Un nuovo saluto

Un ultimo sguardo, (*), all’arredamento…

Il monolocale nel quale ho vissuto in questi ultimi sei mesi era relativamente semplice: una cucina, una stanza principale, un piccolo bagno, ingresso e balcone. L’appartamento era stato recentemente ristrutturato, e penso di esserne stato il primo inquilino. C’è uno stile abbastanza diffuso in Ucraina, quantomeno qui nell’est, nel rinnovare gli appartamenti costruiti negli anni Settanta: il pavimento è in piastrelle lucide, 60×60, di finto granito; le pareti sono coperte di una carta parati ruvida e brilluccicante, di un bianco tendente al crema; il soffitto è tutto contro-soffittato, con un discutibile pannello traslucido e vagamente riflettente, dal quale spuntano troppi punti luce non necessari, e con l’inconveniente di non essere fisso, ma flessibile ai giri d’aria; il balcone è chiuso a mo’ di veranda, con una struttura di plastica e grandi finestre in vetro. Quasi tutti gli appartamenti rinnovati recentemente che ho visto hanno queste caratteristiche in comune. Il mio non era tra i migliori, che l’arredamento e la distribuzione degli spazi lasciavano un po’ a desiderare: il bagno, nel quale spiccava un box doccia semicircolare di vetro decorato con fantasie bianco e nero, era male organizzato, con un mobile di pseudo design moderno con un lavabo ovaloide quasi a ostruirne l’ingresso; la stanza principale era un rettangolo perfetto, vuoto, senza una minima separazione di zona giorno e notte (tanto che, dopo un mesetto, avevo deciso di spostare il grande armadio a specchio in mezzo alla stanza, per nascondere un poco il divano-letto verde oliva dai raggi del sole mattutini); la cucina era estremamente basilare, e non aveva un forno, ma aveva un tavolo sghimbescio dondolante a tre gambe. Quando visitai l’appartamento per la prima volta, la coppia che lo affittava (lei di Sloviansk, lui nato nel territorio dell’odierna Federazione Russa) insistette molto per farmi avere una televisione, noncurante delle mie opinioni a riguardo: per sei mesi una televisione enorme e un po’ vecchiotta è rimasta a impolverarsi, sempre spenta, sulla cassettiera in soggiorno.

*commosso

Ieri ho ripulito il monolocale, ho riempito le due valigie che mi sono portato dietro con tutto quello che contenevano quando sono arrivato, né più né meno. Nel chiudere la casa, ricontrollando ogni cassetto, ho provato un certo senso di dispiacere. Lasciare l’Iraq o il Sud Sudan è stato diverso: ero in una guesthouse, un posto comune a tanti altri, non mio soltanto. Non dovevo chiudermi la porta alle spalle e consegnare la chiave, che qualcuno l’avrebbe fatto per me. Se a Juba o a Erbil ho vissuto da expat, da lavoratore internazionale di un’organizzazione umanitaria, qui a Sloviansk ho avuto l’impressione di potere essere meno legato a quest’etichetta, più libero di vivere una vita normale. L’appartamento in cui ho vissuto ha fatto la sua parte, e per quanto lo abbia criticato, mi ha aiutato a sentirmi meno straniero: vivevo in un posto come tanti, in una città senza divisioni di posti, in mezzo a ricchezze e povertà non equamente divise, ma tutte reali. È una sensazione strana: ho lavorato in un contesto umanitario molto diffuso e in declino, dove ogni città (Sloviansk, Severodonetsk, Kramatorsk, Kostantinivka, Bakhmut) ha una sua piccola presenza di lavoratori internazionali, ben diluiti nella popolazione locale, tanto da essere quasi invisibili. Questo permette – se lo si vuole, e io ci ho provato – di sentirsi meno esclusi, meno privilegiati, più a contatto con il contesto. L’appartamento in Улица Университетскаиа 48, al primo piano, mi ha accolto immediatamente, al mio arrivo in marzo, e nel lasciarlo l’ho ringraziato, un po’ commosso.

… e chi si è visto si è visto

Avrei voluto passare almeno una giornata a Kyiv, prima di lasciare l’Ucraina. Ci ho passato invece poco meno di una notte, ma sono contento sia andata così. Avrei voluto prendere il treno notturno delle 23 da Sloviansk, il venerdì, ma non c’erano più posti: ho dovuto scegliere tra il treno pomeridiano di venerdì o quello di sabato. Ma venerdì l’organizzazione per la quale lavoro aveva organizzato un ritrovo informale di tutti i colleghi, sulla riva di uno dei tanti laghi della regione, e mi sarebbe dispiaciuto andarmene via a metà giornata per prendere un treno di corsa. Al ritrovo ho potuto parlare con colleghe e colleghi con cui avevo avuto poche occasioni di incontro, e ho potuto salutare, per quanto possibile individualmente, ogni persona con la quale ho lavorato in questi sei mesi. Di questo sono particolarmente contento: nonostante la difficile comunicazione a causa dei miei limitati progressi linguistici con chi parla solo russo e ucraino , ho sentito e provato un certo affetto a salutare molte delle colleghe e dei colleghi con cui ho passato questi ultimi sei mesi. Sloviansk è un altro puntino sulla cartina del mondo che difficilmente rivedrò, e fa sempre un po’ impressione distaccarsi da un presente molto vivo e immaginarlo già passato.

Babushka e patronimici

Babushka

Sotto casa mia – una palazzina grigia di quattro piani sulla strada principale del centro, con ingresso rialzato sul retro del palazzo, di fronte a uno sgarruppato cortile e parcheggio male organizzato – stazionano stabilmente, dalle sei alle otto di sera, tre babushka, tre nonnine. Che poi non penso siano poi così anziane, forse hanno da poco superato i settant’anni, forse sono alla soglia dei settant’anni. Si autodefiniscono nonnine (è una delle poche cose che capisco quando le incontro sulle scale e mi lasciano il passo, “пожалуйста, я бабушка” mi dicono, “passa prego, io sono una nonnina”) e aderiscono perfettamente all’ideale della nonnina di città. Ogni volta che torno a casa con qualcuno mi sento i loro occhi addosso, un po’ protettivi un po’ giudicanti: io le saluto, loro ricambiano all’unisono; ogni volta che chiudo il portone di ingresso con un poca attenzione, e questo sbatte pesante nel suo metallo militare grigio, sento il loro sguardo di disapprovazione sulla schiena, e sguscio dentro il palazzo senza voltarmi. L’altro giorno tornavo da una corsa, sudatissimo (l’estate qui è torrida): una di loro, la mia vicina di casa, si alza dalla panchina vedendomi arrivare, e mi fa cenno con la mano di avvicinarmi. Così faccio, e inizia una simpatica conversazione nella quale, in qualche modo, ci capiamo (la farò breve: ogni mese la babushka raccoglie 25 grivna da ogni appartamento della scala per pulire le scale – io non avevo ancora pagato il mese). Salgo a casa, mi faccio una doccia e scendo con le 25 grivna (ma ho solo un pezzo da 50, quindi pago per due mesi), e a quel punto colgo l’occasione per chiedere come si chiamino, le mie babushka: avrei fatto fatica a ricordarmene tre, di nomi, così concentrato com’ero nel non sbagliare di troppo le mie poche frasi in russo per bofonchiare un “меня завут даниеле”. Di nomi però me ne arrivano sei. Ovviamente, non ne ricordo mezzo.

Patronimici

Eppure lo avrei dovuto sapere, che di nomi me ne sarebbero arrivati sei, e non tre. Anzi: da qualche mese speravo di avere la possibilità di presentarmi a una signora che, nel dirmi il suo nome, avesse aggiunto il patronimico. Irina Ivanov’na. Tatiana Antonov’na. Evgeniia Alexandrov’na. Io di letteratura russa sono assolutamente digiuno, però associo il patronimico a ambientazioni letterarie, a mondi ottocenteschi o del primo novecento (prima della Rivoluzione d’Ottobre, anche se pure Lenin era Vladimir Ilyich). Quindi speravo, un giorno, di riuscire a rivolgermi, con tutto un rispetto pomposo un po’ macchietta, a una Anastasiia Petrov’na. O di imitare quella coppia di amici vicina al divorzio, che durante le discussioni un po’ più animate smettono di chiamarsi con il nome proprio e usano solo il patronimico, più per provocazione che per rispetto. E di nuovo mi trovo affascinato da come ci chiamiamo e facciamo chiamare: avevo appena lasciato l’Iraq, dove il rispetto porta a chiamare un padre e una madre con il nome del primogenito (Umm Muhamad, Abu Sharif), e ora in Ucraina mi trovo a dover conoscere il nome del padre, e non del figlio. Immagino voglia dire qualcosa, rispetto all’importanza del passato o del futuro, di ciò che è stato rispetto a ciò che verrà, di chi saremo rispetto a chi siamo stati.

Intermezzo, utile a capire quanto segue: nel ristorante da dove sto scrivendo, davanti al mio tavolo siedono tre donne molto belle, di diverse età – da quanto capisco e origlio, sono tutte e tre madri, e non me ne stupisco. Una di loro mi ha appena sorriso, dopo aver goffamente urtato il mio tavolo: si stanno concedendo qualche giro di cognac e cola. Tre tavoli più in là, due uomini della mia età stanno bevendo qualche birra di troppo, cercando di attirare le attenzioni della cameriera con grandi e simpatiche sbracciate (sempre meglio del девочка!, ragazza! con il quale qui si apostrofa la cameriera di turno). Mi sono fatto una risata alla loro coreografica ultima sbracciata, e ho alzato il bicchiere di birra per un brindisi a distanza. Ho smesso di ridere con loro, e di scambiare lo sguardo, quando ho visto che, nascondendosi poco e goffamente, stavano scattando fotografie delle tre donne di fronte al mio tavolo, guardandole con fare lascivo.

L’obbligo del padre

Per chi se lo fosse chiesto, il patronimico è un obbligo. Fa parte del nome ufficiale, ed è indicato nei documenti di identità. Per chi se lo fosse chiesto, il matronimico non esiste. Un giorno ho avuto il coraggio di chiedere a una collega: e chi nasce senza un padre? Temevo una pratica simile al nostro superato (ma non troppo) di NN, nomen nescio, con la quale si indicavano fino agli anni settanta i figli di padre sconosciuto. Qui la soluzione adottata è diversa: si indica il nome del padre della madre. Perché un padre è necessario, non se ne può fare a meno. Nessuna delle persone con cui ne ho parlato ci vede un grande problema – fa parte della tradizione, mi dicono. La lingua russa ha ancora enormi sessismi, che io vedo problematici e chi mi circonda meno: un uomo che si sposa “si prende moglie” (жениться, il verbo è riflessivo), una donna che si sposa “va dietro a un marito” (letteralmente, она вышла затуж). Questo penso significhi qualcosa, e quando provo a parlarne mi dicono che questa è una lingua antica, ma la realtà è diversa. L’altro giorno ho proposto a un amico di annunciare il suo matrimonio dicendo che starà “dietro a una moglie” – una soluzione più riparatrice che trasformatrice, lo so, e non so se la prenderà in considerazione.

Aggiornamento dal ristorante: il ragazzo sbracciante è venuto a chiedermi se stessi scrivendo un libro, visto che siedo così serio dietro il computer. Parlava un bell’inglese con un accento forzatamente americano, e ci siamo fatti due risate a caso mentre mi diceva le due parole di italiano che sa (cazzo di cane denota un minimo di fantasia in più rispetto al classico vaffanculo). Una delle donne nel tavolo davanti a me si è girata verso di me, a conversazione finita, e mi ha fatto un mezzo applauso. Al mio что? Cosa? mi ha detto, un po’ brilla, “you are a very beautiful boy”. Io ho sorriso un po’ imbarazzato, pensando all’uso del boy, ragazzo al posto del man, uomo, proprio ora che sto cercando di riconciliarmi con i miei trentadue anni e i primi, evidenti, capelli bianchi.

Amarcord (senza conclusioni)

Andrea (Andy) Rocchelli

Un collega, mentre passeggiamo verso casa dopo lavoro, all’improvviso mi chiede se conoscevo quel giornalista italiano ucciso qui a Sloviansk. Non avevo ancora collegato questo luogo a Andrea (Andy) Rocchelli, fotoreporter di Pavia, ucciso in Ucraina nel 2014. Ne ricordavo, a vaghe linee, la notizia, e il certo rumore che fece, in Italia. Andy fu ucciso, insieme al collega russo Andrei Mironov, a pochi chilometri dal centro di Sloviansk, vicino a Andriivka, oltre i binari del treno. Fu ucciso che aveva 30 anni. Fu ucciso sette anni fa, il 24 maggio 2014, mentre portava avanti un reportage fotografico dalla linea del fronte. Tre giorni dopo, il quotidiano La Stampa pubblicò in prima pagina una sua foto: un gruppo di bambini incastrati in una cantina per proteggersi dagli spari di artiglieria, illuminati da una luce fredda, circondati da enormi barattoli di verdura in conserva e marmellate. Andy sta sopra di loro, in cima alla ripida scala di legno, e inquadra i volti di otto bambini attraverso la cornice di pavimento, storta, dell’ingresso alla cantina.

Vitalii Markiv

Vitalii Markiv, il soldato ucraino di allora 25 anni che ha avuto un ruolo nella morte di Andy e Andrei, è stato prima condannato a 24 anni dal tribunale di Pavia, poi assolto per assenza di prove dalla Corte di appello di Milano, lo scorso novembre. Entrambe le sentenze, quella di condanna e quella di assoluzione, confermano la dinamica di quel 24 maggio: l’esercito ucraino uccise deliberatamente Andy e Andrei, aggiustando la mira dei mortai per centrare gli obiettivi, sparando dalla collina del Karachun verso il fosso dove Andy e Andrei (e un collega francese, ferito nell’attacco) si erano riparati. Le motivazioni della sentenza di assoluzione sono complicate, e dipendono da un cavillo procedurale (ne potete leggere qui: www.andyrocchelli.com). Vitalii Markiv, una volta scarcerato, fu riaccolto in Ucraina come un eroe. Ci furono anche manifestazioni per la sua liberazione fuori dalla Corte di appello di Milano – e tante altre ce ne furono a Kyiv e altrove in Ucraina. Sul sito www.euromaidanpress.com si può leggere un lungo articolo sulla sua vicenda, e sulle celebrazioni nel giorno del suo ritorno in Ucraina. Markiv, che in Italia è cresciuto e ha studiato (ed è cittadino italiano), in un’intervista rilasciata quel giorno ringrazia l’Italia per avergli insegnato i valori europei, e la perdona per gli errori che lo hanno costretto tre anni in un carcere. Sulla pista dell’aeroporto di Kyiv, appena sbarcato dall’aereo, ha dichiarato: “la sentenza pronunciata dal tribunale di Pavia [la sentenza di colpevolezza] ha dimostrato che la propaganda del Cremlino non ha limiti, ma la giustizia ora esiste”.

Le verità

Vitalii Markiv poteva chiamarsi Sergei Tselivac, poteva avere 35 anni, sua madre poteva chiamarsi Svitlana e non Oksana, sua moglie poteva chiamarsi Daria e non Diana. Vitalii poteva essere uno dei suoi commilitoni, che assieme a lui stavano preparando, nel maggio 2014, l’attacco a Sloviansk, per riprendere il controllo della città dai separatisti filo-russi. Vitalii è probabilmente stato sfortunato: quel giorno, al mortaio, poteva trovarsi qualcun altro, e lui essere di servizio al magazzino. La sorte di Andy e Andrei difficilmente sarebbe cambiata. Sloviansk, vale la pena ricordarlo, passò di mano senza una vera battaglia: le truppe separatiste decisero di ritirarsi verso Donetsk. La responsabilità della morte di Andy e Andrei è difficilmente contestabile: i colpi di mortaio provenivano da una collina sotto il controllo dell’esercito ucraino, e Andy e Andrei si trovavano in una zona controllata dai separatisti. Il governo ucraino, e con lui parte dell’opinione pubblica ucraina, sostiene invece Andy e Andrei siano stati uccisi dai separatisti filo-russi, e l’intera responsabilità sia attribuibile a loro. Sostengono che il processo a Vitalii sia parte della strategia di disinformazione russa, che mira a mostrare l’esercito ucraino e i battaglioni di volontari come carnefici senza pietà che sparano sui giornalisti.

Oggettività delle fonti, e dei ricordi

Su Wikipedia, la pagina in inglese dedicata a Vitalii Markiv è stata scritta in Ucraina, da un utente chiamato Trydence. Trydence è di sesso maschile, europeo, viene dall’Ucraina, è orgoglioso di essere ucraino, è di stirpe ucraina, vive a Kyiv, non fuma, ama la musica rock, appoggia la democrazia in Bielorussia, osteggia il comunismo sia nella teoria che nella pratica, appoggia l’entrata dell’Ucraina nella NATO e sa scrivere e leggere in cirillico. Nella sua prima versione della pagina dedicata a Vitalii Markiv, pubblicata nel gennaio 2018, scrive che Vitalii rimase in Italia fino al 2013, e poi tornò in Ucraina, per unirsi al Maidan, il movimento filo-europeista che rovesciò il governo di Victor Janukovyc e cambiò radicalmente la storia recente di questo paese. Nella mia memoria, quindi nella narrazione che ricordo di aver letto, quella fu una lotta a favore di una progressiva integrazione dell’Ucraina nell’Unione Europea (nacque, d’altronde, dalla mancata firma di Janukovyc dell’accordo di partenariato europeo), contro la corruzione e la cleptocrazia. Il sito euromaidanpress.com, quello che esulta per la liberazione di Vitalii Markiv e sostiene che il tribunale di Pavia fosse sotto l’influenza della propaganda russa, crede in una Ucraina democratica e unita, libera da pressioni e coercizioni straniere e basata sullo stato di diritto.

Appunti misti (che cos’è un confine, seconda puntata)

7 anni fa

Il 12 aprile 2014, sette anni fa, Sloviansk veniva occupata dai separatisti filo-russi. Sarebbe stata liberata solo pochi mesi dopo, senza troppi spargimenti di sangue, quando i separatisti decisero di ritirarsi verso Donetsk prima di scontrarsi con l’esercito ucraino. Non c’è una storia condivisa di quei tre mesi, che sei anni sono ancora troppo pochi per scriverla. Sono costretto a scriverne, quindi, in termini partigiani: Sloviansk è stata occupata sei anni fa, e liberata qualche mese dopo. Vorrei poter non sottostare a questi termini partigiani, ma questa è la narrazione che mi circonda: e sono qui da troppo poco tempo per metterla in discussione. L’idea è – prima o poi – di riuscire a passare un po’ di tempo anche dall’altra parte della linea del fronte, per capire come cambi la narrazione degli stessi eventi.

Quella linea

La linea del fronte è lunga circa 240 chilometri: da Mariupol, città industriale affacciata sul Mar d’Azov in territorio ucraino, sale a nord e passa a ovest di Donetsk, quella che era la quarta città più popolosa dell’Ucraina, tagliando letteralmente l’aeroporto a metà; sale poi a nord includendo qualche miniera e separando qualche sfortunato villaggio, per poi puntare a est, superare Luhansk per qualche decina di chilometri a nord e finire inesorabilmente al confine con la Federazione Russa. La linea separa in due la regione del Donbass, ossia i due oblast di Luhansk e Donetsk: il Donbass definisce la regione storica, con una sua epica definita ma ormai desueta e un’importanza economica che difficilmente avrà mai più. Una regione di minatori e industrie pesanti, mitizzata nell’epoca sovietica. Vi ricordate di Aleksey Grigoryevich Stakhanov? Era nato a Lugovaya, non lontano da Voronezh, in quello che adesso è territorio della Federazione Russa, ma il suo mito nasce nel Donbass: le 102 tonnellate di carbone in cinque ore e quattordici minuti le aveva scavate a Kadiivka, vicino a Luhansk. Ah, Kadiivka è il nome ucraino della città: in russo si chiama Stakhanov.

A proposito di Voronezh

Voronezh è una città russa circa 300 chilometri a nord del confine con l’Ucraina. Il nome non mi direbbe assolutamente nulla, se Marta, mia sorella, non ci avesse passato qualche settimana durante uno scambio scolastico quando io avevo quattordici o quindici anni, e se non avessimo a nostra volta ospitato un ragazzo di Voronezh a Trento (con l’inglese me la cavicchiavo già, e mi toccò tradurre mio padre che voleva sapere cosa pensasse il ragazzo riguardo a Putin – per la cronaca, il ragazzo diceva in maniera alquanto disinteressata che a lui Putin andava benissimo, e mio padre non sapeva bene come reagire). A Voronezh in questi giorni la Federazione Russa sta ammassando una quantità incredibile di soldati e mezzi militari, fatti venire apposta da ogni angolo dell’esteso territorio nazionale, inclusa la Siberia. Il governo russo fa spallucce e dice che sono esercitazioni militari, e che comunque non deve giustificare gli spostamenti di truppe all’interno dei propri confini. Il governo ucraino giustamente si spaventa e cerca di mantenere la calma, che basterebbe una disattenzione, un errore, e l’esercitazione russa avrebbe modo di diventare un po’ meno teorica. Gli Stati Uniti alzano la voce e l’Europa nicchia.

Neutralità

Il lavoro umanitario mi impone la neutralità rispetto alle parti in conflitto: non mi costa in realtà un grande sforzo, che non provo nessuna attrazione per la guerra, per la retorica dell’esercito glorioso e delle resistenze e rivoluzioni armate. Quando incontro, nel percorso da casa al lavoro, qualche soldato o soldatessa dell’esercito ucraino forse in licenza forse in partenza per il fronte, cerco di incrociare lo sguardo, quasi come a trasmettere un augurio: non di vittoria, ma di sopravvivenza. Lo scorso fine settimana, a Charkiv (seconda città dell’Ucraina, a nord di Sloviansk), ho visto diverse giovani coppie abbracciate sulle panchine, o tenersi la mano passeggiando, lui con la divisa militare addosso, lei curatissima in qualche vestito primaverile. Non so dire se fossero i sorrisi di chi si ritrova o di chi si sta per lasciare. Ho provato un’infinita tenerezza, come guardassi le foto sbiadite dei miei nonni alla loro stessa età, in divisa militare anche loro.

Incontro con Sloviansk

Un nuovo benvenuto

Quando due anni fa, abbastanza casualmente, passai una settimana in Georgia, uno dei primi incontri che feci fu con una donna, forse completamente ubriaca, che su una panchina mi parlò di chissà cosa, per poi accarezzarmi la testa e andarsene. Uno dei primi incontri che ho fatto qui a Sloviansk è stata un’altra donna, che davanti a un piccolo negozio sulla strada per l’ufficio dove lavoro chiedeva, senza dare troppo nell’occhio, qualche spicciolo. Al mio dirle, in un inglese imbarazzato, che non parlo ucraino né russo, lei mi ha bofonchiato qualcosa in tedesco. Ne è nata un’estemporanea conversazione in tedesco, meno imbarazzato ma molto sorpreso, da parte di entrambi, e un piacevole “es hat mich sehr gefreut” – mi ha fatto molto piacere, finale. Mi piace questo parallelo di storie: sembra che, arrivando in un paese dal passato sovietico, debba essere una donna a darmi uno strano benvenuto, sulla strada. Anche questa volta, mi piace interpretarlo come un buon auspicio.

Nevica

Oggi nevica, e dall’appartamento nel quale sto vivendo guardo i neri tetti tutti uguali delle palazzine di fronte alla mia colorarsi di bianco, e confondersi bene con un cielo dello stesso colore. Che poi sapere che nevica è un piacere: vuol dire che non fa poi così freddo. Rimpiango di essere fondamentalmente allergico ai berretti di lana, e di aver dimenticato una sciarpa calda: le sferzate di vento freddo sono taglienti. La prima serata passata qui a Sloviansk, solo qualche giorno fa, sono andato a mangiare qualcosa con una collega in un ristorante georgiano; nel salutarci, le ho assicurato che sapevo dov’era casa mia, nonostante ci fossi stato solo una volta, e per meno di dieci minuti, a mezzogiorno. Ma d’altronde ero sulla stessa strada, trovare il numero civico non poteva essere complicato. Peccato che gli indirizzi siano un po’ strani qui, e per arrivare al numero 22 della Vulytsya Tsentralna bisogna entrare dalla Vulystya Vasylivska, una strada perpendicolare. Passeggiare un buon quarto d’ora su e giù per una strada buia, con il termometro a meno dodici e senza alcuna capacità linguistica per chiedere informazioni, non è piacevolissimo.

C’è musica in piazza

Il punto di riferimento per orientarsi nel centro di Sloviansk è la Soborna Ploshcha, la piazza principale con la chiesa dello Spirito Santo, il municipio di Sloviansk e il basamento di metallo sul quale, fino al 2014, svettava la statua di Lenin. La piazza sembra più punto di passaggio che punto di ritrovo, se non fosse per qualche gruppetto di ragazzi con lo skateboard e, di sera, qualche piccolo branco di cani randagi, per nulla intimorenti. Per andare in ufficio da casa devo passare per la piazza, e per andare al supermercato devo passare per la piazza, e anche i due ristoranti che ho provato fin ora danno sulla piazza. Ai quattro angoli della piazza, installati su pali della luce, ci sono degli altoparlanti; immagino abbiano una funzione rilevante, a tempo debito. Al momento, però, si limitano a passare una selezione di musica quantomeno bizzarra, e personalmente discutibile: venerdì alle 8 di mattina rimbombava a volume alto Livin’ la vida loca di Ricky Martin, e ieri mentre andavo al supermercato mi è sfuggita una risata ascoltando, per fortuna per soli pochi metri, Blue (Da Ba Dee) degli Eiffel 65.

Un contesto umanitario strano

Sloviansk si trova 650 chilometri a est di Kyiv, 200 chilometri circa dal confine con la Russia sia a est che a nord. Per arrivarci, ho preso un comodissimo treno molto mattiniero da Kyiv, che in circa sei ore mi ha portato qui. Sul treno, dove ho dormito e lavoricchiato, c’era una carrozza bar che serviva un cappuccino più che decente. Qui a Sloviansk sono alloggiato, per il momento, in un mini appartamento rinnovato molto recentemente e molto confortevole, ma ho già trovato un altro mini appartamento da prendere in affitto per i prossimi mesi, ugualmente ben rinnovato e confortevole. Il proprietario sta preparando il contratto, e spero di trasferirmi nei prossimi giorni. I colleghi non ucraini nell’organizzazione dove lavoro sono pochi, e due di loro hanno deciso di trasferirsi qui a Sloviansk con la famiglia. È un contesto umanitario strano: Sloviansk si trova a una novantina di chilometri dalla linea di contatto, che separa i territori controllati dal governo ucraino da quelli controllati dalle autoproclamate repubbliche separatiste filo russe.