L’importanza dei ritorni (e delle ripartenze)

Jabal al-Weibdeh, Amman

Sono un grande salutatore di animali, l’ho scoperto qualche anno fa. Ogni volta che vedo un qualsiasi animale, soprattutto mammiferi più o meno domestici, non resisto alla tentazione di salutarli. Ultimamente sto espandendo i miei orizzonti del saluto a uccelli, insetti, ragni; ma gli animali che saluto più volentieri, se si escludono le capre, sono sicuramente i gatti. Jabal al-Weibdeh, il quartiere di Amman abbarbicato sopra il centro antico della città, sopra i resti del tempio di Ercole e del teatro romano, mette a dura prova la mia capacità di salutarli tutti, i gatti, senza dare troppo nell’occhio. Nel suo saliscendi continuo di strade, scalinate sgarrupate, cortili interni semi abbandonati, case diroccate e case dall’equilibrio precario, sacchetti di immondizia qui e là, avvallamenti e buche pieni di erbacce e fiori e bottigliette di plastica, pezzi di muro e materiale da costruzione antico e moderno; in tutta questa meraviglia, e stando attento a rispondere al saluto del vecchio che mi sorride senza perdermi i murales su molte facciate, salutare ogni gatto diventa un’impresa complicata, da affrontare a ritmo lentissimo. Ma tutta questa confusa meraviglia, lontana dalla Amman caotica e trafficatissima dei quartieri più in basso, invita a rallentare il passo.

L’importanza delle ripartenze (e dei ritorni)

Penso che nulla sia cambiato nell’Amman in cui avevo, seppur brevemente, vissuto due anni fa, prima di partire per l’Afghanistan. I posti in cui andavo allora ci sono ancora adesso, gli scorci che avevo già fotografato li fotografo nuovamente ora. Molto mi sembra diverso: trovo nel bianco sporco di ogni casa che si sovrappone all’altra una certa melodia, ripenso al poco verde che mi sembrava di vedere e sorrido all’albero di limoni in un giardino mal curato, guardo il grigio dei marciapiedi mai continui e saltello da buca in buca, in un’allegra gimkana pedonale. Il primo taxi che prendo – una modernissima auto elettrica – mi regala una lunga conversazione con il tassista, che parla un buon inglese: ci soffermiamo a lungo sulla compresenza religiosa, sull’immutabilità della parola del Profeta (pbsl) nella cultura islamica, sulla proibizione religiosa della speculazione e come questa si intreccia con i bisogni capitalistici, sul sistema politico giordano e la situazione di Gaza e della Palestina. Tutto mi sembra un incredibile regalo, un’offerta che prendo a piene mani, e tutto mi sembra più bello e desiderabile, anche l’adesivo sulla scrivania della camera d’albergo che mi indica la qibla, la direzione della Caaba verso la quale rivolgere le preghiere. Nulla è cambiato; forse io, un po’.

A proposito di Palestina

Zain, uno dei maggiori operatori telefonici in Giordania, da metà ottobre ha cambiato il suo nome di rete in Gaza. Me ne accorgo quasi per caso, controllando se il mio numero italiano avesse copertura di rete in Giordania, e sorprendendomi nel leggere Gaza al posto del nome della rete. La cosa non mi sorprende troppo, e mi sembra un gesto simbolico forse utile a ricordarsi di cosa sta succedendo da 5 mesi a Gaza; ma in Giordania vivono quasi tre milioni di Palestinesi, e dubito che a loro serva questo cambio di nome per ricordarsi di Gaza. Camminando pigramente in un quartiere che non conosco, cercando di non perdere la direzione dell’hotel, mi imbatto in due veicoli militari ben rinforzati, e in un certo numero di poliziotti in tenuta anti-sommossa, molto più bardati della celere italiana; poco più avanti, due cordoni di altri poliziotti meno minacciosi ma molto all’erta proteggono l’incrocio di strade. Saranno in tutto un centinaio di poliziotti, che circondano un altro centinaio di persone, in prevalenza donne: è una piccola, rumorosa manifestazione di sostegno a Gaza e al popolo palestinese, di fronte a una moschea. Mi avvicino un po’ guardingo; non capisco bene gli slogan, ma capisco la parola Amerika e posso immaginare il contesto. Non che percepisca alcuna minaccia, ma io sono visibilmente straniero, e se qualcuno dovesse parlarmi istintivamente risponderei in inglese (e per qualche motivo ho pure un accento americano, quando parlo inglese) – insomma, potrei tranquillamente essere americano. Rimango una decina di minuti per sentire il ritmo degli slogan, urlati a grande voce da un instancabile oratore sul palco, e ripetuti a grande voce dai manifestanti. Non sono propriamente slogan: è una lunghissima canzone collettiva mononota, con le sue strofe di maggior successo, i suoi ritornelli e le sue ripetizioni, la forza dello stacco corale e l’urgenza del volume.

Non si legge bene la scritta in bianco, e la traduco: "Cosa farò da grande?"
Non si legge bene la scritta in bianco, e la traduco: “Cosa farò da grande?”

A mo’ di spiegazione

Sono a Amman per una formazione, mi sono fermato una decina di giorni appena. Non sono qui per tornare, ma per ripartire: ho un nuovo lavoro con il Norwegian Refugee Council (NRC), e presto dovrò proseguire verso Nairobi e poi, tra peripezie varie, riuscire a raggiungere il mio personalissimo nuovo paese di lavoro: il Sudan, e la sua angosciante e un po’ dimenticata situazione umanitaria, schiacciata mediaticamente da Ucraina e Gaza. Vi scriverò da lì – o prima da Nairobi – quando ci sarò. Qui a Amman ho partecipato alla famosa formazione di sicurezza di NRC: sei giorni molto intensi di apprendimenti vari e simulazioni delle peggiori situazioni che possano capitare a chi lavora in contesti di guerra – come muoversi nel fuoco incrociato, come affrontare un check-point illegale, come sopportare e affrontare un possibile rapimento. Ho imparato un sacco di cose utili che spero non siano mai utili, e ho mantenuto tutti i miei dubbi rispetto all’approccio un po’ militaresco di tanti insegnamenti. Siamo stati 6 giorni in un centro di addestramento militare – l’unico posto che permetta un certo tipo di simulazioni – e non sono mai stato così tanto sottoposto al suono di spari e esplosioni (non eravamo certo gli unici a esercitarsi, e c’era chi lo faceva con altri ovvi obbiettivi). Spesso salutavo gli innumerevoli gatti, o sentivo il cinguettare degli uccelli, o guardavo le capre brucare l’erba sulla collinetta verde punteggiata dai papaveri, oltre il recinto che delimitava la struttura; mi confortava la tranquillità della natura, tra le raffiche di spari.  

Appunti misti e angosciati

Mio nonno Luigi, padre di mia madre, fu ferito sul fronte orientale, e rimpatriato in Italia. Da quel poco che so, un compaesano di San Lorenzo in Banale l’aveva visto ferito in battaglia, e se lo era caricato sulle spalle portandolo nelle retrovie. Era il 5 novembre 1941. Il 79. Reggimento di Fanteria Divisione Pasubio stava provando ad aprirsi la strada verso sud-est, è trovò la resistenza dei corpi d’armata sovietici, attorno alla città di Horlivka, nel territorio dell’attuale Ucraina. Da Horlivka sono fuggiti molti dei miei ex-colleghi, amici e amiche ucraine, nel 2014, dopo che la città era rimasta nel controllo dei separatisti filo-russi e era stata bombardata, con tutta probabilità, dall’esercito ucraino. Si erano poi stabiliti a Sloviansk, e lì si erano ricostruiti a fatica una vita, anche lavorando nel settore umanitario. A Sloviansk ci siamo conosciuti.

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Avrei voluto raccontarla meglio, questa riscoperta famigliare di un parallelo storico. Avrei voluto raccontarla nella cornice di un lieto fine.

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Un’amica ucraina mi dice che, con la sua famiglia, è andata in una località sicura vicino a Sloviansk. È lo stesso luogo in cui aveva trovato rifugio nel 2014, scappando da Horlivka, e dove era rimasta con la sua famiglia per qualche mese. È un posto turistico, in tempo di pace. Ora sembra poter essere un po’ più sicuro del resto delle località, perché storicamente è un posto legato al passato sovietico e considerato filo-russo. Io penso ai compromessi enormi, alle scelte penose, a cui sono costretti ora i civili, per ritagliarsi un qualche tipo di sicurezza.

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Ieri, nell’inutile, angosciante leggere di notizie, mi sono chiesto cosa farei io, se quanto sta succedendo in Ucraina capitasse in Italia. Non ho mai avuto alcun spirito patriottico – ma qui non si parla solo di difesa della patria. Se qualcuno mi dovesse dire che l’Italia è un’invenzione storicamente inaccurata, gli direi che probabilmente ha ragione – tutti gli Stati sono invenzioni storicamente inaccurate. Se qualcuno dovesse dirmi che non ho il diritto a sentirmi e definirmi italiano, gli direi che le identità sono decisioni personali e collettive, e che non possono essere forzate. Se qualcuno dovesse insistere, e privarmi di un pezzo della mia identità, resisterei.

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Ho letto e visto varie notizie e video, tra ieri e oggi, forse troppi. In un video, un gruppo di ragazzi ucraini poco più che ventenni imbracciavano coraggiosi il loro fucile, e si dichiaravano pronti a combattere l’invasore con tutti i mezzi. Sono scoppiato a piangere alla fine del video, pensando che con tutta probabilità non avrebbero resistito che qualche minuto al combattimento, e sarebbero stati tutti uccisi. C’è il timore che l’esercito ucraino, se dovesse resistere, potrebbe procedere con un reclutamento obbligatorio di tutti i civili, presumibilmente di sesso maschile, abili a combattere. Sembra che armi siano già state distribuite alla popolazione civile. Mentre scrivo sembra che il ministro dell’interno ucraino stia condividendo informazioni su come preparare una bomba moltov, quelle fatte con una bottiglia di vetro, della benzina, olio e una miccia di carta. La storia è piena di civili di grande coraggio e ideale che si sono improvvisati militari, e sono morti.

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Mi viene in mente Kapuscinski, La prima guerra del futbol. Non ho con me il libro e vorrei averlo. Mi viene in mente per due motivi: per la storia di Chato Peredo e del suo reparto partigiano in Bolivia di 75 ragazzi improvvisati militari, sterminati da fame e malattie nella foresta; per la guerra del futbol, tra Honduras e Salvador, con soldati che si ammazzavano parlando la stessa lingua. Ieri la base militare ucraina posta sull’Isola dei Serpenti, nel mar Nero, è stata attaccata da un nave russa: prima di lanciare l’attacco, il comandante della nave russo ha intimato, in russo, la resa. I quattro soldati ucraini a difesa della base, in russo, lo hanno mandato affanculo. Sono tutti morti, e saranno eroi della patria.

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È forse il giorno più catastrofico e preoccupante della mia vita. Ho l’impressione che tante delle cose che ho studiato, vissuto, nelle quali ho creduto, siano a un punto di rottura storica. Certamente è uno dei giorni più catastrofici e preoccupanti della vita di tante persone a Kyiv, a Lviv, a Kharkov, a Mariupol, a Sloviansk. Sono seduto in un caffè di Amman: è venerdì, le strade sono poco trafficate come al solito in concomitanza con la preghiera del venerdì, piove, e tutto sembra così terribilmente normale.

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Mi chiedo cosa pensi Volodymyr Oleksandrovyč Zelens’kyj, che fino a cinque anni fa era una star della televisione, un attore comico, e oggi è braccato dalle truppe della Federazione Russa come fosse il peggior criminale della storia. Forse che la vita può essere veramente strana.

Cartolina da Amman

La giusta distanza

Vista dall’alto di un aereo, di sera, Amman sembra quasi più bella. Le decine di colline sulle quali è stata via via costruita hanno costretto a una viabilità sinuosa, quasi mai dritta, e dall’alto, di sera, i lampioni e i fari delle macchine che illuminano le strade creano l’effetto di un albero spoglio decorato da mille lucine. Sono luci giallo chiaro mai continue, ma casualmente ritmate, quasi come davvero si trovassero attaccate a un filo ingarbugliato, e di tanto in tanto spunta una brillante insegna al neon fucsia o verde, a aggiungere un tocco di colore. Se dal basso, a livello strada, tutto è frenetico e rumoroso e vagamente snervante per uno come me, da questa altezza tutto sembra seguire un ritmo, come se la caotica organizzazione della città potesse essere intuita solo guardandola tutta assieme, e non strada per strada. L’ultimissima luce del giorno, ormai scomparsa laggiù, sfiora ancora la foschia che ingloba Amman dando un ultimo, vaghissimo, senso di calore.

Downtown

Amman mi sembra densissima, sovraccarica. La città, fino a un secolo fa poco più che un villaggio, si è divorata tutte le aride colline di pietra attorno alla cittadella antica, con il tempio di Ercole e il teatro romano. Il quartiere nel quale vivo, Jabal al Weibdeh, si trova sulla collinetta a fianco della cittadella, sopra quel labirinto chiamato downtown – un intricatissimo mercato di cortili strade e vicoli, tagliato in due da una strada dove il traffico è costante e nel quale rimbombano gli inutili clacson degli automobilisti. Le costruzioni, tutte di un grigio sporco tendente a volte all’ocra, si sono accumulate una sull’altra, senza soluzione di continuità, e a downtown è difficile capire dove finisca una e inizi l’altra. Ma a downtown non si guarda in alto, che spesso l’alto e coperto, e comunque bisogna muoversi in fretta attraverso i venditori di tessuti e stoffe, le bancarelle di giocattoli in plastica, il venditore di biglietti della lotteria, il ragazzo che propone bocconcini di baqlawa, i vari spremitori di melograno e canna da zucchero, i negozi di improbabili calzature, il profumo degli shawarma e il fumo dei narghilè.

Inverno a Amman

Tutto il verde di Amman, specie ora che è inverno, si concentra nel centro delle poche piazze (che più che piazze sono rotonde), in un parco sportivo senza erba e nei vari alberi per strada, che non se la passano sempre bene. Dietro a qualche cancello, in realtà, si intuiscono giardini più floridi, e spesso spuntano dai muri di cinta begli alberi di limoni, carichi di frutti. Anche qualche terrazzo ha le sue fioriere esposte, e qualche tenace pianta di rosmarino cresce nelle aiuole dei caffè di Al Weibdeh. Tutto questo poco verde sta facendo i conti con un inverno alquanto rigido, e precipitazioni inusuali: qualche giorno fa sono caduti su Amman quasi venti centimetri di neve, che hanno letteralmente paralizzato la città. Il peso della neve, e le sferzate del vento il giorno dopo, hanno messo a dura prova la resistenza delle radici e dei rami degli alberi. Un magro cipresso di fronte all’appartamento in cui vivo si è appoggiato alla finestra della cucina, quasi a chiedermi di scrollargli di dosso la neve per fargli riprendere la sua posizione eretta. Ma molti rami hanno ceduto: le strade di Amman sono ora piene di ramaglia spezzata, e quasi tutti gli alberi hanno un terminale monco, strappato. Alcuni alberi hanno segni di bruciature, che anche i pali che sorreggono i fili della luce sono di legno; anche loro non hanno resistito al vento e al peso, e sono caduti strappando i cavi e creando piccoli black-out e cortocircuiti.

Ricompense

Un palo con fili elettrici è caduto anche davanti alla palazzina dove vivo insieme ai colleghi, facendo un discreto scoppio e togliendo l’elettricità. L’elettricità serve purtroppo anche per il riscaldamento, e queste case non sono state costruite con grandi criteri di isolamento termico: senza riscaldamento, d’inverno, fa freddo. Ci siamo cosi trovati a spostarci prima in un caffè, e poi in un altro appartamento che affitta l’organizzazione, al momento sfitto. Camminare per le strade di Al Weibdeh non è stato per nulla facile: la neve si era già parzialmente sciolta, e il manto bianco appoggiava su una pericolosa fanghiglia bagnatissima. Le strade erano colme d’acqua, e i marciapiedi a Amman (i pochi non invasi da rami caduti) hanno la sfortunata caratteristica di essere spesso piastrellati, in particolare davanti ai negozi e ristoranti – piastrellati con piastrelle molto lisce, scivolosissime quando bagnate. La ricompensa pero c’è stata: l’appartamento sfitto si trova sul limitare della collina, e dal balcone potevo dominare la città immobile e le colonne del tempio di Ercole imbiancate, e il silenzio dolce del traffico assente, e la voce dei muezzin diffondersi, dal minareto della moschea davanti a me e da tanti altri minareti tutt’attorno, per chiamare al maghrib, la preghiera del tramonto.

Krumstedt / Villorba

La campagna mi era familiare, eppure non ero mai stato lì. Itzehoe, Meldorf, Krumstedt. Paese, Carità, Villorba. Si sentiva solo, un po’ più pronunciato, l’odore del mare, ma la distanza era quasi la stessa. Itzehoe, Meldorf, Krumstedt. Paese, Carità, Villorba.

Romano Marchi detto Angelo, tra l’estate del 1943 e l’estate del 1944 passò dalla campagna di Paese, Carità, Villorba alla campagna di Itzehoe, Meldorf, Krumstedt. In mezzo, l’autunno del 1943 in Albania, l’inverno del 1944 in treno e la primavera dello stesso anno, tra Brema e Amburgo.

Romano Marchi detto Angelo è mio nonno, e mi chiedo se anche a lui, al primo arrivo, quella campagna dovesse sembrargli familiare. Ne dubito.

I documenti ufficiali del Regio Esercito Italiano mi dicono che il 10 giugno del 1943 Romano Marchi è rientrato nella 605esima compagnia mitraglieri in Albania, il 17 settembre del 1943 è catturato dalle forze armate tedesche e internato in Germania, l’8 maggio 1945 è liberato dalle truppe inglesi, il 22 agosto 1945 rimpatriato dalla prigionia. I documenti ufficiali del Terzo Reich mi dicono che dal 20 agosto 1944 al 17 maggio del 1945 è stato occupato come aiuto contadino, a Krumstedt (buffo come l’occupazione sia perdurata nove giorni oltre la liberazione). La memoria di mio nonno Angelo, ora, mi dice meno di queste scarne informazioni.

Nel marzo 2011, mentre studiavo a Berlino, mi ritrovai un po’ per caso ad Amburgo. L’anno prima, Romano Marchi detto Angelo aveva ricevuto la Medaglia d’Onore come cittadino italiano deportato e internato nei lager nazisti. La richiesta di concessione della Medaglia d’Onore fece riemergere, in famiglia, vari documenti storici di quegli anni e io, bilingue tedesco per fortuna e coincidenza, li lessi come un grande regalo. Sentivo anche di dover saldare un debito per un altro regalo, quello perso: parecchi anni prima, quando ancora la memoria non vacillava, Romano Marchi detto Angelo, mio nonno, si era lasciato intervistare, davanti a un registratore, nella cucina della vecchia casa contadina di Villorba, riguardo alla sua esperienza nella Seconda Guerra Mondiale. Quella cassetta non riuscì più a trovarla, e tutt’ora mi sembra la più grossa perdita materiale della mia vita. Ero ad Amburgo, e Itzehoe, Meldorf, Krumstedt distavano solo poche decine di chilometri. Sentivo il dovere morale, oltre alla curiosità, di andarci.

Mio nonno non ha mai parlato molto della Seconda Guerra Mondiale, anche se sarebbe più corretto dire che mio nonno non ha mai parlato molto e basta. Tornato in Italia sposò Filomena Pizzolato, che in quegli anni l’aveva aspettato; tra il 1948 e il 1966 ebbero quattro figli e quattro figlie; fino a qualche anno fa ha continuato a lavorare, instancabilmente ma sempre più stanco, una campagna di pura sussistenza: c’era poco tempo per le parole. Con le figlie e i figli solo accennava, vagamente, a qualche ricordo della prigionia. Con la moglie, non lo so dire, ma non penso si dilungasse in confessioni. Con me bambino, quel giorno, seduti al tavolo in cucina in un pomeriggio di tarda primavera, mi aveva raccontato della cartolina, spiegato cosa fosse una piazza d’armi, dell’appendicite che quasi lo ammazzava, del ritorno in Albania e la consegna ai tedeschi, del viaggio in treno, verso la Germania, del tempo passato a Brema e a Amburgo a ripulire le strade dalle macerie, della malattia, della famiglia di contadini che l’aveva preso a lavorare, fino alla liberazione. Soprattutto il racconto di questa famiglia mi restò impresso: mio nonno ne parlava con riconoscenza, quasi con gratitudine, convinto che senza di loro non sarebbe mai tornato a casa. Ero ad Amburgo, ed ecco che i debiti diventavano due: la cassetta smarrita e un ringraziamento a chi, per eterogenesi dei fini, aveva permesso la sopravvivenza di mio nonno, la nascita di mio padre, la mia esistenza.

Krumstedt è un piccolo paesino di campagna, a qualche decina di chilometri dal confine con la Danimarca, nello stretto lembo di terra che dalla Germania continentale si spinge, senza un motivo apparente, verso nord. Per arrivarci, da Amburgo, si prende un treno fino a Itzehoe, poi un altro verso Meldorf, e poi da lì ci si arrangia per gli ultimi 10 chilometri. Seguivo la traccia di un documento: l’Arbeitsbuch für Ausländer del Reich tedesco – ancora oggi l’idea che nel 1944 la Germania nazista avesse chi si occupava di redigere un libretto di lavoro per stranieri a ogni prigioniero di guerra internato mi lascia incredulo. L’Arbeitsbuch sbagliava di un giorno la data di nascita di mio nonno (il 20 febbraio 1921 invece del 21), ma mi indicava il villaggio, Krumstedt, un nome, Heinrich Hennings, e una professione, Landes Betrieb, lavoro agricolo. Una veloce ricerca online mi diceva che a Krumstedt una famiglia di nome Hennings rimaneva. Valeva la pena tentare una visita.

Chi mi sarei trovato davanti? La Germania ufficialmente ha fatto i conti con il suo passato nazista, e nel 2011 i movimenti di estrema destra come Pegida e Alternative für Deutschland dovevano ancora mostrarsi. Però non tutti hanno voglia di rivangare il passato, e io non potevo sapere cosa ne fosse successo di Heinrich Hennings, ammesso che non fosse ancora vivo. Krumstedt è un paesino, ma ci sono ben un ristorante e un bar, che danno ristoro principalmente ai ciclisti che sfruttano le poco trafficate stradine di campagna. Era un sabato di inizio marzo, eppure non faceva freddo, e splendeva un bel sole che veniva voglia di camminare. Mi aggirai per il paese senza una meta, per capirne la fisionomia e fantasticare su quale casa fosse quella della famiglia Hennings. Krumstedt mi sembrava invecchiato abbastanza da non essere troppo diverso a quello di settant’anni prima: un piatto villaggio sonnolento con poco da offrire, oltre alla vasta campagna attorno. Case dai tetti spioventi, antichi e arrugginiti attrezzi agricoli nei cortili, un vecchio molino a vento a cui erano cadute le pale. Difficilmente le fattorie hanno insegne, e trovare quella della famiglia Hennings seguendo il fiuto sembrava complicato. Entrai nel ristorante, per bere qualcosa e chiedere informazioni. Era affollato di una famiglia in festa, forse per un compleanno, e non mi sembrava il luogo adatto per abbozzare una conversazione. Gironzolando trovai anche il bar, in una vecchia Dorfgemeinschaftshaus, una sorta di casa del popolo tedesca. Per mia fortuna era aperto, e una ragazza più o meno della mia età si mostrò stupita a vedere entrare una persona sconosciuta, dal vago accento straniero. Mi sedetti al bancone, ero l’unico cliente, e feci due chiacchiere con lei, che dopo una laurea a Amburgo aveva deciso di tornare al paese di origine, per gestire il piccolo bar. Costruita quella minima fiducia che permette di parlare di sé, le dissi della mia ricerca, e le chiesi se conoscesse la famiglia Hennings. La conosceva, e la fattoria non distava che qualche centinaia di metri; mi disse che erano persone tranquillissime, molto dedite al lavoro di campagna, e mi indicò la direzione. Rincuorato, uscì dal locale e mi avviai verso l’indirizzo. Ora veniva il difficile: come presentarsi, una volta suonato il campanello? Quali parole usare? Trovai la casa in fondo a una piccola stradina di campagna come molte: una casa di mattoni rossi a due piani, con il tetto spiovente massiccio e il granaio alle spalle. Il campanello diceva Familie Hennings: ero arrivato. Suonai quasi con pudore, mi rispose una voce di donna. Penso di averle detto: “Sono Daniele Marchi, uno studente italiano. Ho dei documenti che dimostrano che mio nonno ha lavorato qui, settant’anni fa”. Non ricordo esattamente cosa rispose lei, prima di aprire la porta; ricordo che a un certo punto la porta si aprì, e una signora dell’età di mia madre, alta con i capelli biondi corti e gli occhiali mi guardò stupita. Le mostrai le copie dei documenti che tenevo nello zaino, e lei riconobbe la firma del suocero, il signor Heinrich Hennings. Si mostrò incredula e incuriosita, e mi disse di entrare, che avrebbe chiamato il marito, che era ancora con le bestie nei campi. Mi accomodai in cucina: era una casa di campagna, una campagna un po’ più benestante di quella di mio nonno, con le stesse foto di famiglia alle pareti, i radiatori antichi e i mobili di legno. Nell’attesa, mi sentivo incredibilmente piccolo di fronte alla storia che stavo ripercorrendo.

La signora mi offrì un caffè, e mi disse che il marito sarebbe arrivato presto (ho dimenticato tutti i nomi di quella famiglia). Nel frattempo mi chiese di raccontare la storia di mio nonno, e io le dissi quello che sapevo, dicendole di come Romano Marchi detto Angelo fosse riconoscente a quella famiglia, che gli aveva salvato la vita. Mentre aspettavamo il marito, lei decise di fare alcune chiamate alle sorelle di lui che, più anziane, sicuramente dovevano ricordarsi qualcosa; lei invece era nata durante la guerra, e di quel periodo aveva solo informazioni di seconda mano. Parlò con sua nuora nel dialetto locale, che è un miscuglio difficilmente comprensibile di tedesco e danese, con qualche reminiscenza di inglese – e io non potevo non pensare al dialetto trevigiano, incomprensibile per chiunque non sia veneto. Mi passò la cornetta del telefono, e all’altro capo una voce di donna anziana mi raccontò che certo, si ricordava di un uomo italiano durante gli ultimi anni della guerra in cui lei era poco più che adolescente, e si ricordava di come questo le facesse il filo, promettendole di portarla con sé in Sicilia. Ovviamente, non parlava di mio nonno (che, oltre a non essere siciliano, faccio enorme fatica a immaginare guascone con le ragazze del luogo durante la prigionia), ma alcune storie sono troppo belle per essere smentite. Decisi di rispondere, semplicemente: “Das werde ich nicht meiner Grossmutter erzählen!” – questo no, non lo racconterò a mia nonna.

Altri documenti ufficiali mi dicono che a mio nonno fosse permesso, per esempio la domenica, muoversi liberamente nel villaggio, e che non fosse tenuto sotto custodia al di fuori delle ore lavorative. Come pensare a quelle domeniche di tempo di guerra in una remota campagna tedesca, con questi strani prigionieri di guerra quasi Gastarbeiter (i lavoratori stranieri, diventati poi centrali nella ricostruzione tedesca dopo la Seconda Guerra mondiale) che si muovono liberamente per il paese, e questo giovane siciliano che cerca di impressionare una ragazza tedesca parlandole di un futuro in Sicilia? Mi manca l’immaginazione per pensare a una situazione tale, perché della Seconda Guerra mondiale ho conosciuto attraverso scuola e libri soprattutto la ferocia, la brutalità e la determinazione dell’annientamento (e l’eroismo, il valore, e la lotta partigiana), e a volte mi dimentico che quella narrazione è necessariamente parziale, perché anche la guerra più annichilente è fatta di uomini e donne, spinti da desideri, da bisogni necessità e sogni, di uomini e donne. Perché anche la guerra più annichilente è una parte del vissuto, che può ingigantirsi ma non diventare il tutto: rimarrà sempre, per quanto nascosta, una speranza del poi.

Arrivò il marito, un uomo alto e allampanato sulla settantina, con gli occhiali e la tuta da lavoro, i capelli radi bianchi. Arrivarono anche i due figli, anche loro dai campi: uomini forti, robusti, dediti e gioviali. Furono sorpresi di sapere di me e della storia di mio nonno, eppure non ricordo quella sorpresa come qualcosa di troppo evidente o sbalorditivo. Era più uno strano diversivo a un sabato pomeriggio qualunque. Ripercorremmo, anche con le foto, la storia della famiglia Hennings, e mi fecero vedere alcune foto d’epoca, della famiglia riunita. Heinrich Hennings era anche lui sul fronte, durante la Seconda Guerra Mondiale, e per uno strano caso del destino combatté sulla Linea Gotica, sembra vicino a Rimini. Il padre, che all’epoca era poco più che un bambino, mi mostrò vecchi dipinti della casa, com’era un tempo, e qualche struttura – una scala, una porta – che esisteva anche all’epoca. Mi disse più volte che i lavoratori come mio nonno mangiavano su un tavolo a fianco alla cucina, e mangiavano lo stesso cibo che veniva preparato per tutti – non ce n’era tanto, che tutto era razionato. Patate, cavoli, altri tuberi. Mi disse che lui se li ricordava bene, e si ricordava che venivano trattati bene. Mi disse che, grazie al cielo, il nazismo aveva perso, che sennò chissà cosa sarebbe successo – e in queste parole non ci vedevo alcuna circostanza, ma una chiara e semplice presa di posizione.

Con una fetta di torta nel piatto e un caffè, parlammo di altro: della loro campagna, della mia famiglia e della loro, delle vacche, della vita a Krumstedt, dell’esperienza di uno dei figli, qualche anno prima, in una fattoria in Nuova Zelanda. Mi ritrovai a mio agio in quel mondo contadino che gira su sé stesso, con e come le stagioni e i cicli di vita di una vacca.

Itzehoe, Meldorf, Krumstedt. Paese, Carità, Villorba. La mia famiglia e la famiglia Hennings. Sovrapponevo, quel pomeriggio, due campagne e due storie che un vezzo della storia ha voluto fare incontrare. Nell’esperienza di Romano Marchi detto Angelo, nato a Villorba il 21 febbraio 1921, parte della 605esima compagnia mitraglieri, catturato dalle Forze Armate tedesche, internato in Germania e liberato dall’esercito inglese, non posso dimenticarmi che il protagonista è un contadino, non un soldato né un prigioniero di guerra. Solo un errore della storia, un virus guerrafondaio, l’hanno costretto a vestire i panni del soldato e del prigioniero di guerra, ma lui non è mai entrato nella parte. Un contadino che ha sempre sopravvissuto nella campagna.

Vitos Gaumarjos!

Ieri ero seduto sugli scalini di fronte al Pantheon, a Roma. Ero molto stanco, e non avevo nessuna voglia di entrare con gli ospiti della Fondazione in mezzo a tutta quella gente. Annoiato, guardavo senza troppo interesse qualche post su Facebook, senza badare troppo a ciò che vedevo e leggevo.

Improvvisamente, mi appare una bella foto di Vitaly: i suoi occhi neri grandi, i capelli ricci e lunghi chiusi in un codino, la sua barba ben curata e folta e un mezzo sorriso che aveva spesso addosso. Vitaly è stata la prima persona amica che ho incontrato a Tbilisi: mi è venuto a prendere in aeroporto alle 4 di mattina, mi ha accompagnato in hotel e dato le prime nozioni della città. Durante le giornate del workshop è sempre stato occupatissimo e disponibilissimo, per sciogliersi quando, seduti a cena, parlava emozionato della tradizione georgiana del tamada, colui che gestisce i brindisi attorno a un tavolo. Vitaly era il vice-tamada del nostro tavolo, colui che può spiegare o completare il brindisi dopo il tamada. Vitaly è morto domenica notte, in circostanze improvvise e tragiche – come solo la morte di un ragazzo può essere. Era un bel tipo, Vitaly, e per quanto lo conoscessi appena non riesco a non commuovermi nel scrivere queste ultime righe. Lavorava con il progetto di Shelter City Tbilisi, che da ospitalità e protezione ai difensori dei diritti umani minacciati in altri paesi.

Mi viene da dedicargli, per quanto inutile il gesto, lo scritto di qualche giorno fa su Tbilisi.

Vitos Gaumarios! (A Vito!)

Tbilisi, Georgia

La discussione tra il prete ortodosso – una bella tunica nera lunghissima, una barba bianca macchiata e folta, un bel testone pelato e lucente – e un gruppo di ragazzi sembrerebbe essere interessante. Ovviamente, non capisco nulla, e mi posso godere solo quest’omaccione vestito di nero con il rosario in perenne movimento tra le mani, e i suoi stivali neri quasi militari. Penso parlino di società, di libertà, di modi di vivere – ma lo intuisco dall’unica parola che per caso capto, la versione georgiana dell’aggettivo “omosessuale”. Ma poteva tranquillamente trattarsi di altro.

Mi sembra di capire qualcosa di più quando una donna di mezza età viene incontro, con passo traballante, alla panchina dove sono seduto. Potrebbe avere tra i 40 e i 60 anni, e mi bofonchia qualcosa nel suo essere completamente ubriaca; io non provo nemmeno a dirle che non capisco cosa stia dicendo. Mi sorride, per quanto le permettano i suoi pochi denti, mi prende le mani, mi accarezza la testa. La prendo come una benedizione in queste prime ore a Tbilisi.

La città ha fascino, certamente. Ha fascino il centro storico, con il suo mescolarsi di rinnovato e decadente, per quanto fascino possano avere vecchie case diroccate di cui si intravede la passata bellezza, e di fronte alle quali turisti curiosi si scattano fotografie. Curiosi, perché per camminare queste stradine di seconda mano in salita almeno un po’ di curiosità ci vuole; mi chiedo quanto resisteranno ancora queste case cadenti, i balconi di legno ricamati, le finestre che a stento mantengono l’originale perpendicolarità, le crepe sui muri. L’architettura tradizionale georgiana occupa molto spazio per una città in crescita, e i cortili interni sono luoghi bellissimi, caotici e economicamente inutili: la gente ci stende la biancheria, gli onnipresenti gatti ci fanno casa, vecchie auto ci trovano un improvvisato cimitero. I cortili serviranno sempre meno, sulle strade secondarie del centro città battute dai turisti curiosi.

Il resto dei turisti meno curiosi, un numero sempre più consistente, frequentano le strade restaurate stracolme di ristoranti di dubbio gusto estetico, hotel a ogni porta, procacciatori di gite in barca, di gite in autobus, di gite in funivia a ogni angolo. Qualche enorme casinò rovina la vista del fiume Kura e del saliscendi collinare sul quale poggia Tbilisi. Sia chiaro: è tutto fuorché brutto. Ma è il lato nuovo, bonificato, di una città in grande fermento.

Davanti al grande centro commerciale che si affaccia sulla Freedom Square, e per buona parte dell’eterno viale Shato Rustaveli, c’è un denso via vai di persone, tra bancarelle di libri, hippies che vendono artigianato dal dubbio valore, musicisti o futuri tali che cercano di tirare su qualche Lari. Passo davanti a un ragazzo mentre attacca due accordi secchi, riconoscibilissimi: The wind of change, degli Scorpions. Non l’ascoltavo da anni, e non mi era mai capitato di sentirla suonare per strada da un ragazzo poco più che ventenne. L’ho trovata vagamente paradigmatica di questo paese in continuo e rapido cambiamento.

Il vento del cambiamento – o quantomeno la versione politica cantata dagli Scorpions – è soffiato forte in Georgia nel 2003, con la Rivoluzione delle Rose capeggiata da Saakashvili, presidente della Georgia dal 2004 al 2013. Mikhail Saakashvili è un personaggio controverso, romanzesco, e in queste giornate a Tbilisi non ho capito se venga odiato, rimpianto o semplicemente dimenticato. Dopo essere stato eletto – forse meglio proclamato, con il 96% dei voti – nel 2004, Saakashvili iniziò un’operazione tutt’altro che semplice: modernizzare la Georgia, eliminare la corruzione e l’insicurezza che regnavano nel paese, per avvicinarlo all’Occidente, Europa e Stati Uniti. Nel 2004 era il più giovane presidente al mondo: George W. Bush lo portava sul palmo della mano, qualcuno diceva che sarebbe stato ricordato come il Nelson Mandela del ventesimo secolo, l’Unione Europea ammirava benevola e le organizzazioni per i diritti umani, seppur con qualche distinzione, registravano con sorpresa il crollo delle pratiche corruttive, dei crimini violenti e dell’insicurezza.

Ma è chiaro che la politica, specie quella di radicale cambiamento e quella che pretende risultati immediati, non può avvenire senza compromessi forti. Per Sakaashvili il compromesso fondamentale riguardava i metodi di governo: il fine giustificava molti, troppi mezzi. Mezzi pubblici, come l’aumento esponenziale della popolazione carceraria, un paranoico giustizialismo e un controllo ossessivo e capillare del territorio, la mano libera a pratiche di tortura. Mezzi personali e privati, che nel suo caso – almeno così si dice – si traducevano nell’abuso di cocaina. Nel 2008 vinse nuovamente le elezioni, ma del Mandela del ventesimo secolo rimaneva ormai poco o nulla, il consenso popolare e quello internazionale scricchiolavano e poi, fatto non da poco, c’era una guerra che bussava alla porta, letteralmente, di Tbilisi. L’odiato orso russo (difficile però dire quanto, o da quando) tornava a riprendersi angoli di territorio che riteneva suoi.

Saakashvili resistette qualche anno, poi, accettando la sconfitta alle elezioni parlamentari del 2012, abbandonò il paese. Non lo fece proprio di sua spontanea volontà: in Georgia venne accusato di diversi crimini, tra cui l’abuso di potere, che lui sosteneva motivati politicamente. Si rifugiò in Ucraina e sostenne il movimento Euromaidan nel 2014, facendo attivamente politica e non nascondendo il suo obiettivo di ripetere lì le riforme fatte in Georgia. Ricevette pure la cittadinanza ucraina, il che lo privava di quella georgiana, e diventò governatore della regione dell’Odessa. Non fece i conti con un piccolo problema: un conto è riformare (con epurazioni e controlli, ma anche con l’aumento degli stipendi dei dipendenti pubblici) un paese di tre milioni di abitanti, un altro è affrontare la realtà di un paese di ben altre dimensioni.

L’esperimento ucraino fallì di lì a poco, e Sakaashvili si rifugiò prima negli Stati Uniti, poi in Olanda, poi forse in Polonia e ora bene non si sa. Di certo gli è stata tolta anche la cittadinanza ucraina e ora, a poco più di cinquant’anni, è un apolide ex-molte cose.

È davvero complicato capire cosa i georgiani pensino di Sakaashvili: molti cercano di evidenziare che aveva ottimi collaboratori, ma che lui non era un granché. C’è chi mi dice che, più semplicemente, si era bevuto il cervello, anche a causa delle droghe. Però nessuno rimpiange le riforme fatte in quel periodo: l’amministrazione è stata profondamente riformata, l’apparato di polizia sanificato (oggi la sede centrale della polizia, un enorme, futuristico palazzone all’ingresso della città, è quasi completamente costruita in vetro, e gli agenti hanno numeri identificativi sulle loro divise), la burocrazia drasticamente ridotta, il che ha permesso di attirare capitali stranieri e nuovi investimenti.

Questo aspetto sembra preoccupare qualche georgiano: i capitali stranieri che arrivano hanno spesso il volto olivastro di qualche emiro del Golfo, di ricchi iraniani o il passo pesante di qualche oligarca russo. Ossia, di coloro che storicamente hanno spaventato, occupato, dominato la Georgia. I georgiani sono persone di un orgoglio profondo verso la loro terra e la loro cultura: non ho parlato con nessuno che non la consideri la più bella del mondo, o che non ne decanti le tradizioni. Hanno una lingua molto particolare, un alfabeto cuneiforme unico nelle regioni caucasiche, una tradizione culinaria e specialmente enologica antichissima. L’idea che qualche altro possa conquistarla, sia manu militari che manu pecuniae, con i soldi, li infastidisce parecchio. Se poi “l’altro” è, poniamo, degli Emirati Arabi e non, poniamo, americano o europeo, la cosa li infastidisce ancora di più.

Cammino (come sempre cammino molto quando non so dove andare) in un quartiere residenziale vicino alla stazione. Stavo cercandone un altro, di quartiere, ma non capisco come non riesco a trovarlo, ed è il secondo giorno di fila che vado in esplorazione. Il casualissimo e forse poco attendibile articolo trovato su internet mi parlava di un quartiere vibrante, ricco di ristoranti e posticini carini: quello dove sto camminando, e che avevo intuito dovesse essere lo stesso grazie a Google Maps, non ha nulla di tutto ciò.

È un quartiere residenziale, difficile dire se vecchio o nuovo, perché le case sembrano in perenne costruzione, o in perenne instabilità. Ci sono solo loro, qualche bottega di quelle con la frutta e la verdura esposte in strada, qualche piccolissimo bar rinchiuso in una baracchetta di legno. Sono in un posto abbastanza centrale della città, ma mi sembra di essere in un villaggio di montagna dai ritmi lenti, le strade strette e in salita, i melograni davanti a casa, i grassi grappoli di uva a maturare ancora appesi sui balconi, i cani e i gatti pigri, solo qualche vecchio che ansima sulle strade ripide. Mi perdo (come sempre mi perdo molto quando cammino) seguendo però un obiettivo preciso: perdersi abbastanza da non sapere dove si è, ma non troppo da non sapere più come ritrovarsi.

Penso di iniziare a capire cosa attragga così tanti turisti tedeschi verso questa città: non sono solo i club di musica elettronica che fanno invidia a Berlino – tra tutti il Bassiani, una specie di Berghain georgiano –, sono le contraddizioni che si vedono (calmo/frenetico, rurale/cittadino, nazionale/internazionale, tradizionale/moderno), le situazioni che si respirano, il Wind of change che soffia ma non impetuoso. Tbilisi è poor but sexy, povera ma attraente, il motto che era stato coniato per Berlino più di dieci anni fa.

Una cosa mi stupisce particolarmente: Tbilisi è la città nella quale, quantomeno nel quartiere governativo e turistico, ho visto più bandiere dell’Unione Europea sventolare affianco alla bandiera nazionale. Per ogni bandiera bianca con le croci rosse ce n’è una blu con le stelle in cerchio, davanti agli uffici pubblici, davanti al tribunale, davanti alle biblioteche. Sembra che la Georgia faccia parte dell’Unione Europea, o quantomeno ne stia per diventare stato membro a breve (in realtà, fa solo parte della politica di vicinato, senza avere prospettive di membership). La prospettiva europea però non manca, e un amico a cui chiedo il perché mi guarda stupito, e dice che siamo solo noi europei a non capire l’importanza dell’Unione – io non ho molta voglia di iniziare una complicata discussione sullo stato dell’Unione, e mi accontento di compiacermi che l’ideale europeo sia ancora vivo, da qualche parte.

La Madre della Georgia, l’enorme monumento che campeggia sulla collina nobile di Tbilisi, guarda austera la città, con una coppa di acqua in una mano e la spada nell’altra, a indicare che gli amici troveranno accoglienza e ristoro, e i nemici resistenza e ribellione. Resta da capire, come sempre, che faccia avranno i prossimi amici.