Davanti a un quadro (o uno specchio)

Ritorni, o forse no

Ho spesso vissuto il mio lavoro umanitario come un conoscere posti – o tentare di conoscerli – in cui sarei difficilmente ritornato. In realtà più il tempo passava, e più nuovi luoghi si aggiungevano alla lista, più mi sembrava bassa la possibilità di tornarci. Penso sia una questione di promesse un po’ false non mantenute: quel famoso tanto prima o poi torno che non si materializza, che si dice più per scacciare la paura del dimenticarsi. Vale per i luoghi, vale per le persone – ho conosciuto tante persone che difficilmente rivedrò, e a molte ho voluto bene. Quando avrò più la possibilità di bere una birra con Peter, Idi e Clement in un tukul polveroso a Mundri la domenica mattina? Quando mai mi capiterà di rivedere la piccola Maria, della famiglia di profughi di Hawija, che viveva nel settore O del campo di Jedd’ah? L’ultimo – forte – indizio di questa maturata convinzione di non ritorno risale ormai a un anno fa: iniziavano i bombardamenti sull’Ucraina, e gli amici e le amiche cominciavano a scappare da Slav’jansk. Anche il posto che mi sembrava il più facilmente raggiungibile, in vesti non umanitarie, diventava improvvisamente e tragicamente irraggiungibile. Per questo mi fa strano essere di nuovo in Colombia, e devo ancora abituarmi completamente all’idea che i ritorni siano possibili. O forse appunto non lo sono: ma che si, si può vivere di nuovo un luogo. Ci penserò ancora molto; ancora di più se mi capiterà di visitare San José de Apartadò.

La Candelaria

In queste prime settimane a Bogotà – un po’ per gli impegni lavorativi, un po’ per le escursioni fuori città nei fine settimana – non mi era ancora capitato di passare per La Candelaria, lo storico quartiere coloniale di Bogotà. C’è piazza Bolivar con diverse sedi istituzionali, c’è il museo dell’oro (in realtà un po’ fuori dalla Candelaria, in un palazzo moderno a nord), c’è il museo Botero. Dieci anni fa, nei cinque giorni passati a Bogotà sulle tracce di Enzo G. Baldoni, avevo camminato per molte ore tra le stradine strette e pendenti di ciottoli del quartiere. Avevo incontrato il Maestro Santiago Garcia, già malato di alzheimer, nel patio del teatro La Candelaria, e tentato un’inutile conversazione sul passaggio di Baldoni, dieci anni prima (è morto nel 2020, Santiago Garcia). Avevo lungamente indugiato davanti alla porta dell’hotel de la Opera, a pochi passi da piazza Bolivar, nel quale aveva soggiornato Baldoni e che forse ancora dava lavoro a Horacio – il-maggiordomo-che-tutti-vorremmo-avere (ma che forse era anche un integrante del Frente Urbano). Mi ero seduto a guardare gli artisti di strada nella Plazoleta, sorprendendomi di una Bogotà molto meno minacciosa di quanto mi ero immaginato.

Chiedo venia – però che sorriso enigmatico

La Candelaria, dieci anni dopo

Rileggo quello che avevo scritto dieci anni fa con un misto di tenerezza e pena. Mi lasciavo andare a lirismi con molto più facilità di adesso, e cercavo di vantare molte più informazioni di quante ne possedessi. La mia descrizione della Plazoleta Chorro de Quevedo, ricca di simbolismi e tentativi di interpretazione, aveva impresso nella mia memoria il ricordo di un luogo molto più grande, e molto più magico. Ripassandoci oggi mi stupisco della sua piccolezza, e della quantità di venditori ambulanti di chicha – un liquore di mais fermentato che dubito proverò – che non la rendono per forza invitante. Mi dilungavo in descrizioni semi-architettoniche di quello che vedevo, probabilmente senza alcun senso, e aggiungevo giudizi estetici tecnici, non personali (maledetto Bruce Chatwin e la mia fascinazione per le sue dettagliate descrizioni onniscienti). Descrivevo il museo Botero come una mezza accozzaglia di opere dell’artista colombiano e di altri artisti, aggiungendo quasi con sprezzo di come un tale miscuglio fosse tipico dei musei appartenenti a fondazioni bancarie – peccato che il museo non appartenga a una fondazione bancaria, e che tutte le opere siano state in effetti parte della collezione privata di Botero, che decise di donarle a una fondazione con la chiara istruzione che fossero esposte al pubblico.

Il museo Botero e ritorni, forse si

Il museo Botero è bellissimo. Ospitato in un palazzo coloniale di due piani, con un bel giardino interno porticato su tutti i lati, è visitabile gratuitamente, tutti i giorni, fino alle sette di sera. Ci si può camminare tranquillamente chiacchierando: non ha quel sentore di sacralità silenziosa di altri musei, ci sono tante opere diverse che è un piacere fermarsi ad ammirarle, o anche solo passarci uno sguardo veloce sopra e lasciarsi distrarre da un’altra immagine – viva o dipinta – qualche metro più in la. Ti accoglie all’ingresso la bellissima versione di Botero della Monna Lisa, così rotonda da non lasciare alcun dubbio sulla natura di quel sorriso enigmatico. Prosegui ridendo delle statue di grassi gatti e grassi uccellini, e ammiri con fascinazione le bellissime chiappe della statua della coppia abbracciata, nuda, di spalle. Vedi quadri di Picasso, di Monet, di Kokoschka, di Klee, di Matisse – in tutto 203 opere, 123 di Botero e 87 di artisti vari. C’è un quadro, al secondo piano in una stanza più scura, davanti al quale mi ero fermato ammirato, dieci anni fa. Rappresenta un uomo tondeggiante e poco minaccioso, nonostante il fucile a tracolla: è Tirofijo, Manuel Marulanda, l’uomo che Baldoni sognava di potere incontrare nel suo viaggio in Colombia nel 2001. Mi sono fermato davanti a quel quadro di nuovo, dieci anni dopo, e mi sono rivisto com’ero allora: emozionato, convinto di aver terminato un viaggio e una ricerca, con meno barba e meno posti in cui ritornare.