Aquiloni
La storia degli aquiloni in Afghanistan è parecchio nota, e forse un tantino abusata. La storia vuole che nel 1998 i Talebani, da due anni al potere, avessero deciso di vietare gli aquiloni. Partendo da questa notizia e dalla rabbia che gli causava, Khaled Hosseini scrisse un racconto breve, che poi trasformò nel romanzo diventato famoso con il titolo Il cacciatore di aquiloni, nel 2003. Il romanzo ebbe un successo mondiale, e contribuì non poco a malleare l’immagine dell’Afghanistan e dei gruppi etnici afghani nel resto del mondo. Non ho letto il libro prima di venire in Afghanistan, né penso lo leggerò dopo essermene andato – ho un po’ paura di trovarci una versione romanzata di alcune situazioni che mi pare di avere, se non capito, quantomeno scalfito. Ci ragionavo oggi, quando mi sono accorto di un piccolo uccello verde brillante posato sul filo spinato sopra il muro del compound di Jalalabad. Vicino a lui c’erano due aquiloni, impigliati anche loro nel filo spinato. Ho scattato una foto, e pensato a quanti danni avrei fatto condividendola.
Battaglie di aquiloni
Che poi io nella mia pressoché assoluta ignoranza di aquiloni e nella mia stereotipata conoscenza (tutt’ora) di una parte della cultura afgana, pensavo che un aquilone lo si facesse volare per il puro piacere di vederlo volare e giocare con le correnti d’aria (anche perché l’unico riferimento letterario a aquiloni era Charlie Brown, che aveva notoriamente enormi problemi a farlo alzare in volo). In Afghanistan invece far volare aquiloni è qualcosa di molto più serio, molto più competitivo: si parla infatti di battaglie di aquiloni, nelle quali vince chi riesce a far volare il suo più a lungo, ossia a far si che nessun altro partecipante riesca a tagliare il filo del suo aquilone (con il filo del proprio aquilone). Non mi è chiaro come questo sia possibile – apparentemente si possono rinforzare i fili con materiale abrasivo, così da essere più taglienti. Forse avrei dovuto leggere Il cacciatore di aquiloni.
Musica di prima mattina
Quando sono a Jalalabad, la mattina mi piace iniziare a lavorare presto – fa meno caldo e non c’è bisogno dell’onnipresente aria condizionata. Dietro l’edificio che ci ospita c’è una scuola privata; dal vociare che spesso sento, dev’essere una scuola elementare o simile. Qualche mattina fa, dalle 7 in poi, gli altoparlanti della scuola mandavano musica a un volume parecchio elevato, che mal si conciliava con i miei tentativi di rimanere concentrato. Non mi sembrava né una musica militare né celebrativa, e suonava più simile a un qualsiasi pezzo pop del sub-continente indiano. Verso le 7:30 (in ufficio era già arrivato un collega afghano) qualcuno ha iniziato a recitare i versi di qualche poeta, e subito dopo è partito, forte e chiaro, l’inno nazionale afghano. Si badi bene: l’inno era quello della Repubblica Islamica dell’Afghanistan, usato dal 2006 al 2021; non quello dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan, in vigore da quando i Talebani hanno riconquistato il potere a agosto 2021. Ho chiesto spiegazioni al collega, che non sembrava troppo preoccupato di possibili conseguenze di quel che io temevo suonasse, letteralmente, come un affronto al governo in carica. “Non tutti hanno paura dei Talebani”, mi ha detto.
Bandiere
Un aspetto che mi ha impressionato dall’inizio della mia presenza in Afghanistan è la quantità spropositata di bandiere dei talebani, bianca con la shahada (la testimonianza di fede) scritta in nero. Sono pressoché dappertutto, e durante le feste obbligate si moltiplicano, issate su qualsiasi palo e all’esterno di qualsiasi negozietto – immagino non tutte sventolino volontariamente, ma molte siano lì un po’ per obbligo, un po’ per evitare qualsiasi guaio. Una è comparsa anche sul cancello a fianco del nostro, a Kabul, senza alcun apparente motivo. Mi chiedo chi le produca, e che ottimi profitti stia registrando da un anno a questa parte. La bandiera nazionale, tricolore nera rossa e verde con strisce orizzontali, è vietata – l’unica volta che l’ho vista sventolare stavo viaggiando da Jalalabad a Kabul, e un ragazzo la teneva fuori da un risciò su uno dei tanti tornanti del passo Khaber (un posto alquanto nascosto, va detto). Era il giorno dell’indipendenza dell’Afghanistan.