Mayendit

L’orizzonte è piatto, un’infinita distesa di terra bruciacchiata qua e là, paglia secca e qualche palma. Curiose protuberanze si ergono, ritmate, nel paesaggio, segno della pazienza laboriosa di milioni di formiche. La terra è grigia, arida, rotta in solchi profondi. Un serpente spaventato si rifugia in una delle tante crepe. Capre brucano il poco verde rimasto, rincorrendosi sui cumuli di terra. Ogni tanto, una palma più alta delle altre, addirittura un palmeto – e sembra proprio un miraggio da cartolina.

Si riconosce, laggiù sulla sinistra, l’incerto passaggio di un fiume: la monotonia del giallo tradisce una macchia verde, e grossi uccelli sconosciuti svolazzano. Più lontano, molto più lontano di quanto l’occhio immagini, un gregge di vacche pascola annoiato. La sagoma delle capanne, con quel loro tetto alto, vagamente panciuto, e quello strano pennone finale, rende l’immagine di tante pagode disperse, quasi una valle birmana di templi. Una capanna grande, due capanne piccole ai lati – al centro le vacche, ai lati le persone. La capanna grande è quasi sempre vuota: le vacche sono altrove, o spesso non ci sono più. Chiedo a una donna se i ragazzini che non vedo con lei siano con la mandria. Scrolla le spalle, sorride: quale mandria? Di vacche non ce ne sono rimaste: sono state tutte prese. Una volta, si. Una volta le famiglie sceglievano, due ragazzi una ragazza un uomo, a vivere assieme alle vacche, per le vacche, seguendo le necessità delle vacche. L’uomo seguiva la mandria, non il contrario.

Ora delle vacche non rimane che il ricordo. Ma non è un ricordo morto: l’uomo ricorda, sa quando la vacca è stata rubata, sa come riconoscerla, è sicuro che la riconoscerebbe anche ora, anche tra altre mille vacche. I nuer hanno infiniti modi per descrivere una vacca, a seconda del manto, delle chiazze sul collo, del colore della coda, delle macchie di leopardo sul ventre. Le combinazioni sono infinite, e il nome si ripete nella famiglia, che la vacca più bella merita che il suo nome sia quello della prima figlia, dopo il matrimonio. La vacca è tutto, e della vacca tutto si usa, più di una volta: lo sterco diventa difesa contro le mosche e le zanzare, una volta essiccato e bruciato; poi, quando è bianco-cenere, diventa un naturale dentifricio, che rende i denti bianchi e forti. Ora non mi stupirò più quando vedrò un bambino giocare con lo sterco, e nessuno dirgli nulla.

Rileggo la bibbia antropologica di Evans Pritchard, scritta non lontano da qui, quasi novant’anni fa: un bambino gioca ancora con la sagoma di fango di un bue, identica a quella disegnata a pagina 39. La vacca sposa, la vacca risolve i conflitti, la vacca ingrassa la famiglia, la vacca dona latte e sangue, la vacca insegna il rispetto e la necessità, la vacca è essenziale, la vacca è una misura di ricchezza e di forza; l’uomo finge di domare la vacca, ma ne è schiavo, come di qualsiasi ricchezza che necessiti cure e attenzioni.

Il conflitto, più che la modernità, sta cancellando lentamente le tradizioni: il potere si è evoluto male, non ha rispettato la bilancia naturale degli eventi, ha armato gruppi più e meglio di altri, ha permesso che l’equilibrio delle razzie – un po’ a me, un po’ a te – si rompesse. L’attacco è avvenuto a sorpresa, e tutto sembrava bruciare: raccogli i bambini, e scappa verso le isole, dove quei mostri corazzati non ti potranno seguire. Gli uomini provano una disperata protezione, poi scappano anche loro. Non c’era tempo per prendere le vacche, che docili si sono sottomesse al nuovo padrone.

Qui, ora, non ci sono quasi più vacche: molte sono state razziate, ed è difficile andarsele a riprendere, che bisogna essere ben armati per attaccare una mandria. Ma dammi una mandria lontana, e ti saprò riconoscere la mia yang en kuäc, la mia vacca dal manto maculato, la mia yang en kwe chot, tutta scura con il muso bianco e senza corna. Anche se sono passati anni ormai, la riconoscerò – anche perché devo ancora pagarci un pegno, con quella vacca. Le vacche sono presenze virtuali, ora: sono come le azioni di un qualche investitore testardo, che non diversifica il suo portafoglio. Le vacche sono presenze virtuali, ma sono ancora tutto quello che la cultura insegna, trasmette, promette. L’uomo rimane da solo, con gli altri infiniti membri di una famiglia che non si rinnova – non si rinnova senza la vacca. L’uomo segue la vacca, e senza la vacca non sa dove andare.

L’uomo va in città, studia, lavora, guadagna: non dimentica il villaggio, non dimentica la mandria, non dimentica le corse a perdifiato a inseguire i vitelli, non dimentica i salti che da bambino faceva sopra la mucca più alta, per competere con gli altri. Non dimentica, ma ne parla già come un mondo scomparso, come un rimpianto, come una speranza consunta.