Ayadiyah – l’acqua (الماء)

Ayadiyah è un paese che sembra di montagna, incastonato nella conca di un piccolo fiume, sotto un colle piatto e lungo di terra rossa e un altro piccolo promontorio sul lato opposto. Sorge quasi nascosto, come tutti gli altri villaggi abili nel mimetizzarsi con le tinte aride della stagione secca, e non ha alte costruzioni o antenne a segnalarne, da lontano, la presenza. Sulla strada da Tel Afar, quasi appare improvvisamente dietro una curva a destra, poco oltre un vecchio magazzino di attrezzi agricoli. La strada è un sali-scendi di ponti in costruzione e buche, ai cui lati sono disseminati diversi rottami di auto incendiate. Spesso, sui fianchi delle colline spoglie, si intravedono vecchi tunnel richiusi da un muro di pietre. L’indicazione stradale prima di entrare al villaggio dice: dritti per il centro, a destra per Mosul.

Il punto di incontro. Durante un’emergenza c’è sempre un punto di incontro. Ci si trova, ci si conta, ci si organizza. Ayadiyah era il punto di incontro per i miliziani dello Stato Islamico nel caso qualcosa fosse andato storto a Tel Afar. Ayadiyah era il posto tranquillo, dove vivevano molte delle famiglie, isolato rispetto a Tel Afar, snodo militare e amministrativo dello Stato Islamico.

Io faccio fatica a immaginarla, Ayadiyah, tra il giugno del 2014 e il settembre del 2017. Qualcuno mi ha raccontato di Tel Afar, di come lo Stato Islamico avesse imposto le sue regole poco alla volta alla popolazione locale, di come abbia distrutto la fortezza ottomana, di come la città fosse un importante luogo di passaggio tra Mosul e Raqqa, in Siria. Ma di Ayadiyah durante quegli anni so poco, e temo che non saprò molto mai. Chi conosco non c’era, e chi c’era non penso abbia alcuna voglia di parlarne. Ecco che io allora immagino Ayadiyah come il lato umano dei miliziani dello Stato Islamico in questo angolo di Iraq. Se a Tel Afar smerciavano le donne yazide schiavizzate, trasportavano armi, distruggevano e uccidevano tutto quanto non fosse in linea con il loro pensiero, a Ayadiyah avevano le loro famiglie, i loro bambini che correvano attorno ai cortili, le galline che razzolavano la strada polverosa. Ayadiyah era il momento di stacco, dove anche il poliziotto della hisba poteva chiudere un occhio se il vecchio incontrato per strada stava fumando una sigaretta. La immagino come il luogo sicuro, la casa, alla quale ritornare. E l’ovvio punto d’incontro se le cose si fossero messe male.

Le cose si misero male a fine agosto 2017, quando l’esercito iracheno, le milizie filo-iraniane, i peshmerga curdi, le unità di mobilitazione popolare, con l’aiuto dell’aviazione statunitense, riconquistarono prima Mosul, e poi rapidamente Tel Afar. I miliziani dello Stato Islamico rimasti ripararono a Ayadiyah, e ingaggiarono una battaglia durata dieci giorni – un tempo considerevole, per un villaggio di qualche migliaio di persone. Il tranquillo villaggio di Ayadiyah diventato l’ultima roccaforte dello Stato Islamico nella grande provincia di Niniveh. La distruzione fu pressoché totale. Chi tornò a Ayadiyah dopo la liberazione dallo Stato Islamico si trovò di fronte un paese sparito tra i colori aridi della terra attorno, perché del paese era rimasto ben poco.

Ora la vita a Ayadiyah ha ripreso il suo corso, come però rallentato, più resistente e modesto, rispetto a cinque anni fa. La compresenza di nuovi piccoli negozi incastrati tra le macerie di un primo piano barcollante, comune a tutte le città distrutte dalla guerra, dà allo stesso tempo un senso di precarietà e di fermezza. Un barbiere taglia i capelli a poco prezzo, tra una casa sventrata e una rasa al suolo. La fortezza di Ayadiyah, come quella di Tel Afar, non esiste più, ché la furia iconoclasta dello Stato Islamico si è espressa anche qui (ecco che la mia immaginaria narrazione, già di per sé fasulla, vacilla). Alcuni fori di proiettile sui muri sono stati riempiti di stucco, alcune pareti sono state ricostruite. Le macerie di qualche casa completamente distrutta sono state rimosse, mentre gli scheletri di calcestruzzo armato di molte strutture rimangono lì, pendenti. All’interno di qualche edificio – un’abitazione, una vecchia scuola – si intravedono ancora gli oggetti personali di chi ci aveva vissuto o studiato, segno che nessuno, anche per la concreta paura di mine e proiettili inesplosi, ci è mai tornato.

Ma la mia collega si è fidanzata, ed è felice, e un gruppo di giovani auto-organizzati ha ripulito e ristabilito quella che mi dicono essere la fontana del villaggio. Non avendola mai vista, chiedo di poterci andare, a mo’ di saluto all’Ayadiyah che rinasce.

Camminando una prima e forse ultima volta tra i vicoli in salita della parte vecchia del villaggio, tra le rovine delle costruzioni storiche in pietra, con le loro belle volte ormai a vista, ci si imbatte in pochi, pochissimi abitanti. Camminiamo tutti assieme, siamo una decina, e la nostra presenza quasi turistica sembra invisibile e nota a tutti. La fontana è nascosta dietro a un piccolo promontorio di case, rovine e immondizia, in una piccola conca. Un forte odore di zolfo ci accoglie nell’avvicinarci. L’inglese è lingua straniera di tutti, e la fontana non è una fontana: è una sorgente di acqua sulfurea, una volta usata come bagno termale. Il gruppo di giovani auto-organizzati ha rimesso attorno alla sorgente delle larghe piastrelle bianche e risistemato la scalinata, dando una sensazione di anfiteatro alla piccola grotta da cui nasce la sorgente. L’acqua è limpida e trasparente, vagamente turchina. Un collega riempie una bottiglia di plastica e me la regala.

Ed è difficile, difficilissimo, non pensare a un’altra sorgente, a un’altra acqua sulfurea, maleodorante e benefica, con cui mi sciacquavo la faccia qualche mese fa: Srebrenica. Srebrenica con la sua camminata salutare fino alle terme Guber e il colore rosso della roccia; Srebrenica con i suoi segni ancora evidenti della guerra, e i progetti vaghi per sfruttare nuovamente quell’acqua salutare.

Srebrenica e Ayadiyah, due esperienze così lontane e così vicine, nel segno comune di un’acqua che puzza e purifica. Me ne vado da qui con il cuore più leggero, e la sensazione di aver unito altri due punti di chissà quale disegno.