Aquiloni e bandiere

Aquiloni

La storia degli aquiloni in Afghanistan è parecchio nota, e forse un tantino abusata. La storia vuole che nel 1998 i Talebani, da due anni al potere, avessero deciso di vietare gli aquiloni. Partendo da questa notizia e dalla rabbia che gli causava, Khaled Hosseini scrisse un racconto breve, che poi trasformò nel romanzo diventato famoso con il titolo Il cacciatore di aquiloni, nel 2003. Il romanzo ebbe un successo mondiale, e contribuì non poco a malleare l’immagine dell’Afghanistan e dei gruppi etnici afghani nel resto del mondo. Non ho letto il libro prima di venire in Afghanistan, né penso lo leggerò dopo essermene andato – ho un po’ paura di trovarci una versione romanzata di alcune situazioni che mi pare di avere, se non capito, quantomeno scalfito. Ci ragionavo oggi, quando mi sono accorto di un piccolo uccello verde brillante posato sul filo spinato sopra il muro del compound di Jalalabad. Vicino a lui c’erano due aquiloni, impigliati anche loro nel filo spinato. Ho scattato una foto, e pensato a quanti danni avrei fatto condividendola.

Battaglie di aquiloni

Che poi io nella mia pressoché assoluta ignoranza di aquiloni e nella mia stereotipata conoscenza (tutt’ora) di una parte della cultura afgana, pensavo che un aquilone lo si facesse volare per il puro piacere di vederlo volare e giocare con le correnti d’aria (anche perché l’unico riferimento letterario a aquiloni era Charlie Brown, che aveva notoriamente enormi problemi a farlo alzare in volo). In Afghanistan invece far volare aquiloni è qualcosa di molto più serio, molto più competitivo: si parla infatti di battaglie di aquiloni, nelle quali vince chi riesce a far volare il suo più a lungo, ossia a far si che nessun altro partecipante riesca a tagliare il filo del suo aquilone (con il filo del proprio aquilone). Non mi è chiaro come questo sia possibile – apparentemente si possono rinforzare i fili con materiale abrasivo, così da essere più taglienti. Forse avrei dovuto leggere Il cacciatore di aquiloni.

Uno dei pochissimi casi nei quali il disegno è meglio della foto

Musica di prima mattina

Quando sono a Jalalabad, la mattina mi piace iniziare a lavorare presto – fa meno caldo e non c’è bisogno dell’onnipresente aria condizionata. Dietro l’edificio che ci ospita c’è una scuola privata; dal vociare che spesso sento, dev’essere una scuola elementare o simile. Qualche mattina fa, dalle 7 in poi, gli altoparlanti della scuola mandavano musica a un volume parecchio elevato, che mal si conciliava con i miei tentativi di rimanere concentrato. Non mi sembrava né una musica militare né celebrativa, e suonava più simile a un qualsiasi pezzo pop del sub-continente indiano. Verso le 7:30 (in ufficio era già arrivato un collega afghano) qualcuno ha iniziato a recitare i versi di qualche poeta, e subito dopo è partito, forte e chiaro, l’inno nazionale afghano. Si badi bene: l’inno era quello della Repubblica Islamica dell’Afghanistan, usato dal 2006 al 2021; non quello dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan, in vigore da quando i Talebani hanno riconquistato il potere a agosto 2021. Ho chiesto spiegazioni al collega, che non sembrava troppo preoccupato di possibili conseguenze di quel che io temevo suonasse, letteralmente, come un affronto al governo in carica. “Non tutti hanno paura dei Talebani”, mi ha detto.

Bandiere

Un aspetto che mi ha impressionato dall’inizio della mia presenza in Afghanistan è la quantità spropositata di bandiere dei talebani, bianca con la shahada (la testimonianza di fede) scritta in nero. Sono pressoché dappertutto, e durante le feste obbligate si moltiplicano, issate su qualsiasi palo e all’esterno di qualsiasi negozietto – immagino non tutte sventolino volontariamente, ma molte siano lì un po’ per obbligo, un po’ per evitare qualsiasi guaio. Una è comparsa anche sul cancello a fianco del nostro, a Kabul, senza alcun apparente motivo. Mi chiedo chi le produca, e che ottimi profitti stia registrando da un anno a questa parte. La bandiera nazionale, tricolore nera rossa e verde con strisce orizzontali, è vietata – l’unica volta che l’ho vista sventolare stavo viaggiando da Jalalabad a Kabul, e un ragazzo la teneva fuori da un risciò su uno dei tanti tornanti del passo Khaber (un posto alquanto nascosto, va detto). Era il giorno dell’indipendenza dell’Afghanistan.

Paktia

Il passo Tera

Il passo Tera collega le province di Paktia e Logar, a sud-est di Kabul, tra le montagne dell’Hindu Kush. La strada è stata recentemente rinnovata, e ora si sale tra tornanti e gole su una strada larga, dove l’autista può dilettarsi nel superare all’esterno i lentissimi camion, stracolmi di merce, diretti verso Kandahar o Herat. Un passo così verrebbe voglia di affrontarlo in bicicletta. In cima, a 2895 metri sul livello del mare, stanno construendo una grande moschea. Mi chiedo chi ci andrà: il passo durante l’inverno rimane spesso chiuso a causa di neve e gelo, e le uniche persone che stanziano lassù sono i pochi soldati addetti al check-point. Anche adesso, e siamo in agosto, il vento soffia forte e freddo – e loro se ne stanno lì, imbacuccati nei loro vestiti afghani tradizionali o nelle loro divise militari, con qualche strato di scialle in più a coprirsi la testa.

Kuchi

Ci sono, in realtà, altri abitanti stagionali del passo Tera. Sono i nomadi kuchi, che piantano le loro tende nei declivi del passo, nelle parti più piane e accessibili. I kuchi rappresentano la più grande popolazione nomade di etnia pashto – il gruppo etnico dominante nella parte del paese che confina con il Pakistan. I talebani sono pashto, come buona parte dei miei colleghi – ma all’interno del gruppo etnico ci sono enormi differenze socio-culturali, e sotto-gruppi etnici con caratteristiche specifiche. I kuchi sono nomadi: passano l’inverno a sud, nelle piane di Kandahar o oltre il confine con il Pakistan, e l’estate tornano tra le montagne di Paktia, Paktika, Khost. Portano con sé le mandrie di capre o pecore, a volte di asini, e non è raro incontrare cammelli e dromedari attorno alle loro tende. C’è chi tra loro si è motorizzato, e trasporta persone e tende su qualche piccolo furgone colorato; ma molti di loro si muovono ancora a piedi, assieme alle bestie. Le loro tende sono essenziali, e sembrano quasi piatte: diversi teli, tesi, legati a piccoli paletti di legno e sospesi a venti centimetri dal terreno, per permettere all’aria di circolare, formano un trapezio che nel centro non supera i due metri di altezza.

Villaggi di castelli

La strada che scende dal passo Tera attraversa diversi villaggi, che a prima vista sembrano composti da tanti castelli di terra. Non sono costruzioni imponenti, ma sono fortemente suggestive: tutto attorno al perimetro rettangolare o quadrato si alzano mura di cinta alte fino a quattro metri, e a ogni angolo il muro non si chiude in forma retta, ma in piccole torri tonde o esagonali, con finestre e feritoie che guardano in ogni direzione. Ogni lato può essere lungo fino a cinquanta metri. I portoni principali, nelle costruzioni più antiche, sono sovrastati da un grande architrave in legno, e divisi al loro interno in tre porte più piccole, dalle quali spesso compaiono volti di bambini. Non sono castelli: sono le abitazioni tipiche di queste province. Al loro interno, passato il portone, si aprono grandi giardini di alberi da frutto, e si trovano diverse altre costruzioni, una per ogni nucleo famigliare. All’interno di abitazioni simili possono vivere trenta, quaranta, sessanta persone, tutte della stessa famiglia. I figli, una volta sposati, si trasferiscono dalla casa dei genitori a una adiacente, all’interno dello stesso muro di cinta. A volte queste lunghe mura sono costruite sul lambire della strada, e si alzano sia su un lato che sull’altro, dando l’impressione di attraversare un labirintico villaggio medievale.

Resti di una guerra (si, ma quale?)

Il nostro ufficio nella provincia di Paktia è a Gardez, la città principale, posta al centro di un’enorme valle piatta, ai cui lati sorgono montagne ben più alte del passo Tera. Gardez è a 2300 metri sul livello del mare. Gli ultimi due piani dell’ufficio stanno venendo ristrutturati, per fare spazio a quella che diventerà la guest-house per i colleghi internazionali di base a Gardez. L’ultimo piano è il sottotetto, e il tetto è di lamiera – non so quale piano ci sia per isolarlo, viste le temperature invernali. Da questo quarto piano, però, si può osservare buona parte della città, per quanto il panorama non sia particolarmente bello. Un collega apre una finestra e mi invita a guardare: a un centinaio di metri di distanza c’è un enorme parcheggio di carri armati. Saranno quasi trecento. Sono stati recuperati qualche anno fa in tutto il territorio della provincia, e spostati qui ad arrugginire – nessuno di loro è recuperabile. Sono carri armati dell’epoca sovietica, abbandonati o danneggiati qui durante le battaglie con i mujahidin negli anni 80’.

Case e vicini di casa

Architettura a Kabul

Ultimamente ho percorso – sempre rigorosamente in macchina – qualche strada in più a Kabul. La città non offre particolari splendori architettonici, e difficilmente potrebbe essere altrimenti visto le diverse ondate di distruzione alle quali è stata sottoposta, negli ultimi 200 anni circa. Qualche giorno fa, di ritorno da una visita nella provincia di Paktia, sono finalmente riuscito a intravedere la Bala Hissar, il complesso fortificato che fu quasi totalmente distrutto durante la prima e la seconda guerra anglo-afgana. Vicino allo stadio nazionale di calcio, a est del centro, ho attraversato un quartiere di palazzine in stile sovietico costruite negli anni Sessanta, del tutto simili a quelle nelle quali vivevo a Slovjansk. Nelle strade parecchio trafficate del centro, dove imperano facciate moderne di dubbio gusto, di tanto in tanto si possono vedere vecchie case di fango, qualche portone intarsiato, qualche finestra storta e decorata. Tra quello che ho visto, le costruzioni più affascinanti sono anche le più instabili e inaccessibili: con l’espandersi della città, sempre più famiglie hanno deciso di costruire sui pendii quasi verticali delle montagnole rocciose che circondano la città: le basse costruzioni di un piano sono costruite praticamente una sopra l’altra, su un pianoro scavato nella roccia, e hanno stretti sentieri e lunghe scalinate sgarruppate a collegarle.

Taimani, Shirpoor

Non ho ancora ben chiaro come si chiami il quartiere nel quale vivo a Kabul. Ho un indirizzo – che mi è servito solo quando ho registrato il mio primo arrivo in aeroporto – e so che il quartiere fa parte del Dipartimento di Polizia numero 4 (Kabul è divisa in una ventina di PD, police department). L’indirizzo dice Shar-e Naw, ossia città nuova, perché questa parte di Kabul è stata costruita nella prima metà del ventesimo secolo, a nord-ovest del centro città. Kabul era già allora in progressiva espansione – espansione che continuò a intesificarsi fino allo scorso decennio, potrando la popolazione di Kabul fino a quattro milioni e mezzo di abitanti. Shar-e Naw si estende su un’area molto vasta, e al suo interno ci sono diverse zone e aree, che potrebbero benissimo essere quartieri separati. La palazzina nella quale abito si trova praticamente tra due di questi quartieri. Il quartiere a nord-ovest si chiama Taimani; il quartiere a sud-est si chiama Shirpoor. Prima del 2003, Shirpoor non era il quartiere pieno di ville di gusto discutibile, tutte molto simili e pacchiane, che è ora: c’erano invece molte case tradizionali di fango, abitate da famiglie non abbienti. Nel 2003 le autorità hanno sgomberato con la forza centinaia di famiglie, per redistribuire gli appezzamenti a personalità del governo, dell’esercito, a uomini di affari molto poco puliti (tanto che c’è chi ha coniato il termine narchittettura per indicare lo stile molto simile delle ville del quartiere).

Il vicino di casa (quell’altro)

Da quando vivo qui a Kabul so che devo preoccuparmi di non aprire le finestre che potrebbero permettermi di guardare a nord-ovest (per fortuna la palazzina è orientata a sud-est), di non ascoltare musica a alto volume con le finestre aperte, di non stare in piedi sulla parte rialzata della terrazza, che sbuca oltre la protezione verdognola. Lo so perché il nostro vicino di casa, che abita in una casa a un piano, con un bel giardino, a fianco della nostra palazzina, ricopre un qualche ruolo parecchio importante nel governo attuale. Non ce lo siamo scelti, un vicino così: è stato lui a trasferirsi qui dopo l’agosto del 2021, probabilmente occupando una casa lasciata libera da chi a Kabul non ci vive più. Certo non sapevo che non era questo il vicino di cui avrei dovuto preoccuparmi maggiormente: sabato scorso sono stato svegliato verso le sei di mattina da un’esplosione, abbastanza vicina da sentirsi chiaramente, e stranamente non seguita da spari di armi da fuoco (solitamente un’esplosione a Kabul fa parte di un attacco coordinato di vari elementi, e all’esplosione segue uno scontro a fuoco). Inizialmente non ci ho badato particolarmente, e sono sceso in cucina, sbadigliando, per fare colazione. Solo la mattina seguente ho capito che quella era l’esplosione del missile che ha ucciso Ayman Al-Zawahiri, il leader di Al Qaida dopo la morte di Osama Bin Laden. Vorrei poter dire che era un bravo vicino, che salutava sempre quando lo incontravo – ma abitava a un chilometro da qui, risulterei poco credibile.

Proteste (un po’ surreali)

Sembra che la casa dove viveva Al-Zawahiri fosse di proprietà di qualcuno riconducibile alla Rete Haqqani, una delle due fazioni principali all’interno dei Talebani (quella più militare e oltranzista). In ogni caso, appare alquanto improbabile che uno degli uomini più ricercati al mondo potesse vivere nel centro di Kabul senza che il governo afgano dei Talebani ne sapesse nulla. Oggi è venerdì, il primo venerdì dopo la morte di Al-Zawahiri, e ci sono state proteste pacifiche in diverse città dell’Afghanistan, dopo la preghiera. I manifestanti protestavano contro la violazione della sovranità territoriale del paese, contro la “violazione dei prinicipi internazionali” (parole del portavoce del governo), contro la violazione degli accordi di Doha – che per altro avrebbero dovuto impegnare i Talebani a non offrire ospitalità a organizzazioni come Al-Qaeda sul territorio nazionale. Tutto ciò avviene quando sono appena iniziate le commemorazioni per l’Ashura, ricorrenza islamica particolarmente sentita dai sciiti (si ricorda la morte dell’imam Hussein, figlio di Ali, nipote del Profeta Maometto pbsl). La popolazione sciita è minoritaria in Afghanistan, ed è particolarmente esposta agli attacchi dei gruppi sunniti più radicali, in special modo l’IS-KP. Le strade di Kabul sono piene di posti di blocco, presenze di talebani armati a presidiare i luoghi di culto sciiti, e un gran traffico.

Un mondo di sigle

Gergo umanitario

Il mondo umanitario è ricchissimo di sigle e acronimi, e il linguaggio può essere alquanto ostico per chi non ne fa parte. Ogni organizzazione, tranne qualche caso eccezionale, ha la sua sigla; ogni settore ha il suo acronimo e ogni attività, ogni attore specifico, ogni gruppo di popolazione è contraddistinto da un mix difficilmente pronunciabile di lettere. Come se non bastasse, esistono i gruppi armati, i ministeri, i vari uffici governativi e apparati di sicurezza, ognuno indicizzato con una sigla. I report umanitari sono quindi (quasi) sempre preceduti da una ricchissima lista di acronimi iniziale – il che facilita la comprensione, ma di certo non li rende piacevolmente leggibili. Ancora peggiore lettura la regalano i report sulla sicurezza, che in un contesto di conflitto armato si arricchiscono di sigle di armi varie, di gruppuscoli armati appena formati, di tipologie di conflitto.

Unknown OAG (possibly AFF) attacked an IEA (GDI) VCP with SAF and RPG.
Un non meglio identificato AGA (forse FLA) ha attaccato un PBV del DGI del EIA con SAL e LGP.
Storia di fantasia, ma tanto la capite?

NRF, ALM, AFF, NFLA, USF, IS-KP, TTP

In questi mesi in Afghanistan non mi sono particolarmente soffermato a cercare di capire tutte queste sigle: sono troppe, e per il mio lavoro me ne bastano (o meglio: devo sopportarne) solo alcune. È anche vero che in questi mesi in Afghanistan non mi sono particolarmente interessato a capire quali fossero i vari gruppi armati che, in maniera più o meno visibile e attiva, combattono contro il regime dei Talebani. Non l’ho fatto per due motivi diversi: non ne ho avuto il tempo, che avevo molti altri aspetti della realtà afghana su cui concentrarmi; non ne ho avuto il coraggio, che imbarcarsi nel difficile mondo della politica afghana vuol dire affrontare una complessità travolgente. Però all’ennesimo report con un paio di sigle sconosciute (e senza una lista di acronimi a risolvere gli indovinelli), mi sono finalmente deciso a fare una lista dei vari attori armati presenti nel paese. Ne ho contati sei, ma mi sembra me ne manchino altri due almeno. Questi ve li risolvo, per compassione: il Fronte di Resistenza Nazionale, il Movimento per la Liberazione dell’Afghanistan, il Fronte Afghano per la Libertà, Fronte Nazionale per la Liberazione dell’Afghanistan, il Fronte del Milite Ignoto, lo Stato Islamico – Provincia del Khorasan e i Tehrik-e Taliban Pakistan (il movimento dei Talebani del Pakistan). Il primo è il movimento di resistenza del Panjshir, capeggiato da Ahmad Massoud, figlio di Ahmad Shah Massoud, il leone del Panjshir; gli ultimi due sono più tristemente noti. I nomi degli altri gruppi non possono che ricordarmi questa memorabile scena del “Brian di Nazareth” dei Monty Phyton.

PVPV

La sigla più strana di tutte è senza dubbio questa (e la potrei complicare: MoPVPV, o DoPVPV). Non si tratta di un collante a presa immediata, né stranamente di un innovativo materiale per l’isolamento termico. Sarebbe bello fosse così. Si tratta invece del Ministero per la Propagazione della Virtù e Prevenzione del Vizio. Un altro riferimento ai Monty Phyton è d’obbligo e farebbe quasi ridere, non fosse che il PVPV ha sostituito quasi un anno fa il Ministero degli Affari Femminili. Dire che l’abbia sostituito è per altro alquanto improprio, considerando che i due ministeri si basano su presupposti completamente opposti. Nelle ultime settimane i zelanti funzionari del PVPV hanno frustato una donna per non essere accompagnata da un uomo (mahram), ordinato a dei lavoratori di non tagliarsi la barba pena il licenziamento, sottoposto a fermo un commerciante che non stava pregando nell’ora della preghiera, arrestato e picchiato sei persone per aver ascoltato della musica in casa, avuto una violenta discussione con altri militari talebani che avevano arrestato una donna accusata di intrattenere conversazioni telefoniche con vari uomini. In quest’ultimo caso, i zelanti funzionari erano in disaccordo con l’arresto, e hanno infine liberato la donna.

Rilevanza di genere

Fortune dell’irrilevanza

Ho una fortuna inaspettata qui in Afghanistan, e non sempre me ne accorgo. Lavoro in un’organizzazione umanitaria che si è fortemente espansa nell’ultimo anno, e dove tanti meccanismi e funzionamenti interni devono ancora essere perfezionati. Questo fa si che molti colleghi e colleghe siano perennemente oberati di lavoro, indispettiti con qualcosa o qualcuno, forzati a straordinari e incontri più o meno produttivi. Il mio ruolo in tutto ciò è marginale: non sono certo al centro dell’azione, anzi mi sembra di agire in maniera alquanto periferica, e sono rari i momenti nei quali vedo concrete attuazioni dei miei consigli o idee (questa non è certo una novità: la maggior parte dei lavori che io abbia mai fatto – se escludiamo il cameriere – avevano obiettivi di lungo termine). Questa marginalità mi permette però una certa libertà di ricerca di informazioni e una certa libertà nel decidere a quali tematiche dare priorità.

Spiegone di quanto scritto: per l’organizzazione io mi occupo di Protection Mainstreaming, che in sostanza vuol dire assicurarsi che le nostre attività umanitarie non causino – involontariamente – danno alla popolazione coinvolta, che questa abbia un ruolo nei processi decisionali attorno all’aiuto umanitario, che non ci siano discriminazioni di sorta, che l’azione umanitaria rafforzi le comunità invece di renderle dipendenti. Sono tutti principi fondamentali – ma sono tutti orientati verso il come fare le cose, o su come migliorare le cose che si fanno. L’aiuto umanitario spesso – per vari problemi interni e difficoltà esterne – si concentra su cosa e quanto fare, meno sul come.

Analisi di genere

Uno dei temi sui quali sto concentrando la mia attenzione, e sui quali sembra ci sia ancora qualche interesse internazionale rispetto all’Afghanistan, è la condizione delle dinamiche di genere delle zone dell’Afghanistan nelle quali lavoriamo. L’organizzazione per la quale lavoro ha condotto un’analisi di queste dinamiche nell’agosto di due anni fa, e mi interessa capire quanto sia cambiato, visto anche il ritorno al potere dei Talebani (che comunque controllavano parte del territorio afghano anche prima della scorsa estate, imponendo lì le loro regole). Un’altra inaspettata fortuna che mi sembra di avere, forse anche più inaspettata della prima: riesco a parlare di queste questioni sia con colleghi afghani uomini che con colleghe afghane donne, e non mi sembrava cosa scontata. Anzi: mi sembra di riuscire a parlare di queste tematiche molto meglio con le colleghe donne che con i colleghi uomini – ma forse perché i colleghi uomini non vedono e vivono le problematicità delle dinamiche di genere come le vedono (a volte) le colleghe donne.

Problematicità?

Beh, dipende a chi si chiede, ovviamente. Prendete l’obbligo – comunicato, forzato, poi forse un po’ ritirato, non sempre rispettato – per le donne di fare hijab, ossia di celarsi, secondo i dettami dei talebani, quindi con il burqa o lo chador: ne ho parlato con diverse colleghe a Jalalabad. La risposta più bella che ho ricevuto, data da una collega che usa il burqa nello spazio pubblico (ma non in ufficio, dove invece si copre solo il capo con un velo alquanto morbido sui capelli), è stata: “io l’hijab lo faccio per i fatti miei, perché sono musulmana, non certo perché me lo ordinano i talebani”. Un’altra collega di Kabul, lo stesso giorno che i talebani avevano annunciato l’obbligo di quel hijab, mi ha scritto dicendo che le veniva da piangere: l’ho vista qualche giorno dopo a Jalalabad, e le ho chiesto se avesse viaggiato con il burqa o lo chador, lei che solitamente solo copre il capo con un velo a mezza testa. Lei mi ha risposto, perentoria: “No. Ho capito che se l’avessi indossato una sola volta non avrei potuto toglierlo più”.

Organization-girl

La condizione femminile in Afghanistan, dalla mia prospettiva (che è quella di uomo occidentale cresciuto con una certa dose di valori cosiddetti universali, e in qualche modo socializzato alle tematiche del femminismo), non è certo invidiabile (stavo per scrivere felice – ma la felicità è un sentimento privato e personale). Qualche giorno fa discutevo con un gruppo di colleghe rispetto alla loro condizione di donne afghane impiegate presso un’organizzazione umanitaria internazionale: mi raccontavano delle pressioni che loro, e i loro parenti più stretti, ricevevano da parte da altri famigliari (“ho uno zio che continua a chiedere a mio padre perché mi permetta di lavorare”), mi raccontavano della difficoltà di combinare il loro ruolo sociale di madri con quello di lavoratrici, delle domande a cui sono sottoposte da parte di autorità e beneficiari dell’aiuto umanitario. Nel gergo maschile di Jalalabad, sono etichettate come organization-girls – che nel gergo maschile di Jalalabad è un insulto.

Sulla strada

Kabul – Jalalabad

La strada per Jalalabad si divide in tre momenti: l’uscita da Kabul, l’attraversamento delle montagne del Hindu Kush attraverso la forra di Tang-e Gharo, e il passaggio nella larga valle che porta a Jalalabad. L’uscita da Kabul quasi non si nota, che la città si estende fino alle pendici delle prime montagne, e la strada percorre un continuo di negozi, mercati, venditori ambulanti e abitazioni. L’attraversamento del Hindu Kush è pittoresco, con la strada che si infila nella stretta forra scavata dal fiume Kabul e lambisce i fianchi rocciosi e spogli della montagna, passando attraverso gallerie buie; si incrociano diversi lentissimi camion, sia in salita che in discesa, carichi di merce e finemente decorati con motivi sgargianti. Di tanto in tanto un check-point è gestito con una certa disinvoltura da qualche soldato annoiato (in un caso talmente annoiato da sdraiarsi a fianco della piccola mitragliatrice puntata verso la strada e lasciare l’incombenza del controllo sbrigativo dei veicoli a un ragazzino di forse undici anni). La strada è mal protetta da qualche paracarro in cemento, e a ogni minimo spazio laterale in più ci sono improvvisati auto-lavaggi, che pompano acqua dal fiume e la spruzzano, con una gomma, su un piccolo piazzale di cemento. La valle che si apre al di là delle montagne è ampia, e con un forte contrasto di colori: lì dove passa il fiume, il verde è intenso, e ci sono campi di melograno, mandrie di mucche al pascolo, campi di grano e orti verdissimi; solo poco più in là, la montagna è aridissima, senza alcun arbusto e senza nessuna possibilità di ombra – l’ocra e il grigio sono i colori predominanti, ma ci sono chiazze di roccia violacea, come lividi sulla roccia.

Batikot

Sono stato a visitare un ambulatorio medico, nella piccola cittadina di Batikot, qualche decina di chilometri a ovest di Jalalabad. Sulla strada per Batikot – cercando di prestare poca attenzione alle mosse azzardate della mia macchina, delle altre macchine, delle biciclette, pedoni, muli e risciò – si possono osservare diversi oliveti, aranceti, gli alberi di melograno carichi di boccioli rosso acceso, piccoli appezzamenti coltivati a grano. Molte abitazioni sono ancora costruite secondo lo schema tradizionale: un perimetro rettangolare, cintato da un muro di fango con un’unica piccola porta, che apre verso un cortile sul quale si affacciano altre costruzioni basse di fango, legno e argilla. Di tanto in tanto, tra le pompe di benzina e GPL moderne, gli onnipresenti negozi di verdura e mercanzie varie, ci sono bei laboratori di giare di terracotta, di diverse dimensioni ma tutte con il fondo piatto, quasi tozzo. Ci sono anche dei cumignoli panciuti, non troppo alti e anneriti dal fumo, a indicare piccole fabbriche di mattoni. Per accedere alla clinica di Batikot, si attraversa un mercato affollatissimo, da percorrere a passo d’uomo (va detto che questo termine è più che mai azzeccato in un mercato afghano, che di donne in giro ce ne sono pochissime): mi sarebbe piaciuto scendere dalla macchina e camminare a piedi tra le bancarelle.

Riconoscibile

Le regole di sicurezza imporrebbero di indossare una mascherina durante i viaggi in macchina, oltre all’ovvia cintura di sicurezza. A Batikot, entrando nel caotico mercato, ci siamo tolti mascherina e cintura, che le regole di sicurezza impongono anche di mantenere un profilo bassissimo, e di essere il meno riconoscibili possibile; indossare la mascherina e allacciarsi la cintura sono ovvi segni di riconoscimento per uno straniero. Devo ancora capire quanto le shalwar kamiz che indosso (i vestiti tradizionali afghani, con i larghissimi pantaloni tenuti in vita da una corda e la lunga camicia fino al ginocchio) riescano a mascherarmi tra gli afghani. Un collega mi ha detto che potrei tranquillamente essere confuso con un afghano, ma non so se scherzasse o volesse farmi un complimento. Per non sbagliare e adeguarmi ai costumi, è da un po’ che non mi faccio la barba (ma non penso raggiungerà mai la fatidica lunghezza richiesta). Ma per non adeguarmi troppo, una delle shalwar kamiz che ho comprato è di un rosa acceso, con i pantaloni bianchi: non ne ho viste in giro di simili.

Rischi

Faccio una certa fatica a percepire il rischio a cui, da straniero, sono esposto. Faccio fatica a valutarlo, e non capisco se il rischio di rapimenti sia agitato come uno spauracchio da chi si occupa di sicurezza all’interno dell’organizzazione, o se e quanto sia reale. Le misure di sicurezza che dettano la mia vita qui sono d’altronde studiate per evitare qualsiasi rischio, non tanto per limitarlo. Anche gli attentati a Kabul e in altre città, quindi, mi sembrano distanti, quasi invisibili: ma il contesto sta rapidamente peggiorando, con attentati che non mirano più solamente a obiettivi militari, ma colpiscono indiscriminatamente luoghi affollati – un mercato, moschee sciite e sunnite, una scuola, un autobus. Un’altra mia difficoltà nel valutare il rischio dipende interamente dalla mia ignoranza rispetto alle dinamiche politiche e militari del paese: sono incapace di immaginare scenari futuri possibili. L’unico scenario che riesco a immaginare è lo status quo, e certo non è uno scenario positivo. Intanto l’altra notte le celebrazioni per l’Eid-al-Fitr, la festa di fine Ramadan, mi hanno dato un’idea di quante armi ci siano a disposizione della popolazione a Kabul: per una buona mezz’ora il cielo della città si è riempito di centinaia di scie rosse, quasi scenografiche se non fossero proiettili, e il rumore – ora più metallico, ora più sordo – di diverse armi ha riempito l’aria.

Kabul

In generale Kabul ha un’impronta alla mano e senza pretese, come una città balcanica nel senso buono del termine. È raccolta intorno ad alcune alture spoglie e rocciose, che emergono bruscamente dalla pianura verdeggiante e la proteggono. In lontananza si vede lo scenario delle montagne sempre incappucciate di neve, il parlamento è costruito in mezzo a un campo di grano e vi sono viali alberati per l’accesso alla città. D’inverno, forse, essendo a un’altitudine di quasi duemila metri, ha l’inconveniente del freddo, ma in questa stagione il clima è perfetto, poiché il caldo è sempre temperato dal freddo. I cinematografi e l’alcol sono proibiliti. Il medico della legazione ha dovuto smettere di curare le donne dietro richiesta della Chiesa, anche se talvolta vanno da lui travestite da ragazzi. La politica di occidentalizzazione forzata è ora sospesa.

Robert Byron, La via per l’Oxiana, 1937

Kabul

Mi devo accontentare delle parole di Robert Byron per descrivere la città. e devo dire mi sembrano calzanti. Però inizio a scoprire piccole nuove cose, tutte limitate e poco significanti, ma forse affascinanti proprio per la difficoltà del scoprirle. La terrazza della guest house (al suo piano più alto, oltre la recinzione verde) offre una meravigliosa vista sulla cittadella antica di Kabul, che si staglia sulle montagne lontane, guardando a nord-ovest. Il ristorante Sufi è ospitato in una bella casa storica, con le porte di noce scuro intagliate, e una stanza porticata con colonne di legno antico, dall’apparenza instabile e intagliate pure quelle. Di sera, in mezzo al cinguettio dei passeri, l’abbaiare di qualche cane randagio e i soffi di qualche gatto che si azzuffa, si sente spesso un verso vibrato, lungo, con picchi acuti vagamente fastidiosi: dev’essere un pavone in qualche giardino qui vicino. Di notte, le luci della città non danno fastidio a chi volesse guardare il cielo stellato, o godersi la luna piena: l’illuminazione è scarsa e non continua, e la miriade di piccole lucine bianche tremolanti nei quartieri più popolati sul fianco delle alture spoglie e rocciose da l’impressione di un mare mosso colmo di bioluminescenza.

Nel limite del poco che posso vedere, sono contento di ogni piccola scoperta.

Per strada

Ci muoviamo solo in macchina, come prevedeno i protocolli di sicurezza, tra la guest house, l’ufficio e i pochi posti autorizzati. I protocolli di sicurezza hanno però un inaspettato vantaggio: l’autista non prende quasi mai la stessa strada, e questo mi permette di guardarmi intorno un po’ di più, di osservare le strade da altre angolazioni. Il quartiere dove vivo e lavoro è forse il più liberale, che si vede qualche donna per strada senza il velo integrale, i manichini femminili sono ancora esposti nei negozi aperti, la presenza di barbuti armati è quasi un’eccezione. Qualche giorno fa, nel tragitto tra il supermercato e la guest house, ho notato un uomo sulla sessantina, alto, con la barba lunga, grigia e ben curata, in una mimetica un po’ consunta e un kalashnikov a tracolla: mi ha dato una strana impressione di grande tranquillità, e non ne ho capito il motivo. Ai lati della strada ci sono spesso uomini appisolati nelle loro carriole arrugginite, con le quali trasportano merci per qualche afghani: sono sdraiati dentro le carriole, in una posizione che non può essere un granché comoda, eppure sembrano quantomai rilassati e a loro agio.  

Contrasti

Prima dell’inizio del Ramadan avevo qualche occasione in più di parlare con i colleghi afgani, durante una pausa, sulla terrazza dell’ufficio. Mi sono presto reso conto di come basti una domanda (come si chiama quella montagna? Dov’è il Nord? Sei nato a Kabul?) e un po’ di curiosità per conoscere qualcosa in più sulle loro storie, i loro villaggi, il loro paese. Un collega mi ha mostrato alcune foto del suo villaggio natale, nel nord del paese, vicino al bacino del fiume Oxus – quel fiume che neanche Robert Byron è riuscito a vedere. Doveva aver scattato le foto recentemente: il villaggio era circondato da campi verdissimi, e sulle montagne grigie e brulle attorno c’era ancora neve bianchissima. La sua descrizione delle foto era stupefacente, per contrasti: “Questa è la casa della mia famiglia, e qui c’è l’orto dove colitiviamo un po’ di tutto. Davanti a questa porta hanno ammazzato mio fratello”; “Questa è una piccola miniera d’oro, in un giardino poco distante: si scava un po’, poi si lavano i sassi e la terra con l’acqua, attraverso un colino, e si trovano pepite d’oro”; “Questa è un pepita d’oro che abbiamo trovato. Ha un livello di purezza altissimo”; “Questa è la riva dell’Oxus, poco lontano da qui hanno ammazzato un altro dei miei fratelli”; “Questa è una foto della mia famiglia. Questi due sono i miei fratelli che non ci sono più, possa Allah avere misericordia di loro”.

Prime impressioni

Ahmad Shah Baba International Airport

All’aeroporto di Kandahar soffia un forte vento. Non possiamo scendere dal piccolo Embraer 145 sul quale voliamo da Doha a Kabul, ma ho la fortuna di avere un posto vicino al finestrino, e l’aereo ha parcheggiato proprio davanti al terminal. Mr. Bryan, lo steward con la voce più calda e suadente che ricordi, recita un “Ladies and gentlemen, welcome to Kandahar” di ordinanza. È tutto fermo. L’unico aereo sulla pista è un vecchio relitto abbandonato. Ci sono alcuni elicotteri malmessi, e gli hangar sono chiusi a prendere polvere. Una rondine appare davanti al mio finestrino: sta volando controvento, e per tutto lo sforzo che ci metta rimane ferma nello stesso posto. Poi decide di invertire la rotta, e schizza via. Il terminal dell’Ahmad Shah Baba International Airport di Kandahar è un edificio anche grazioso, con un ripetuto motivo di archi a ogiva, e un porticato esterno per schermare i passeggeri dal vento e dal sole. Ma passeggeri non ce ne sono quasi: ne scende uno, ne salgono due, e sono (siamo) tutti lavoratori del settore umanitario.

Kabul e un dollaro

Il primo incontro con Kabul è con i poliziotti di frontiera dell’aeroporto. Mi dicono essere gli stessi che lavoravano qui prima dell’agosto 2021, e sono cordiali o scontrosi come qualsiasi poliziotto di frontiera. Non mi sembra di essere in luogo molto diverso da quelli che ho già visto, ma gli aeroporti principali hanno il vizio di assomigliarsi molto. Un uomo afghano ha già caricato i nostri pochi bagagli su un carrello, e si offre di portarli fino al parcheggio. Ci chiede una mancia all’arrivo, e il dollaro che dovrebbe essere la norma non sembra soddisfarlo. Decido allora di liberarmi del mio dollaro feticcio: lo tenevo nel portafoglio da dieci anni almeno, tanto che aveva preso il colore caffelatte della pelle del portafoglio. Me l’aveva dato una signora americana, pensando di darmi chissà quale mancia immagino, quando lavoravo in un ristorante a Trento. Lì per lì mi fece ridere la sua ricerca di complicità nel mettermi nel taschino un singolo dollaro: poi però avevo pensato che era il mio primo dollaro, e non avevo resistito alla narrativa paperoniana. Non mi ha pesato lasciarlo alla prima persona in Afghanistan; anzi ho pensato possa essere di buon auspicio.

Kabul per strada

Ho visto pochissimo di Kabul, che i movimenti sono ristretti al minimo indispensabile. Quanto ho visto non mi ha impressionato per diversità o stranezze, per povertà o miseria, né per presenze armate particolarmente inquietanti. Di tanto in tanto si vedono i barbuti al potere, e i loro kalashnikov e le divise militari; di tanto in tanto un edificio è protetto da sacchi di sabbia, un veicolo militare a guardia e una bandiera bianca con iscrizioni in arabo svetta da un palo. Sono entrato nell’Emirato Islamico dell’Afghanistan dalla capitale, e le capitali hanno la fama di essere più liberali delle province. Mi guardo intorno, nel viaggio dall’aeroporto alla guest house che ci ospita: per strada un traffico non intenso ma caotico, con un promiscuo passaggio di macchine, biciclette, caretti trainati da asini malconci e motociclette. Per strada uomini, principalmente, quasi tutti vestiti tradizionalmente ma non tutti con barba e cappello d’ordinanza. Per strada anche donne e ragazze, e vestono quasi tutte un hijab rilassato, a coprire solo parte del capo lasciando vedere i capelli.

Non ho visto nulla

Le mie prime impressioni di Kabul non rappresentano ovviamente nulla, sono solo uno sguardo limitato sul poco che posso vedere. E posso vedere veramente poco: la terrazza della guest house è protetta sui quattro lati da una rete metallica alta due metri e mezzo coperta con un tessuto di plastica verde, simile a quelli che si usano nei campi sportivi. Sembra sia per evitare che noi si possa guardare dall’alto due case vicine, che appartengono a talebani di qualche sorta. Perfino le finestre in camera mia sono protette da una pellicola opaca, che i vicini intransigenti hanno protestato. Dalla terrazza dell’ufficio, meno protetta, posso vedere in lontananza le montagne del Hindu Kush a nord, e le colline appuntite e affollate intorno a Kabul. C’è un pino marittimo nel cortile dell’ufficio, che svetta alto, sul qualche qualche piccione, colomba o cuculo si nasconde e canta.