Mobruk e Pierluigi Cappello

È il primo ottobre, e qui non soffia un fiato di vento. Il mango nel cortile sta riacquistando le forze perdute, e le poche foglie rossicce ritornano al verde carico, un verde scuro sempre più scuro tra i suoi fitti rami. È il primo ottobre, sto sudando mentre il sole si avvicina pericolosamente al mio tavolo di plastica beige sul quale le braccia si incollano, sotto il patio davanti all’ufficio. Una mosca continua a svolazzarmi di mano in mano, di pelle in pelle; un’altra la insegue in una qualche baruffa aerea. È il primo ottobre, e le nuvole sparse non si muovono oltre la tozza papaia, di cui vedo la cima, al di là del filo spinato.

Oggi sono stato svegliato da quelli che penso siano ratti, acquattati tra il soffitto e il tetto: la domenica non sembrano riposare, e si danno da fare laboriosi, invisibili sopra la mia testa. Vorrei un gatto, ma il randagio che in tarda sera viene spesso a farci visita non è benvenuto dagli addetti alla sicurezza, che lo scacciano minacciando inseguimenti impossibili. I ratti invisibili si sono calmati all’arrivo del sole, quando l’intercapedine loro casa diventa calda e loro si rifugiano in qualche buco tra i muri vuoti. Ho ripreso sonno, nel mio letto sonoro a ogni movimento, uno stridere di polistirolo pressato sotto il mio materasso, per limitare il buco centrale nel quale sprofondo. Penso però sia vietato dormire la domenica oltre le otto e mezza: i soldati hanno deciso di svegliare i pochi ancora a letto come me con qualche lunga raffica di mitraglia. Non me ne spavento, si capisce che stanno solo provando delle nuove armi appena arrivate. Ma l’istinto è ormai prevalente: non rimani nel letto in mutande se senti sparare, anche se a chilometri di distanza.

La distanza dal mio letto al bagno la conto in venti passi. Quella dal bagno alla cucina, sono altri venti passi. Taglio i frutti della passione con una certa insistenza, da quando ho informato il mercato cittadino della mia golosità. Alcuni sono già fermentati: lo capisci dall’odore acre che emana la polpa, e dalla mancanza di liquido quando li apri. Li ripongo da parte, e affondo il coltello in un altro frutto sano, il cui succo mi sporca la mano prima che io svuoti la polpa nel colino. Dicono che il frutto della passione sia ricchissimo di vitamine, e io ci credo, e spero mi assolva dalle sigarette e dall’immobilismo sportivo, di cui non posso farmi colpa. Preparo il caffè nella piccola moka Bialetti: l’acqua bollente al posto di quella fredda, che la cucina a carbone ha tempi che mal si conciliano con un risveglio a ratti sul tetto e raffiche di mitraglia. Aspetto che l’acqua coli tra i semi viscidi dei frutti tagliati nella grande brocca azzurra di plastica; nel frattempo incastro la moka tra il carbone ardente e la teiera, sperando che non perda il suo equilibrio alquanto precario: non vorrei tingere di nero il pavimento grigio e la mia colazione.


Mobruk entra nel compound al suono cigolante della vecchia carriola, su cui carica quattro taniche di acqua alla volta, che saranno il mio sciacquone o la mia doccia. Mobruk ha sempre una faccia felice, anche se vive una vita miserabile. Mi sorride e lo saluto, bofonchia un good morning stentato, io non ho ancora bevuto il caffè e non riesco a ricambiare il sorriso. Penso che lui un po’ se ne risenta: qui se non c’è una vera ragione per essere tristi, bisogna sorridere. Mobruk non ha una vera ragione per essere triste, e allora sorride: in quella carriola ci sono quattro taniche di acqua che lui, cinquant’anni magri magri, ha pompato dal pozzo, ha caricato sulla carriola, trasportato al compound e scaricato riempiendo i barili. In quella carriola ci sono 20 sterline sud sudanesi, quasi 20 centesimi di euro, e quando anche l’ultimo barile sarà pieno, lui avrà intascato 100 sterline sud sudanesi, quasi un euro. In due giorni e mezzo di lavoro qui potrà permettersi una birra, o forse un bottiglietta di un pessimo gin ugandese. E Mobruk non lavora solo qui, racimola altri lavoretti con la sua carriola, presa in prestito da chissà chi. Non ha una vera ragione per essere triste, quindi mi sorride e bofonchia good morning. Non so molto di lui, ma tutti lo conoscono ancora da quando tutta la comunità viveva a Kotobi, qualche decina di chilometri da qui, dieci anni fa. Neanche Peter sa se abbia una moglie, dei figli. Ignoro dove viva. A volte lo vedo aggirarsi con quell’aria da cane randagio, e mi chiedo come facciano quelle gambe così magre a sopportare l’inezia del suo corpo. Lui spesso non mi vede, e allora lo saluto io urlandogli kef?, e lui mi risponde spesso ma batal, non c’è male. Da distante non lo vedo, ma sono sicuro mi sorrida.


È il primo di ottobre, e a Cassacco, in Friuli, a 4000 chilometri da qui, è morto il poeta Pierluigi Cappello. Come spesso mi accade, non lo conoscevo. Come spesso mi accade, lo leggo postumo, e i suoi testi mi commuovono, come a volte mi accade la domenica. E quindi chiudo la mail con uno stralcio di una sua poesia (‘Parole povere’)

Uno l’ho ricordato adesso adesso

in questo fioco di luce premuta dal buio

ma non ricordo che faccia abbia.

Uno mi dice a questo punto bisogna mettere

la parola amen

perché questa sarebbe una preghiera, come l’hai fatta tu.

E io dico che mi piace la parola amen

perché sa di preghiera e di pioggia dentro la terra

e di pietà dentro il silenzio

ma io non la metterei la parola amen

perché non ho nessuna pietà di voi

perché ho soltanto i miei occhi nei vostri

e l’allegria dei vinti e una tristezza grande.