L’importanza dei ritorni (e delle ripartenze)

Jabal al-Weibdeh, Amman

Sono un grande salutatore di animali, l’ho scoperto qualche anno fa. Ogni volta che vedo un qualsiasi animale, soprattutto mammiferi più o meno domestici, non resisto alla tentazione di salutarli. Ultimamente sto espandendo i miei orizzonti del saluto a uccelli, insetti, ragni; ma gli animali che saluto più volentieri, se si escludono le capre, sono sicuramente i gatti. Jabal al-Weibdeh, il quartiere di Amman abbarbicato sopra il centro antico della città, sopra i resti del tempio di Ercole e del teatro romano, mette a dura prova la mia capacità di salutarli tutti, i gatti, senza dare troppo nell’occhio. Nel suo saliscendi continuo di strade, scalinate sgarrupate, cortili interni semi abbandonati, case diroccate e case dall’equilibrio precario, sacchetti di immondizia qui e là, avvallamenti e buche pieni di erbacce e fiori e bottigliette di plastica, pezzi di muro e materiale da costruzione antico e moderno; in tutta questa meraviglia, e stando attento a rispondere al saluto del vecchio che mi sorride senza perdermi i murales su molte facciate, salutare ogni gatto diventa un’impresa complicata, da affrontare a ritmo lentissimo. Ma tutta questa confusa meraviglia, lontana dalla Amman caotica e trafficatissima dei quartieri più in basso, invita a rallentare il passo.

L’importanza delle ripartenze (e dei ritorni)

Penso che nulla sia cambiato nell’Amman in cui avevo, seppur brevemente, vissuto due anni fa, prima di partire per l’Afghanistan. I posti in cui andavo allora ci sono ancora adesso, gli scorci che avevo già fotografato li fotografo nuovamente ora. Molto mi sembra diverso: trovo nel bianco sporco di ogni casa che si sovrappone all’altra una certa melodia, ripenso al poco verde che mi sembrava di vedere e sorrido all’albero di limoni in un giardino mal curato, guardo il grigio dei marciapiedi mai continui e saltello da buca in buca, in un’allegra gimkana pedonale. Il primo taxi che prendo – una modernissima auto elettrica – mi regala una lunga conversazione con il tassista, che parla un buon inglese: ci soffermiamo a lungo sulla compresenza religiosa, sull’immutabilità della parola del Profeta (pbsl) nella cultura islamica, sulla proibizione religiosa della speculazione e come questa si intreccia con i bisogni capitalistici, sul sistema politico giordano e la situazione di Gaza e della Palestina. Tutto mi sembra un incredibile regalo, un’offerta che prendo a piene mani, e tutto mi sembra più bello e desiderabile, anche l’adesivo sulla scrivania della camera d’albergo che mi indica la qibla, la direzione della Caaba verso la quale rivolgere le preghiere. Nulla è cambiato; forse io, un po’.

A proposito di Palestina

Zain, uno dei maggiori operatori telefonici in Giordania, da metà ottobre ha cambiato il suo nome di rete in Gaza. Me ne accorgo quasi per caso, controllando se il mio numero italiano avesse copertura di rete in Giordania, e sorprendendomi nel leggere Gaza al posto del nome della rete. La cosa non mi sorprende troppo, e mi sembra un gesto simbolico forse utile a ricordarsi di cosa sta succedendo da 5 mesi a Gaza; ma in Giordania vivono quasi tre milioni di Palestinesi, e dubito che a loro serva questo cambio di nome per ricordarsi di Gaza. Camminando pigramente in un quartiere che non conosco, cercando di non perdere la direzione dell’hotel, mi imbatto in due veicoli militari ben rinforzati, e in un certo numero di poliziotti in tenuta anti-sommossa, molto più bardati della celere italiana; poco più avanti, due cordoni di altri poliziotti meno minacciosi ma molto all’erta proteggono l’incrocio di strade. Saranno in tutto un centinaio di poliziotti, che circondano un altro centinaio di persone, in prevalenza donne: è una piccola, rumorosa manifestazione di sostegno a Gaza e al popolo palestinese, di fronte a una moschea. Mi avvicino un po’ guardingo; non capisco bene gli slogan, ma capisco la parola Amerika e posso immaginare il contesto. Non che percepisca alcuna minaccia, ma io sono visibilmente straniero, e se qualcuno dovesse parlarmi istintivamente risponderei in inglese (e per qualche motivo ho pure un accento americano, quando parlo inglese) – insomma, potrei tranquillamente essere americano. Rimango una decina di minuti per sentire il ritmo degli slogan, urlati a grande voce da un instancabile oratore sul palco, e ripetuti a grande voce dai manifestanti. Non sono propriamente slogan: è una lunghissima canzone collettiva mononota, con le sue strofe di maggior successo, i suoi ritornelli e le sue ripetizioni, la forza dello stacco corale e l’urgenza del volume.

Non si legge bene la scritta in bianco, e la traduco: "Cosa farò da grande?"
Non si legge bene la scritta in bianco, e la traduco: “Cosa farò da grande?”

A mo’ di spiegazione

Sono a Amman per una formazione, mi sono fermato una decina di giorni appena. Non sono qui per tornare, ma per ripartire: ho un nuovo lavoro con il Norwegian Refugee Council (NRC), e presto dovrò proseguire verso Nairobi e poi, tra peripezie varie, riuscire a raggiungere il mio personalissimo nuovo paese di lavoro: il Sudan, e la sua angosciante e un po’ dimenticata situazione umanitaria, schiacciata mediaticamente da Ucraina e Gaza. Vi scriverò da lì – o prima da Nairobi – quando ci sarò. Qui a Amman ho partecipato alla famosa formazione di sicurezza di NRC: sei giorni molto intensi di apprendimenti vari e simulazioni delle peggiori situazioni che possano capitare a chi lavora in contesti di guerra – come muoversi nel fuoco incrociato, come affrontare un check-point illegale, come sopportare e affrontare un possibile rapimento. Ho imparato un sacco di cose utili che spero non siano mai utili, e ho mantenuto tutti i miei dubbi rispetto all’approccio un po’ militaresco di tanti insegnamenti. Siamo stati 6 giorni in un centro di addestramento militare – l’unico posto che permetta un certo tipo di simulazioni – e non sono mai stato così tanto sottoposto al suono di spari e esplosioni (non eravamo certo gli unici a esercitarsi, e c’era chi lo faceva con altri ovvi obbiettivi). Spesso salutavo gli innumerevoli gatti, o sentivo il cinguettare degli uccelli, o guardavo le capre brucare l’erba sulla collinetta verde punteggiata dai papaveri, oltre il recinto che delimitava la struttura; mi confortava la tranquillità della natura, tra le raffiche di spari.