, che non diversifica il suo portafoglio. Le vacche sono presenze virtuali, ma sono ancora tutto quello che la cultura insegna, trasmette, promette. L’uomo rimane da solo, con gli altri infiniti membri di una famiglia che non si rinnova – non si rinnova senza la vacca. L’uomo segue la vacca, e senza la vacca non sa dove andare.

L’uomo va in città, studia, lavora, guadagna: non dimentica il villaggio, non dimentica la mandria, non dimentica le corse a perdifiato a inseguire i vitelli, non dimentica i salti che da bambino faceva sopra la mucca più alta, per competere con gli altri. Non dimentica, ma ne parla già come un mondo scomparso, come un rimpianto, come una speranza consunta.

Di stregoni, magie e cose vere

Il vecchio James. Ve lo ricordate? Un uomo sulla settantina, elegante nonostante le infradito sfondate, la camicia bucherellata e i pantaloni di qualche taglia più grandi della sua. Lo incontrai a aprile, sotto un rigoglioso mango tra tombe famigliari, galline che ruzzolavano sotto un vecchio pick-up, un suo nipotino con il culo scoperto che gli giocava tra le gambe e la sua guardia del corpo sonnecchiante qualche metro più in là. Mi aveva impressionato il suo fare distinto, la sua barba bianca, il suo parlare distaccato. Era – e probabilmente è tutt’ora – il leader di una comunità di sfollati, che avevano trovato rifugio a una ventina di chilometri da qui.

Non l’ho più rivisto, il vecchio James, ma la sua presenza mi è stata accanto spesso in questi mesi. Era un personaggio enigmatico, in grado di muoversi tranquillamente, senza timori, tra le linee del conflitto; non è da tutti. James aveva condotto la sua comunità verso un territorio controllato dal governo, dopo che il loro villaggio era stato attaccato e conquistato dalle forze dell’opposizione. Questo voltare le spalle alla nuova autorità, che vuol dire lasciare campi incolti e quindi meno cibo per tutti, viene normalmente considerato una presa di posizione, punibile con la vita. Non per lui. James può parlare con tutti, e tutti lo rispettano: quando lo incontrai eravamo in territorio governativo, eppure lui tranquillamente ci diceva che avrebbe parlato con ‘quelli là fuori’ per facilitare il nostro passaggio.

Ma c’era altro che mi incuriosiva di James: io gli davo al massimo settant’anni, forse qualcuno di meno. I miei colleghi insistevano ne avesse più di ottanta, che aveva già combattuto nella prima guerra civile sudanese con gli anyanya, quindi nel 1955, poi nella seconda nel 1972, poi a fianco dell’SPLA a partire dal 1983, nella guerra civile che portò all’indipendenza del Sud Sudan nel 2011. Quando ne chiesi conto a Idi, uno dei miei colleghi, dovetti farmi assicurare per tre volte che stessimo parlando della stessa persona. Oltre all’età, non mi era per nulla facile immaginarmi James come un soldato di lungo corso: era un uomo di una corporatura tutt’altro che imponente, dallo sguardo mite, certamente non battagliero. Eppure.

Eppure i miei colleghi, e altre persone con cui mi è capitato di parlarne durante gli ultimi mesi, mi raccontavano di lui come di uno dei guerrieri più temuti, dei comandanti più valorosi, delle autorità più rispettate. Il suo potere non sta nella forza fisica, mi dicevano, raccontando di storie di guerra nelle quali lui ordinava al suo battaglione di rimanere indietro mentre lui, da solo, ingaggiava la battaglia contro il nemico. Queste storie si colorivano di particolari diversi a seconda del narratore (alberi che cadevano al suo passaggio, nemici che battevano in ritirata al solo vederlo), ma il succo rimaneva quello: James poteva combattere una battaglia da solo, e vincerla. Per questo nessuno osa fargli del male, e lui può tranquillamente parlare con soldati governativi un giorno, e con quelli dell’opposizione il giorno dopo.

James è un personaggio raro, ma non unico. Appartiene a quella specie anche qui in via di estinzione: persone dotate di poteri speciali ai quali la gente crede. Nella mia cultura, raccolta tutta nella certezza del rapporto causa-effetto e della dimostrazione empirica, il solo credere ha poca importanza. Le storie di James, per quanto affascinanti, trattavano di un passato di difficile identificazione, perso tra tre guerre civili e situazioni abbastanza lontane da quella che vedo.

Succede però che un’avanzata militare sia incombente sulla regione, in questi giorni. Le truppe, in numero consistente, si trovano a una sessantina di chilometri da qui, in una cittadina. Per evitare defezioni e problemi di controllo, i comandanti ordinano ai soldati di spostarsi fuori dalla città, in un piccolo villaggio. I civili, spaventati dall’orda di militari non stipendiati che occuperanno il villaggio, lasciano i tukul centrali e si rifugiano nella foresta. Puntualmente, i soldati razziano quel che trovano, malmenando e forse uccidendo i pochi che hanno la sfortuna di essere rimasti nelle loro case. Tra di loro c’è un vecchio, che appoggiato al muro di fango del suo tukul suona una chitarra tradizionale. Arrivano i soldati, gli intimano di alzarsi, lo prendono a male parole, gli ordinano di consegnarli tutto quello che possiede. Il vecchio continua a suonare la chitarra, senza prestare alcuna attenzione. I militari si spazientiscono, gli tirano un calcetto, gli puntano i fucili automatici alla testa. Il vecchio, imperterrito, suona la chitarra e non risponde. Un soldato perde la pazienza, l’indice teso trema sul grilletto, la pressione aumenta fino a premerlo: l’arma fa cilecca, e il vecchio continua a suonare. Le facce dei soldati cambiano tono. Quello deluso dall’indice teso guarda il fucile contrariato, si gira, mira un albero distante e fa fuoco: il colpo parte. Il vecchio non si impressiona, e continua a suonare la chitarra. Il soldato, rinvigorito, punta di nuovo l’arma verso il vecchio: l’indice è di nuovo teso, che sparare a un albero distante o a una testa a un metro da te deve fare una certa differenza. Ma c’è l’onore da salvare, perché il vecchio ancora non implora pietà e suona la chitarra. Il dito preme il grilletto; l’arma ancora s’inceppa. Il vecchio continua a suonare la chitarra, anche mentre i soldati scappano.

Un altro gruppo di soldati entra in un compound disabitato: i civili sono già scappati. In una stanza aperta, del miele. I soldati ci tuffano le mani, si leccano le dita, ne riempiono bottiglie, avidi. Al ritorno all’accampamento, hanno tutti facce gonfie e irriconoscibili: sembra che la testa, e non solo la pelle, si sia irrimediabilmente deformata.

Un altro gruppo di soldati sta camminando sulla strada polverosa del paese, quando un vecchio gli si para davanti: gli urla addosso che non riusciranno mai a passare oltre il villaggio, che rimarranno qui a morire e marcire. “Non siete figli di questa terra!” urla, e raccoglie una manciata di polvere e sassi da terra, ne mangia una parte e l’altra parte la lancia per aria. I soldati non ridono: sono terrorizzati. Alcuni decidono di lasciare il villaggio, incuranti degli ordini ricevuti, e di tornare indietro.

Da buon europeo razionalista, mi spiego il primo episodio con la mediocre qualità delle riproduzioni cinesi dei kalashnikov spesso in dotazione alle forze governative; la seconda, con un semplice avvelenamento del miele, che le persone sanno bene quali piante toccare e quali evitare; la terza, con una buona interpretazione del vecchio, che è riuscito a essere convincente nella sua sceneggiata. Peccato che io sia un pessimo europeo razionalista, e che qui in Sud Sudan le persone credano a questi avvenimenti, a questi poteri. E non pensiate siano creduloni: ci credono perché la validità di queste credenze è confermata dalla dimostrazione empirica. Il vecchio è vivo e suona la chitarra, le teste dei soldati si erano gonfiate (e non l’hanno presa bene), per ora le truppe non sono avanzate oltre il villaggio (vi farò sapere come va a finire).

E il vecchio James, mi dicono, gode di perfetta salute. Tutt’ora però non capisco cosa se ne faccia di una guardia del corpo.

Mobruk e Pierluigi Cappello

È il primo ottobre, e qui non soffia un fiato di vento. Il mango nel cortile sta riacquistando le forze perdute, e le poche foglie rossicce ritornano al verde carico, un verde scuro sempre più scuro tra i suoi fitti rami. È il primo ottobre, sto sudando mentre il sole si avvicina pericolosamente al mio tavolo di plastica beige sul quale le braccia si incollano, sotto il patio davanti all’ufficio. Una mosca continua a svolazzarmi di mano in mano, di pelle in pelle; un’altra la insegue in una qualche baruffa aerea. È il primo ottobre, e le nuvole sparse non si muovono oltre la tozza papaia, di cui vedo la cima, al di là del filo spinato.

Oggi sono stato svegliato da quelli che penso siano ratti, acquattati tra il soffitto e il tetto: la domenica non sembrano riposare, e si danno da fare laboriosi, invisibili sopra la mia testa. Vorrei un gatto, ma il randagio che in tarda sera viene spesso a farci visita non è benvenuto dagli addetti alla sicurezza, che lo scacciano minacciando inseguimenti impossibili. I ratti invisibili si sono calmati all’arrivo del sole, quando l’intercapedine loro casa diventa calda e loro si rifugiano in qualche buco tra i muri vuoti. Ho ripreso sonno, nel mio letto sonoro a ogni movimento, uno stridere di polistirolo pressato sotto il mio materasso, per limitare il buco centrale nel quale sprofondo. Penso però sia vietato dormire la domenica oltre le otto e mezza: i soldati hanno deciso di svegliare i pochi ancora a letto come me con qualche lunga raffica di mitraglia. Non me ne spavento, si capisce che stanno solo provando delle nuove armi appena arrivate. Ma l’istinto è ormai prevalente: non rimani nel letto in mutande se senti sparare, anche se a chilometri di distanza.

La distanza dal mio letto al bagno la conto in venti passi. Quella dal bagno alla cucina, sono altri venti passi. Taglio i frutti della passione con una certa insistenza, da quando ho informato il mercato cittadino della mia golosità. Alcuni sono già fermentati: lo capisci dall’odore acre che emana la polpa, e dalla mancanza di liquido quando li apri. Li ripongo da parte, e affondo il coltello in un altro frutto sano, il cui succo mi sporca la mano prima che io svuoti la polpa nel colino. Dicono che il frutto della passione sia ricchissimo di vitamine, e io ci credo, e spero mi assolva dalle sigarette e dall’immobilismo sportivo, di cui non posso farmi colpa. Preparo il caffè nella piccola moka Bialetti: l’acqua bollente al posto di quella fredda, che la cucina a carbone ha tempi che mal si conciliano con un risveglio a ratti sul tetto e raffiche di mitraglia. Aspetto che l’acqua coli tra i semi viscidi dei frutti tagliati nella grande brocca azzurra di plastica; nel frattempo incastro la moka tra il carbone ardente e la teiera, sperando che non perda il suo equilibrio alquanto precario: non vorrei tingere di nero il pavimento grigio e la mia colazione.


Mobruk entra nel compound al suono cigolante della vecchia carriola, su cui carica quattro taniche di acqua alla volta, che saranno il mio sciacquone o la mia doccia. Mobruk ha sempre una faccia felice, anche se vive una vita miserabile. Mi sorride e lo saluto, bofonchia un good morning stentato, io non ho ancora bevuto il caffè e non riesco a ricambiare il sorriso. Penso che lui un po’ se ne risenta: qui se non c’è una vera ragione per essere tristi, bisogna sorridere. Mobruk non ha una vera ragione per essere triste, e allora sorride: in quella carriola ci sono quattro taniche di acqua che lui, cinquant’anni magri magri, ha pompato dal pozzo, ha caricato sulla carriola, trasportato al compound e scaricato riempiendo i barili. In quella carriola ci sono 20 sterline sud sudanesi, quasi 20 centesimi di euro, e quando anche l’ultimo barile sarà pieno, lui avrà intascato 100 sterline sud sudanesi, quasi un euro. In due giorni e mezzo di lavoro qui potrà permettersi una birra, o forse un bottiglietta di un pessimo gin ugandese. E Mobruk non lavora solo qui, racimola altri lavoretti con la sua carriola, presa in prestito da chissà chi. Non ha una vera ragione per essere triste, quindi mi sorride e bofonchia good morning. Non so molto di lui, ma tutti lo conoscono ancora da quando tutta la comunità viveva a Kotobi, qualche decina di chilometri da qui, dieci anni fa. Neanche Peter sa se abbia una moglie, dei figli. Ignoro dove viva. A volte lo vedo aggirarsi con quell’aria da cane randagio, e mi chiedo come facciano quelle gambe così magre a sopportare l’inezia del suo corpo. Lui spesso non mi vede, e allora lo saluto io urlandogli kef?, e lui mi risponde spesso ma batal, non c’è male. Da distante non lo vedo, ma sono sicuro mi sorrida.


È il primo di ottobre, e a Cassacco, in Friuli, a 4000 chilometri da qui, è morto il poeta Pierluigi Cappello. Come spesso mi accade, non lo conoscevo. Come spesso mi accade, lo leggo postumo, e i suoi testi mi commuovono, come a volte mi accade la domenica. E quindi chiudo la mail con uno stralcio di una sua poesia (‘Parole povere’)

Uno l’ho ricordato adesso adesso

in questo fioco di luce premuta dal buio

ma non ricordo che faccia abbia.

Uno mi dice a questo punto bisogna mettere

la parola amen

perché questa sarebbe una preghiera, come l’hai fatta tu.

E io dico che mi piace la parola amen

perché sa di preghiera e di pioggia dentro la terra

e di pietà dentro il silenzio

ma io non la metterei la parola amen

perché non ho nessuna pietà di voi

perché ho soltanto i miei occhi nei vostri

e l’allegria dei vinti e una tristezza grande.

Un fine settimana altrove

«¡Vamos, que pasado mañana subimos otra vez!»

Dai andiamo, dopodomani siamo tutti di ritorno, sono due giorni, forza! Lasci perdere i panni stesi, señora! Señor, il cacao non marcirà in questi due giorni, ¡Vamos! Signor R., salga sulla mula, prendo io il bastone, lei prenda suo nipote, il bambino non ha neanche due anni. Dai forza andiamo!

Aspetta. Arriva altra gente. Oh cazzo cazzo arriva altra gente sarà successo qualcosa. Scendi tu, scendi a vedere che succede, io sto qui con la mula.

Chi sono, che dicono? Vogliono scendere anche loro? Che vengano! Hanno sentito delle voci tra le piante di cacao, sono spaventati. Via allora che è tardi meglio non scendere con il buio.

Señora prenda i suoi bambini per mano! R. aspettaci! Signor J. per cortesia vada a dire a R. che ci aspetti al cancello, è meglio scendere tutti assieme, grazie. Dai ragazzi andiamo. S. ci sei? Lascia perdere il telefono che qui non prende, provi più tardi quando arriviamo al Pelahuevo! Ci siamo tutti? Ottimo andiamo!

Che dice, señora? Non è ancora arrivato suo marito? Eccolo, eccolo, sta scendendo dal sentiero. Cosa gli ha detto? Cosa, señora?

«Io scendo con i bambini perché non voglio siano in casa quando verranno ad ammazzarti».