Vie che ho voluto percorrere

Quindici anni fa, non troppo lontano da qui, moriva una persona che avrebbe avuto un ruolo importante nel fatto che io mi trovi qui, ora, e stia scrivendo. Non ero a conoscenza, allora, di questa sua importanza – né certamente lo era lui – e faccio fatica a ricordare il momento in cui seppi della sua morte. Pochi, ma non pochissimi tra voi lo ricorderanno. Aveva 56 anni, e nella vita aveva fatto un po’ di tutto: il manovale, l’insegnate, il traduttore, il pubblicista, il giornalista, il reporter.

Si chiamava Enzo G. Baldoni, e il 26 agosto del 2004 fu ucciso da un gruppo di insorgenti islamici legato a Al-Qaeda. Baldoni stava portando aiuti umanitari con un convoglio della Croce Rossa alla popolazione di Falluja, una città a ovest di Baghdad, che in quel momento era stretta da un assedio militare. A quanto pare, la macchina sulla quale viaggiava (la prima del convoglio) saltò su una mina: Baldoni e Ghareeb, l’autista con cui viaggiava, furono rapiti – Ghareeb fu ucciso probabilmente subito, Baldoni dopo circa cinque giorni. I rapitori pretendevano il ritiro delle truppe italiane, complici dell’invasione dell’Iraq, come condizione per il rilascio – una richiesta rifiutata dal governo italiano. In quei cinque giorni ci furono vari appelli per la liberazione e due vergognosi articoli apparsi su “Libero” e “Il Giornale” (a firma, rispettivamente, di Vittorio Feltri e Renato Farina), nei quali si tacciava Baldoni di essere un turista della guerra, un simpatizzante dei suoi stessi rapitori e di altre idiozie. Il 26 agosto arrivò la notizia della morte di Enzo G. Baldoni, non prima di qualche insensato tentativo di depistaggio da parte dei vertici della Croce Rossa italiana (con a capo Maurizio Scelli). Le sue spoglie furono ritrovate solo nel 2010 dopo una ricerca complicata, e quindi riportate in Italia. Tutt’ora si sa poco o nulla di chi furono i suoi assassini e di come andarono realmente le cose durante i cinque giorni del sequestro.

Che c’entra Enzo G. Baldoni con questa mail, e perché la sua storia è così importante?

Il fatto che la morte l’abbia trovato in Iraq è solo una coincidenza, e la sua importanza non cambierebbe se lui fosse vivo, se io mi trovassi io altrove, o se lui fosse morto in qualche altro paese. Baldoni, già a partire dalla fine degli anni novanta, aveva creato e animava varie mailing list e blog, tra il reale e il virtuale, dove scriveva e raccontava, tra le varie cose, di quello che gli capitava nei suoi viaggi. Baldoni viaggiava molto, spesso in contesti di conflitto armato, e con una motivazione che faccio fatica a descrivere. Non era lavoro, non era piacere, non era spregiudicatezza e non era ricerca del limite. Era, penso, in ordine sparso: un istinto, una constatazione che le cose si capiscono meglio da vicino, un’irrefrenabile curiosità, una certa irrequietezza, la convinzione che le gambe sono fatte per andare, gli occhi per vedere, le orecchie per ascoltare, le narici per annusare, le mani per toccare, la pancia per percepire meglio. (Mi sembra, nel scriverne, di non riuscire a descrivere bene questa motivazione, ma di capirla perfettamente).

Enzo G. Baldoni, nel 2001, si trovava in Colombia, nella regione meridionale del paese, con il sogno di incontrare Tirofijo, il leggendario comandante delle FARC. Qualche anno dopo, se non sbaglio dopo la sua morte, il settimanale “Diario” pubblicò il resoconto di quel viaggio, mettendo assieme i post scritti da Baldoni per il suo blog-comunità. Il libro entrò a casa attraverso mio padre, e non sono sicuro lui l’avesse letto quando me ne impossessai. “Piombo e tenerezza” era un racconto direttissimo, non mediato, di qualcosa che sapevo avrei voluto vivere. Ma leggo parecchi racconti diretti di cose che vorrei vivere, e non tutti mi rimangono così impressi. “Piombo e tenerezza” mi parlava però di qualcosa che avrei voluto vivere e che sapevo avrei, in qualche modo mio, vissuto: andarmene in giro per qualche strano posto del mondo, qualsiasi sia la motivazione, e scrivere di tanto in tanto quello che vedo, sento, provo a un gruppo di amici e amiche, senza la preoccupazione dello scrivere per lavorare e del lavorare per scrivere (due tentazioni ugualmente pericolose in un contesto di conflitto).

Alla fine del mio periodo di volontariato in Colombia, tornato dalla Comunidad de Paz de San José de Apartadò, mi fermai cinque giorni a Bogotà, gironzolando senza grossi punti di riferimento per la capitale colombiana sulle tracce del passaggio di Baldoni, dodici anni prima. Di quel gironzolare ho anche un resoconto – e fu un’esperienza tutt’altro che fallimentare, anche se poco supportata dal mio scarso coraggio e dalla poca preparazione. Fui però abbastanza avventato da scrivere alla moglie di Baldoni, Giusi, per chiederle qualche dritta, e da andare poi a trovarla senza minimamente annunciarmi a Milano, nella bellissima sede de Le balene colpiscono ancora, l’agenzia pubblicitaria fondata da Baldoni. Quel resoconto lo inviai solo a lei, forse per poca intraprendenza. Fu però il primo scritto a cui mi dedicavo senza pensare a chi l’avrebbe letto. La cosa mi piacque – non so o non ricordo se il resoconto piacque a lei – e mi ripromisi di ripetere quell’esperienza, qualora ne avessi avuto la possibilità. Il Sud Sudan era l’opportunità perfetta, l’Iraq l’ovvia prosecuzione (e le tappe intermedie, ottimi intermezzi).

Se vi scrivo oggi, e se questo blog mi accompagna in maniera intermittente da più di due anni, un po’ di gratitudine la devo quindi a chi mi ha indicato una via che ho voluto percorrere. Grazie, Enzo G. Baldoni.

Sulle tracce di Enzo G. Baldoni – parte ultima

Che ci faccio io in Colombia

Non sono venuto fino in Colombia solo per ricostruire la storia di un libro. Anzi, quando sono arrivato qui, tre mesi fa, non ci pensavo neanche lontanamente. Avevo però letto il libro una decina di volte, l’ultima sul volo Air France che mi portava da Parigi a Bogotà, per trovare affinità tra il paesaggio del libro e quello che sarei andato ad affrontare.

Della Colombia ho visto ben poco: ho passato tre mesi in un’area non più grande della Valle d’Aosta, nel nord ovest del paese, attorno alla cittadina di Apartadò, quasi al confine con Panama. Apartadò è da sempre crocevia di sporchi traffici, fa parte della regione di Antioquia con a capitale Medellin.  La regione è stata la culla del paramilitarismo dei fratelli Castaño e di Salvatore Mancuso negli anni 90′, quando le AUC (Autodefensas Unidas de Colombia) avevano riconquistato a fucili e massacri una regione storicamente sotto il controllo delle FARC. Pochi chilometri più a nord est, già nella regione di Cordoba, c’è la città di Monteria con le sue innumerevoli pizzerie italiane ed il controllo della droga delle famiglie della ‘ndrangheta calabrese. Il territorio sul quale ho vissuto è anche la zona di controllo della Brigada XVII, l’unità dell’esercito colombiano più invischiata e compromessa con il paramilitarismo, protagonista di svariati crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Un posto dove non si vedono turisti, lontano (non geograficamente) dalle splendide spiagge di Barranquilla o Santa Marta. 

Ma infatti io non ho viaggiato da turista.

In tutta questa confusione di poteri e para-poteri, di pressioni, violenze e massacri, nel 1997, nel bel mezzo della seconda ondata di sfollamenti forzati e in uno dei momenti culmine della violenza paramilitare, un gruppo di contadini ha deciso di rimanere sui propri territori, costituendosi in Comunità di Pace. Da sedici anni la Comunidad de Paz de San José de Apartadò resiste in maniera non violenta alla guerra, rifiutando il contatto con i gruppi armati irregolari e la (non) protezione dell’esercito, organizzandosi in maniera comunitaria per lavorare, rifiutando l’ingiustizia e l’impunità dei fatti. In sedici anni la Comunità di Pace ha perso circa duecento membri, uccisi da massacri compiuti e perpetuati dai paramilitari con l’ausilio dell’esercito statale, che vedeva nella Comunità – e in parte tutt’ora vede – un chiaro appoggio alla guerriglia. Nell’ultimo massacro, il 21 febbraio 2005, vennero uccisi a colpi di machete il rappresentante legale della Comunità, Luis Eduardo Guerra e Alfonso Tuberquia Bolivar. Con loro morirono due donne e quattro bambini, di cui purtroppo non ricordo i nomi. Queste otto persone furono ammazzate da un gruppo di paramilitari e da soldati della Brigada XVII. Un processo ha condannato qualche soldatino, senza togliere il velo omertoso che copre i mandanti di quel massacro preannunciato da minacce e avvisi.

La Comunità di Pace nasce e sopravvive anche grazie al supporto della Comision de Justicia y Paz, un’organizzazione colombiana di monitoraggio e difesa dei diritti umani, e di alcune organizzazioni internazionali che l’accompagnano e cercano di tutelarla (Peace Brigades International, Fellowship of Reconciliation). Una di queste è una piccola realtà italiana, Operazione Colomba, corpo civile nonviolento di pace della Comunità Papa Giovanni XXIII. Operazione Colomba vive con la Comunità dal 2008, è stata chiamata dalla Comunità di Pace e agisce per conto della Comunità di Pace. Io sono uno dei volontari che ha deciso di condividere per 3 mesi il cammino della Comunità, cercando di fare proprio uno stile di vita completamente differente da quello a cui sono abituato, cercando un adattamento che non sia modifica ma rispetto di quello che c’è. Quel che facciamo in concreto è semplice: viviamo la condizione delle persone del posto per essere la loro voce all’esterno, accompagniamo chi è più visibile all’interno della Comunità durante i suoi spostamenti quotidiani, monitoriamo le aree dove famiglie della Comunità vivono sotto la minaccia di paramilitari e guerriglia, convinti che la nostra presenza possa mitigare la violenza. Non è un’esperienza facile: per l’adattarsi, per la guerra che prosegue a due passi da dove dormi, per le contraddizioni che inevitabilmente si vedono tra una teoria di pura nonviolenza e neutralità e la complicatissima pratica di vivere dignitosamente un luogo dove le linee di demarcazione sono quanto mai imprecise.

Sulle tracce di Enzo G. Baldoni – parte decima

Ho incontrato Manuel Marulanda, il leggendario Tirofijo

Il Museo Botero è un bel palazzo coloniale ben curato, con diverse opere dell’artista di Medellin (da lui donate nel 2000) e una varia scelta – casuale come in tutti i musei generici di qualunque fondazione bancaria – di opere di artisti vari, da Picasso a Ernst, da De Chirico agli impressionisti francesi.

Botero mi mette allegria, con quella sua deformata opulenza e quelle figure tutte grasse uguali. Al secondo piano c’è un piccolo quadro, retroilluminato in una saletta scura: rappresenta un uomo in mimetica nella boscaglia, il fucile ben in vista, la barba rada. L’inscrizione porta il titolo: «Manuel Marulanda (Tirofijo)».

Sulle tracce di Enzo G. Baldoni – parte nona

Vanna

In compagnia di un’amica – forse l’unica qui a Bogotà – sono invitato a pranzo da Jorge, un cantautore colombiano molto conosciuto per aver innovato la musica popolare colombiana; era stato addirittura sequestrato dalle FARC, ma non per estorsione o per fargli del male, semplicemente perché volevano cantasse canzoni rivoluzionarie (nella stretta interpretazione che le FARC danno alla parola rivoluzione, chiaramente). Il pranzo è una fantastica riunione di signore sopra i sessanta, giornaliste, insegnanti e attiviste di quella fantastica intellighenzia di sinistra che animava la Union Popular e al cui genocidio politico sono sopravvissute. Prendo confidenza e racconto quello che sto facendo: chiedo se per caso qualcuno conosca una certa signora Vanna – la signora italiana di Firenze che Baldoni incontrò a Los Pozos, il paesino di baracche vicino alla base delle FARC. La conoscono, abita proprio nella torre a fianco a quella in cui attualmente sono.

Decido di andarci il giorno seguente. Quando arrivo il portiere, gentile ma un po’ scettico, mi manda negli uffici dell’amministrazione, dove attendo un’ora circa sotto lo sguardo incuriosito della segretaria alla quale racconto la mia richiesta. Mi riceve in fine l’amministratore, sembra quasi interessato alla ricerca che faccio, mi spaccio per un giornalista e non mi spingo in la con le informazioni rispetto a Vanna. Il problema è che di lei ho scoperto solo il cognome e la torre dove abita (ogni torre avrà circa un centinaio di appartamenti), mi serve qualcuno che mi metta in contatto direttamente. L’amministratore mi chiede di attendere un attimo, che farà qualche chiamata ma non mi assicura nulla. «Señor Daniele» mi dice tornando «ho una notizia buona e una cattiva: quella buona è che la signora Vanna vive proprio qui; quella cattiva è che vuole avere niente a che fare con la sua ricerca». Lo ringrazio comunque in ogni caso, gli dico che era nel computo delle possibilità che finisse così.

D’altronde, penso uscendo dall’ufficio e guardando i trenta piani della torre B, che diritto ho di infilarmi in casa di una signora ormai ottantenne per fargli leggere pagine di un libro che le ricorda alcuni tra i periodi più duri della sua vita? Le stesse domande mi ponevo questa mattina, prima di arrivare qui. La curiosità è necessaria per scoprire le cose, ma è spesso poco rispettosa e assolutamente unilaterale: serve che le cose siano curiose di farsi scoprire a loro volta.

Alvaro Mutis cita Al-Mutamar-Ibn al Farsi, un poeta sufi di Còrdoba del XII secolo: «Gli emissari che bussano alla tua porta, li hai chiamati tu stesso e non lo sai». Penso che senza questa condizione nessuna porta si apra.

Sulle tracce di Enzo G. Baldoni – parte ottava

Eduin, il ragazzo dagli occhi di aguardiente

Cos’è successo al Cartucho me lo racconta, in termini minimi, Eduin, un ragazzo con gli occhi spenti e la mano incollata alla bottiglia di aguardiente. Mi si siede affianco nel parco del Planetario, mentre sto scrivendo seduto sul prato. È un ragazzo curioso e sembra abbia voglia di fare due chiacchiere. Mi chiede dell’Italia, di cosa ho visto in Colombia, di cosa sto scrivendo. Gli chiedo del Cartucho e mi dice che l’hanno ripulito i poliziotti, ma che ora è anche peggio perché chi viveva li ora si è sparso in tutta la città. Gli chiedo se c’è un altro posto che è nato dopo la fuga dal Cartucho. «C’è il barrio ‘L’» risponde «se vuoi possiamo andarci, ti accompagno io». Beve un altro sorso e mi offre la bottiglia, che rifiuto cordialmente. Lo guardo negli occhi mentre impreca contro la politica, contro il governo, contro i ricchi ed i poliziotti. Ha 23 anni. Mi alzo, lo ringrazio della chiacchierata, gli dico che purtroppo non ho proprio tempo per venire con lui alla ‘L’. Indeciso sul da fare gli offro una sigaretta e gli allungo 2000 pesos, e mi sento sporco di fortuna e di tutte le buone occasioni che mi ha dato la vita. Mi chiede di aggiungere uno zero alla banconota che gli porgo, di farli diventare 20000. Gli dico che se anche lui mi veda così, ben vestito per andare ad un pranzo, non ho molti soldi. Va bene, raccontiamoci un’altra cazzata.

Il Cartucho – mi raccontano poi amici-di-amici – è stato smantellato tra il 2003 e il 2007, dopo la costruzione del Parque del Tercer Milenio. Gli abitanti sono stati sfollati o uccisi, ci sono stati forti scontri. Il quartiere che ha preso il suo posto nell’infame compito di accogliere, trattenere e contenere tutte le persone che la città non vuole vedere e mostrare su chiama «el Bronx». Poca fantasia, questi colombiani.

Sulle tracce di Enzo G. Baldoni – parte settima

L’inferno diventato purgatorio. Nel vecchio Cartucho

Domenica di sole e strade colme di gente: tutta la Carrera 7 è trasformata in un’enorme pista ciclabile, un gigantesco centro commerciale all’aria aperta. Sono invitato a pranzo a Plaza de los Toros, in un appartamento di uno dei tre palazzi che dominano la piazza. Attendendo l’ora di pranzo con la solita indecisione ad accompagnarmi, gironzolo tranquillo per le stradine de La Candelaria, ripasso davanti all’hotel de La Opera ma non entro, c’è troppa gente. Attraverso Piazza Bolivar e le centinaia di piccioni, scendo la Calle 10 fino alla Carrera 10. Davanti a me, oltre la Carrera, quello che rappresentò la «piccola discesa all’inferno» di Baldoni, il Cartucho. Le strade sono affollatissime, gira qualche poliziotto: decido di attraversare la decima e vedere cosa trovo. Ovunque negozi, gente che urla offerte al megafono, venditori di platano fritto e succhi naturali. Scendo fino alla 14esima, c’è povertà ma non disperazione, qualche accattone, qualche faccia embolatada da droghe varie, ma soprattutto bogotiani in cerca dello sconto migliore, dell’offerta giusta con cui divertirsi la domenica. Attraverso la 14esima, arrivo in Plaza de los Martires, di fronte alla Basilica Menor del Voto Nacional. Vorrei entrare per vedere la folla popolare che la domenica si ammassa tra i banchi, ma i corpi cenciosi sdraiati sulla scalinata mi fanno desistere. Ritorno nel Cartucho, prendo un’altra calle, guardo attento se in qualche angolo è rimasto l’inferno: non lo vedo. Vedo un grande purgatorio di negozi e negozietti tutti a vendere le stesse cianfrusaglie, un purgatorio di offerta eccessiva di plastica, gomma e inutilità.

Dov’è il Cartucho? Cosa ne è stato di quelle otto-dieci mila persone che dieci anni fa lo riempivano? Sembra che la città sia riuscita ad estirparlo, e non faccio fatica a immaginare come.

Sulle tracce di Enzo G. Baldoni – parte sesta

Plazoleta del Chorro de Quevedo – parte seconda

Per una volta, e quasi senza accorgermene, trasgredisco la regola che mi obbligherebbe a ritornare all’ostello entro le 18. Sono seduto in Plazoleta del Chorro de Quevedo, o meglio in un bar vicino, a bere vino tinto caliente (una via di mezzo ben riuscita tra una sangria calda e un vin brulé) con qualche persona incontrata per strada. Sono dei volontari tedeschi che lavorano a Cali, in vacanza attraverso la Colombia: non sanno assolutamente nulla del conflitto colombiano, di come è stato e come continua. Li investo due o tre volte con storie secche, intercalando la mia esperienza di tre mesi all’esperienza cinquantennale di un popolo intero (non voglio sembrare un moralizzatore di turisti in vacanza, ma non riesco ad accettare l’idea che volontari vengano mandati qui senza una minima informazione rispetto alla situazione passata ed attuale della Colombia).

Lentamente la piazzetta inizia a riempirsi di studenti, accattoni, venditori di sigarette, ragazzi di strada, suonatori, artisti, teatranti. C’è chi beve una birra, chi si fuma una canna, tutti si burlano di quel grande cartellone giallo sopra le loro teste che ricorda – con relative pene – il divieto di consumare bevande alcooliche in pubblico e l’assoluto divieto di fare uso di sostanze stupefacenti. Verso le nove di sera iniziano gli spettacoli, nel grande teatro in cui si è trasformata la Plazoleta del Chorro de Quevedo: un comedy-show in un angolo, circensi acrobati di strada in mezzo alla piazza. Mi guardo intorno: potrei tranquillamente essere a Kreuzberg o Neukölln, a Berlino. Sto tornando a casa.

Sulle tracce di Enzo G. Baldoni – parte quinta

Il teatro La Candelaria

Il teatro è un piccolo gioiello di architettura coloniale, una casa di pietra tutta costruita intorno al patio su cui spiovono i quattro tetti bassi di coppi resi grigi dal tempo e dai licheni. Mi siedo su una panca, mi godo il silenzio, la quiete, il sapore del tempo che passa piano, il tavolo fatto con un unico pezzo di legno grezzo inargentato dagli anni e dalla pioggia, la fontana muta, i tetti un po’ avvallati, le pietre del patio invase dal muschio. Tutto da una sensazione di verità, si imperfezione, di tempo che è passato. C’è la sospensione di un giardino zen.

Tutto sembra uguale a come lo descrisse Baldoni, e certo non potrei scrivere di meglio. Rimane solo, al centro del patio, di fronte alla «fontana muta», una sedia di plastica rossa: non è posizionata casualmente e su di lei sembra aleggiare la sagoma nervosa di Santiago Garcia.

Nell’attesa l’amabile governante – Daisy – mi mostra il teatro: la sala che fu un solar senza palco e con pavimento e sfondo neri, le quinte fredde e piene di materiali di scenografia, di sedie armadi sgabelli in legno, di strumenti musicali e cianfrusaglie varie, i camerini di semplici divisorie in listelli di legno con il grande specchio centrale. Tutto ha un certo senso di ordine casuale ma ragionato, e mi dispiaccio di non poter vedere il teatro in funzione. Torniamo nel patio, Daisy continua a sospettare che il Maestro non verrà. «Se verrà» mi dice «non è detto che voglia parlarti. Non gli piacciono le domande». Io rimango fiducioso, le dico che sono molto contento anche solo di essere lì.

Arriva il Maestro e capisco che no, las preguntas no le gustan nada. Non è piccolo come lo descriveva Baldoni, ma qui gioca un ruolo la sostanziale differenza di stazza tra me e lui. A muso duro, senza alcun convenevole e rimanendo in piedi mi chiede il motivo della mia visita; gli mostro il libro, dice di averlo già (ma dubito l’abbia letto, non sapendo della morte dell’autore), non sembra essere mosso da chissà quale interesse né per il mio viaggio a ritroso né per la mia esperienza in Colombia. Mi dice sommessamente che la situazione è un po’ migliorata, almeno per quanto riguarda Bogotà, ma non si dilunga in spiegazioni. Capisco che da lui non potrò ottenere molto (e comunque non sapevo bene cosa avrei voluto ottenere), gli chiedo se per caso ricorda il nome del diplomatico italiano che aveva messo in contatto lui e Baldoni, ricorda solo la persona non il nome.

Si muove e parla nervosamente, quasi a scatti. Si siede sul tavolo grezzo e subito si alza per andare in cucina, seguito dalle raccomandazioni di Daisy di non mangiare lo zucchero – sembra ne mangi a cucchiaiate. Ritorna nel patio, prende la sedia di plastica rossa e la sposta qualche centimetro più in la, esattamente al centro del cortile: avevo ragione, quella sedia aveva un senso specifico. Una battuta che non capisco lo porta ad intonare per qualche minuto una canzone che parla di una ragazza di Cartagena e dei suoi pattini da ghiaccio. Mentre canta guarda spesso nella mia direzione come se cantando si stesse descrivendo; io non riesco a tenere lo sguardo sul suo senza sentirmi in imbarazzo. Capisco che la mia presenza, se non lo infastidisce, certamente non gli è di nessun valore, e che quindi è tempo di andare. Gli stringo la mano felice, gli racconto delle somiglianze che Baldoni vedeva tra lui e Dario Fo. Non so se mi capisca o mi ascolti, bofonchia qualcosa che io non capisco e che termina in un’ultima parola chiara: mierda. A cosa si riferisse, giuro non so.

Post Scriptum. Rincontro Santiago Garcia qualche giorno dopo (nel frattempo ho scoperto che non è matto, è malato di Alzheimer). Sono circa le 19, piove, e lo incrocio sulla Carrera 4 mentre con un ombrello rotto si ripara, senza grande successo, dalla pioggia.

Sulle tracce di Enzo G. Baldoni – parte quarta

Café Pasaje, Plazoleta del Rosario

Il Cafè Pasaje lo immaginavo decisamente diverso: pensavo a piccoli accomodanti tavolini all’aperto, magari inserito in un palazzo ottocentesco a due piani. Invece è un caffè alquanto anonimo, con troppi tavoli, troppe sedie, troppe foto alle pareti. Queste ultime poi, sono curiose: il lato al quale siedo è tappezzato di locandine turistiche colombiane, dalla Cattedrale di Sale a Cartagena, dalle piante di caffè del sud del paese alle banane del nord; l’altro lato mostra una ricostruzione fotografica degli attentati dell’11 settembre, con tanto di corpo in caduta libera e momenti del crollo. A campeggiare sul soffitto una grande bandiera americana, vicino a quella colombiana ed alla più internazionale bandiera della birra Heineken.

Penso che un caffè così si possa trovare ovunque nel mondo, ma questo sembra mantenere un forte carattere popolare: lo intuisco dalle facce differenti che ho vicino, dai differenti odori che sento, dai cappotti lisi portati da figure che ricordano i personaggi di qualche film degli anni Sessanta. Si, in fondo potrebbe proprio essere un bar italiano degli anni Sessanta: c’è persino un grande poster di una pizza margherita, con tutti gli ingredienti ben disposti attorno, e una vecchia macchina da caffè Gaggia, quelle con le lunghe leve verticali a aprire il flusso d’acqua.

La pubblicità della birra che sto bevendo me lo dice chiaramente: Las mejores cosas de la vida toman tiempo. Come Baldoni dodici anni fa leggo Alvaro Mutis – anche se preferisco la poesia alla prosa – e guardo i campanelli di persone al di la del vetro su Plazoleta del Rosario: qui non sembra possa essere cambiato molto.

Sulle tracce di Enzo G. Baldoni – parte terza

Plazoleta el Chorro de Quevedo, La Candelaria, Calle 2 # 12 

La Plazoleta non è esattamente il posto che mi aspetterei di trovare nel luogo di fondazione di una capitale come Bogotà.

Ponendosi al centro della piccola piazza sia ha come l’impressione di osservare qualcosa di diviso, di non organico. Verso la Calle 12 una chiesetta coloniale ben conservata, con il basso campanile bianco e gli infissi e le porte di un forte verde scuro, che ben si inserisce sul rosso terra del pianterreno; due casette la guardano, con mattoni a vista e inferriate di legno che sporgono come ornamenti dalle finestre ed i tetti ormai concavi sotto il peso delle tegole sulle vecchie travi. Sul lato delle Calle 13 un palazzo in cemento figlio degli anni settanta, con le terrazze laterali coperte da tetti di plexiglas o lamiera; quasi a proteggerlo (e a donare un senso di circolarità alla piazza, altrimenti chiusa dalla sua facciata piatta di un giallino sporco) gli si erge davanti una costruzione semicircolare di otto colonne quadrate: le cinque aperture centrali sono divise orizzontalmente aprendo cinque finestre con una rigida strombatura e senza un visibile senso. Tra la prima e la seconda colonna, lasciata a mo’ di porta, si apre lo sguardo su due orrendi condomini lontani sullo sfondo, mentre stradina buia e confortevole di tetti bassi scivola a sinistra, tra piccoli negozi di artigianato e bar colorati, fino a due scuole di belle arti.

Sul colonnato un acrobata in ferro sta facendo i suoi numeri con le clave in sella ad un monociclo, quasi a simboleggiare il difficile equilibrio in cui si trova la bellezza a Bogotà: bellezza di costruzioni, di storie, di volti.