Che ci faccio io in Colombia
Non sono venuto fino in Colombia solo per ricostruire la storia di un libro. Anzi, quando sono arrivato qui, tre mesi fa, non ci pensavo neanche lontanamente. Avevo però letto il libro una decina di volte, l’ultima sul volo Air France che mi portava da Parigi a Bogotà, per trovare affinità tra il paesaggio del libro e quello che sarei andato ad affrontare.
Della Colombia ho visto ben poco: ho passato tre mesi in un’area non più grande della Valle d’Aosta, nel nord ovest del paese, attorno alla cittadina di Apartadò, quasi al confine con Panama. Apartadò è da sempre crocevia di sporchi traffici, fa parte della regione di Antioquia con a capitale Medellin. La regione è stata la culla del paramilitarismo dei fratelli Castaño e di Salvatore Mancuso negli anni 90′, quando le AUC (Autodefensas Unidas de Colombia) avevano riconquistato a fucili e massacri una regione storicamente sotto il controllo delle FARC. Pochi chilometri più a nord est, già nella regione di Cordoba, c’è la città di Monteria con le sue innumerevoli pizzerie italiane ed il controllo della droga delle famiglie della ‘ndrangheta calabrese. Il territorio sul quale ho vissuto è anche la zona di controllo della Brigada XVII, l’unità dell’esercito colombiano più invischiata e compromessa con il paramilitarismo, protagonista di svariati crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Un posto dove non si vedono turisti, lontano (non geograficamente) dalle splendide spiagge di Barranquilla o Santa Marta.
Ma infatti io non ho viaggiato da turista.
In tutta questa confusione di poteri e para-poteri, di pressioni, violenze e massacri, nel 1997, nel bel mezzo della seconda ondata di sfollamenti forzati e in uno dei momenti culmine della violenza paramilitare, un gruppo di contadini ha deciso di rimanere sui propri territori, costituendosi in Comunità di Pace. Da sedici anni la Comunidad de Paz de San José de Apartadò resiste in maniera non violenta alla guerra, rifiutando il contatto con i gruppi armati irregolari e la (non) protezione dell’esercito, organizzandosi in maniera comunitaria per lavorare, rifiutando l’ingiustizia e l’impunità dei fatti. In sedici anni la Comunità di Pace ha perso circa duecento membri, uccisi da massacri compiuti e perpetuati dai paramilitari con l’ausilio dell’esercito statale, che vedeva nella Comunità – e in parte tutt’ora vede – un chiaro appoggio alla guerriglia. Nell’ultimo massacro, il 21 febbraio 2005, vennero uccisi a colpi di machete il rappresentante legale della Comunità, Luis Eduardo Guerra e Alfonso Tuberquia Bolivar. Con loro morirono due donne e quattro bambini, di cui purtroppo non ricordo i nomi. Queste otto persone furono ammazzate da un gruppo di paramilitari e da soldati della Brigada XVII. Un processo ha condannato qualche soldatino, senza togliere il velo omertoso che copre i mandanti di quel massacro preannunciato da minacce e avvisi.
La Comunità di Pace nasce e sopravvive anche grazie al supporto della Comision de Justicia y Paz, un’organizzazione colombiana di monitoraggio e difesa dei diritti umani, e di alcune organizzazioni internazionali che l’accompagnano e cercano di tutelarla (Peace Brigades International, Fellowship of Reconciliation). Una di queste è una piccola realtà italiana, Operazione Colomba, corpo civile nonviolento di pace della Comunità Papa Giovanni XXIII. Operazione Colomba vive con la Comunità dal 2008, è stata chiamata dalla Comunità di Pace e agisce per conto della Comunità di Pace. Io sono uno dei volontari che ha deciso di condividere per 3 mesi il cammino della Comunità, cercando di fare proprio uno stile di vita completamente differente da quello a cui sono abituato, cercando un adattamento che non sia modifica ma rispetto di quello che c’è. Quel che facciamo in concreto è semplice: viviamo la condizione delle persone del posto per essere la loro voce all’esterno, accompagniamo chi è più visibile all’interno della Comunità durante i suoi spostamenti quotidiani, monitoriamo le aree dove famiglie della Comunità vivono sotto la minaccia di paramilitari e guerriglia, convinti che la nostra presenza possa mitigare la violenza. Non è un’esperienza facile: per l’adattarsi, per la guerra che prosegue a due passi da dove dormi, per le contraddizioni che inevitabilmente si vedono tra una teoria di pura nonviolenza e neutralità e la complicatissima pratica di vivere dignitosamente un luogo dove le linee di demarcazione sono quanto mai imprecise.