Storie dal campo

Premessa

Il governo iracheno ha deciso di chiudere tutti i campi sfollati presenti sul suo territorio (precisazione necessaria, visto che i campi sfollati nel Kurdistan iracheno non verranno chiusi). La decisione non è una novità, ed è stata annunciata diverse volte negli ultimi anni. Diversamente dal solito, però, il governo iracheno ha anche deciso di mettere in pratica la decisione, chiudendo nel giro di qualche mese quasi tutti i campi sfollati – prima quelli attorno alla capitale Baghdad, poi quelli attorno a Kirkuk e altri vicino a Mosul. A ottobre circa 60 mila persone vivevano nei campi sfollati che sono stati progressivamente chiusi. Un numero relativamente basso rispetto alla situazione di un anno e mezzo fa, quando nel solo campo sfollati chiamato Airstrip, a sud di Mosul, vivevano circa trentamila persone. Ma un numero consistente, considerando che molte di queste persone non hanno un altro luogo dove andare (chi perché ha perso tutto, chi perché non verrebbe riaccettato nelle proprie comunità, chi perché ormai si era costruito una vita, nei campi). L’ultimo campo a essere stato chiuso, con un preavviso di 48 ore, è stato il campo di Salamiyah, vicino alla città di Hamdaniya/Qaraqosh/Bakhdida dove mi è capitato di lavorare. Alcune famiglie, quelle che hanno voluto o non potevano altrimenti, hanno accettato di essere trasferite nel campo di Jeddah 5, che si vocifera verrà chiuso a aprile ma per ora rimane uno dei pochi aperti. Per dare una mano al team che lavora a Jeddah 5, mi sono spostato per qualche giorno da Erbil; mi sembra una buona occasione per raccontare qualche storia.

Due uomini sudanesi

Un collega scrive sul gruppo Whatsapp: “Ci sono due sudanesi sul pullman in arrivo a Jeddah”. Chiedo e ricevo conferma, tra il sorpreso e l’insospettito. Ma è solo un altro segno dei miei preconcetti e della mia conoscenza approssimativa della storia di questo complicatissimo paese. Negli anni 80’ si contavano circa 350mila sudanesi in Iraq, arrivati in Iraq come forza lavoro – un accordo tra Saddam Hussein e Omar el-Bashir, allora presidenti autoritari di Iraq e Sudan, aveva facilitato le procedure di visto e arrivo. E i sudanesi in Iraq godevano di un’ottima reputazione, ed erano molto rispettati. Con la caduta di Saddam Hussein e la rovinosa situazione economica post 2003 le cose sono cambiate per tutti, e molti sudanesi residenti in Iraq (nel 2004 si parlava di qualche migliaio) si sono trovati bloccati nel limbo del migrante: rimanere, instabili, sperando che le cose tornino ad andare meglio, o tornare, magari a mani vuote, in un paese estremamente cambiato. I due uomini sudanesi che ho salutato oggi fanno parte della prima categoria.

Il professore

All’interno di un piccolo negozio – uno dei tanti che vendono un po’ di tutto, e che mostrano la grande capacità di adattamento delle persone – cerco di scambiare due parole con il proprietario. La conversazione è sostenuta quasi interamente dal mio collega, che il mio arabo ancora (quando mai) non mi permette di andare oltre i saluti di rito. Assieme al proprietario, intorno a un piccolo fornelletto a gas con la fiamma al minimo, è seduto un uomo, che mi guarda curioso. Scambio i miei salamalecchi anche con lui, che un po’ timidamente mi chiede, in inglese, da dove vengo. Parlottiamo un po’ aiutandoci con quel poco che abbiamo linguisticamente in comune, e mi dice che lui è, che lui era, un professore di chimica a Sinjar, prima di dover fuggire. Quel presente indicativo diventato velocemente imperfetto mi ha fatto pensare al film Il pianista, quando il protagonista, scoperto da un ufficiale tedesco in una casa intatta nella Varsavia distrutta, alla domanda “Wovon leben Sie?” (un che lavoro fa Lei? difficilmente traducibile) risponde “Ich bin.. ich war Pianist” (sono… ero un pianista). (per poi confermarlo suonando perfettamente la Ballata n.1 in Sol minore di Chopin, ma io non potevo certo chiedere una lezione  in arabo sulla tavola periodica).

Una bella famiglia

Il settore O del campo sfollati di Jeddah 5 è completamente vuoto; da ottobre, più di mille famiglie hanno lasciato il campo, creando enormi aree desolate. Mi dispiace, che era un settore dove andavo sempre volentieri: ci viveva una bella famiglia che avevo seguito parecchio, assieme a un mio collega iracheno, che li seguiva da molto tempo più di me. Padre madre e vari figli e figlie – non ho mai capito quanti e quante, e chi fosse figlio e figlia di chi, che la madre era ancora incinta e la figlia maggiore aveva già partorito una o due volte. Non potevano tornare nella loro regione perché minacciati: da quanto ho capito, il figlio maggiore si era unito allo Stato Islamico, nonostante i tentativi del padre di fargli cambiare idea. Questo è sufficiente perché l’intera famiglia sia costretta a migrare di campo in campo, senza poter fare ritorno a casa per paura di ritorsioni. E, vedendo il settore O completamente vuoto, li immaginavo già altrove. Ma si erano solo spostati di settore: ho incontrato di nuovo la bella famiglia, Abu e Umm Amal (أمل, nome di fantasia e significato), e la piccola Maryia, che mi ha riconosciuto e non voleva che me ne andassi.

There will be blood*

Tutto il petrolio che vuoi, e basta

La situazione economica dell’Iraq è facile da spiegare: il 94,7% del fatturato dello Stato deriva dalla vendita del petrolio. Se il prezzo del petrolio cala, o crolla, così cala, o crolla, l’economia dell’Iraq. Il prezzo medio di un barile di petrolio prodotto dai paesi membri dell’OPEC (l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, di cui l’Iraq è membro) nel 2019 era di 64 dollari al barile. Per il 2020, l’OPEC stima che il prezzo medio dello stesso barile sia stato di 40 dollari al barile. Il 27 aprile, nel mezzo della prima crisi pandemica, il prezzo di un barile a Bassora, nel sud dell’Iraq, era di 23 dollari e 78 centesimi. In media, nel 2019, l’Iraq ha prodotto 4,6 milioni di barili al giorno: circa un miliardo e settecentomila barili all’anno. Di questi, circa 4 milioni al giorno sono stati esportati. Nel 2020, anche a causa di un accordo tra i paesi appartenenti all’OPEC mirato a diminuire la produzione a causa della crisi economica, ne sta producendo in media “solo” 4 milioni al giorno (i barili prodotti a fine anno saranno circa un miliardo e quattrocentocinquantamila). Ah, un barile sono 160 litri. Secondo i dati del MEES (una newsletter che dal 1957 si occupa di statistica nel Medio Oriente, con particolare attenzione al settore petrolifero), nel 2019 l’Iraq ha guadagnato circa 88 miliardi di dollari dall’esportazione di petrolio. A settembre, il governo iracheno ha presentato al Parlamento il budget 2020 (no, non è un errore: il budget per il 2020 è stato presentato a anno quasi finito): l’aspettativa di guadagno dall’esportazione di petrolio è di circa 53 miliardi di dollari.

Il posto fisso

A giugno, il primo ministro iracheno Mustafa al-Khadimi aveva fortemente criticato i governi precedenti per non aver diversificato l’economia. “Dire che abbiamo un’economia forte è una bugia, perché non abbiamo nessuna economia. Abbiamo una situazione finanziaria che dipende dal petrolio, non abbiamo un’economia reale”. E una parte considerevole della popolazione irachena dipende dallo Stato, quindi dal petrolio. L’Iraq, con una popolazione di circa 40 milioni di abitanti, conta 4,5 milioni di impiegati pubblici (1 ogni 8,9 abitanti). Per fare un paragone: l’Italia nel 2017 contava circa 3,5 milioni di impiegati pubblici, per una popolazione di 60,5 milioni di abitanti (1 ogni 17,2 abitanti). Il costo degli stipendi, sommato al costo delle pensioni, vale il 122% delle entrate derivanti dalla vendita di petrolio. Tra il 2004 e il 2020 questo costo è aumentato del 400%. Una situazione difficilmente sostenibile. Eppure l’ambizione del posto fisso, nel settore pubblico, è ancora molto forte tra la popolazione, che lo considera una sicurezza economica (per quanto spesso malpagata). L’ambizione è direttamente collegata alle accuse di nepotismo e corruzione, con il continuo riferimento all’importanza della cosiddetta “vitamina V”, la vuasta, la raccomandazione necessaria per essere assunti.

Le proteste nel Kurdistan iracheno

Le proteste che, a partire dall’ottobre dell’anno scorso, hanno caratterizzato l’Iraq, erano per lo più limitate alle città del sud del paese, compresa la capitale Baghdad. Nelle ultime settimane, molte persone sono scese in piazza anche a Sulaymaniyya, la seconda città del Kurdistan iracheno. Otto persone sono rimaste uccise dalla repressione delle forze armate (curde), e vari mezzi di informazione, incluso il gruppo Rudaw (il più importante media group del Kurdistan iracheno), sono stati minacciati con multe e sanzioni da parte del governo curdo, per aver mostrato le immagini della protesta. I manifestanti hanno incendiato diverse sedi di partiti locali, inclusi dei due grandi partiti curdi PDK e UPK, e altri edifici governativi. Per cosa protestavano? Per il ritardo dei pagamenti degli stipendi pubblici, che non arrivano da quasi sei mesi. Il governo iracheno e quello della regione curda stanno trattando senza sosta per trovare un accordo, ma la situazione è complicata e i soldi scarseggiano. Inoltre il governo di Baghdad accusa il governo del Kurdistan iracheno di non rispettare le quote di estrazione del petrolio (ci risiamo) imposte dalla decisione dell’OPEC di ridurre la produzione. Il Kurdistan iracheno, che aveva cercato invano di rendersi indipendente con il referendum del 2017 e la rivendicazione territoriale su Kirkuk e i suoi ricchi pozzi petroliferi, ora dipende economicamente da Baghdad.

Quindi?

Il governo iracheno sta tentando in tutti i modi di invertire la rotta economica (o meglio, di crearne una) per districarsi da questa situazione. Si trova però in una posizione per nulla facile: la decisione dell’OPEC di tagliare la produzione di petrolio per attutire le conseguenze della crisi economica costringe l’Iraq a estrarre molto meno di quanto potrebbe, e le limitazioni dovrebbero durare fino al 2022. Con un’economia così dipendente da quell’unica fonte, ridurre le estrazioni equivale a ridurre i soldi in circolo, quindi a tagliare la spesa. Intervenire con una radicale riforma del settore pubblico, come sembra voler procedere il governo, potrebbe causare nuove enormi proteste nel paese, coinvolgendo vari settori della popolazione. L’instabilità politica ritarderebbe l’approvazione di riforme, che a loro volta ritarderebbero la creazione di un’economia più diversificata. Un cambio di regime drastico avrebbe un impatto anche sugli sforzi militari del paese nelle zone che ancora vedono una presenza di miliziani dello Stato Islamico. Quindi nulla: a marzo arriva il Papa, inshallah.

*titolo originale del film “Il petroliere”, e mi sembrava azzeccato

Mamma li Curdi

Il PKK in Iraq

Il 4 novembre un gruppo di soldati del PKK – il Partito dei Lavoratori del Kurdistan – ha attaccato un gruppo di peshmerga, i soldati dell’esercito del Kurdistan iracheno, nella regione di Dohuk, non troppo lontano da Erbil. Un peshmerga è morto, a seguito delle ferite riportate. Qualche giorno dopo, una mina anti-carro, con tutta probabilità piantata dal PKK, è esplosa al passaggio di un mezzo militare dei peshmerga, senza ferire nessuno. Altre mine e booby-trap (trappole esplosive di altro genere) sono state disinnescate dai peshmerga prima che potessero fare danni e vittime. In almeno altre due occasioni, convogli di peshmerga sono stati attaccati dal PKK. Gli attacchi sono stati denunciati come atti di guerra dal governo curdo a Erbil, e da quello iracheno a Baghdad. Anche alcune ambasciate hanno condannato fortemente gli attacchi del PKK, in particolare quella francese (che però non addita direttamente il PKK, ricordando solo come “il PKK sia considerato un’organizzazione terroristica da parte dell’Unione Europea”) e quella americana (che invece “condanna gli attacchi dell’organizzazione terroristica PKK”). Nel frattempo, e tenendo conto solo dei dati della prima settimana di novembre, il PKK è stato attaccato 17 volte dagli aerei e elicotteri dell’esercito turco, e una volta da un aereo dell’aviazione iraniana, nelle montagne al confine tra l’Iraq, la Turchia e l’Iran.

I curdi chi?

Che i curdi combattano tra di loro non è una novità, ma può sembrare strano a chi si è creato l’immagine del popolo curdo oppresso, in particolare dalla Turchia. La realtà e il dramma dei curdi siriani (prima internazionalmente esaltati per aver sconfitto l’autoproclamato Stato islamico a Kobane, e poi internazionalmente dimenticati dopo essere stati attaccati dall’esercito turco) ha poi rafforzato questa immagine, rendendo la narrazione attorno al popolo curdo vagamente piatta. Ma ci sono circa 30 milioni di persone che si riconoscono nell’etnia curda, e queste 30 milioni di persone vivono principalmente in 4 stati diversi (la Turchia, l’Iraq, la Siria e l’Iran, a cui si aggiungono i paesi di emigrazione), dove sono sottoposti a regimi differenti, e dove la richiesta di autonomia si è espressa in maniere diverse, raggiungendo risultati diversissimi. Risultati che hanno portato, e portano ancora, a coltivare obiettivi a volte contrastanti. Il Kurdistan iracheno è l’unica regione autonoma governata da curdi, con un esercito curdo (i peshmerga, appunto) e un apparato amministrativo e economico gestito dai curdi. Il Kurdistan iracheno ha la struttura di uno Stato, e ad uno Stato, come suggerisce il nome, piace la stabilità – in particolare vista l’instabilità politica dell’Iraq. La presenza del PKK nelle montagne del Kurdistan iracheno è un fattore di instabilità, tanto più che il governo di Erbil deve mantenere un bilanciamento tra chi, almeno idealmente, appoggia il PKK e chi ne farebbe volentieri a meno.

Nota politica sul Kurdistan iracheno

Il parlamento del Kurdistan iracheno conta otto diversi partiti politici. Due sono i principali: il Partito Democratico del Kurdistan (KDP) e l’Unione Patriottica del Kurdistan (PUK). Il KDP è il partito storico del Kurdistan iracheno, il partito della famiglia (clan suona dispregiativo, ma sarebbe più corretto) Barzani, di Mustafa prima, Masoud e figli poi. Il partito che più ha investito nel progetto dell’indipendenza del Kurdistan iracheno, fino al fallimentare referendum del 2017 quando, nonostante una schiacciante vittoria popolare, il Kurdistan perse il controllo di vaste aree di territorio contese al governo iracheno. Quel referendum mise in pericolo l’autonomia del Kurdistan, e costrinse Masoud Barzani alle dimissioni da presidente del governo curdo (subito rimpiazzato dal nipote Nechirvan). Il PUK nasce dal KDP negli anni Settanta, quando venne fondato da vari politici curdi con posizioni filo marxiste, tra cui Jalad Talabani (presidente dell’Iraq, tra il 2006 e il 2014). L’influenza del PUK ruota intorno alla città di Suleimanya, nel sud del Kurdistan, ed è ancora un partito più ideologico del KDP. Questi due partiti hanno conosciuto diversi momenti di cooperazione (governando assieme la regione curda dal 2005 al 2013) e vari momenti di conflitto, sfociato in guerra civile tra il 1994 e il 1997. Tra gli altri partiti che formano l’arco parlamentare, va menzionato il Bizûtinewey‌ Gorran (Movimento per il cambiamento), nato dal PUK e dalle accuse di corruzione e gestione familiaristica del potere all’interno dei due maggiori partiti curdi.

Come ogni partito, ma a maggior ragione in una regione attraversata da grandi interessi geopolitici, i partiti curdi hanno alleanze e interessi diversi e divergenti: il KDP, pragmatico partito di governo, è un buon alleato della Turchia (da cui la regione curda dipende economicamente) e degli Stati Uniti (da cui la regione curda ha dipeso politicamente).

Il senso degli attacchi del PKK

Il tempismo degli attacchi del PKK non è casuale. Il governo del Kurdistan iracheno e il governo iracheno hanno firmato, a inizio ottobre e con la mediazione del governo statunitense e di quello turco, un accordo che regolasse la situazione nella zona di Sinjar, la capitale degli yazidi (popolazione di lingua curda e religione yazida) nel nord ovest dell’Iraq. Sinjar è tutt’ora considerata area contesa tra governo curdo e governo iracheno, soprattutto visto il contributo dei peshmerga alla liberazione della città dall’auto-proclamato Stato islamico, nel 2017. Ma a liberare Sinjar non c’erano solo i peshmerga, tra le forze curde: c’era anche il PKK, direttamente o attraverso milizie yazide alleate. L’influenza del PKK sulle dinamiche politiche e di sicurezza della regione rimaneva un problema per il governo curdo iracheno, per quello iracheno, per quello turco (che nel frattempo conduce attacchi aerei nella zona) e per quello statunitense. L’accordo firmato a ottobre ha l’obiettivo dichiarato di riformare la struttura del potere politico e militare nella zona, escludendo i gruppi legati al PKK.

Di ritorno

Premessa

Sono passati sette mesi dall’ultima volta che mettevo piede in Iraq. Quando lasciai il paese, a marzo, pensavo la mia assenza sarebbe durata meno. In questi sette mesi passati in Europa ho lavorato da remoto, cambiando anche due posizioni lavorative – più per necessità dell’organizzazione che per volontà mia. A luglio sono diventato Team leader del progetto di Nonviolent peaceforce a Sinjar e Ba’aj. A settembre, Team leader del progetto di Nonviolent peaceforce a Hawija. Sono stato tentato di aggiornare questo blog durante questi mesi, con qualche storia che mi proveniva dai miei colleghi, o da qualche altra fonte di informazione. Ho però sempre resistito: non volevo raccontare qualcosa che non stavo vivendo direttamente, soprattutto da così distante. Mi dispiace non aver mai visto Sinjar e Ba’aj, mi dispiace non averne mai scritto. Ma in questo spazio non ho quasi mai scritto usando la mia immaginazione.

Un altro aereo

Sono arrivato a Erbil con due voli della Turkish airlines, il primo da Milano a Istanbul, il secondo da Istanbul a Erbil. Gli aeroporti erano molto più sonnolenti del solito, e non era questione di orario. L’aeroporto di Istanbul (quello nuovo, fortemente voluto da Erdogan) era il solito incredibile luogo di passaggio del mondo intero: mi affascina sempre camminare a zonzo tra i duty free e i vari imbarchi, per osservare diversi vestiari, tradizioni, volti, modi di vivere lo spazio. L’aereo per Erbil era completamente stipato di passeggeri, e gli inviti del personale della compagnia, in un inglese stentato, a mantenere il distanziamento sociale suonavano paradossali. L’aeroporto di Erbil mi è ancora familiare, e ripercorrere un percorso scontato a così tanti mesi di distanza è stato straniante. La procedura anti-COVID in vigore è molto semplice: chi può dimostrare di avere fatto un tampone entro le 72 ore precedenti prosegue liberamente, gli altri devono sottoporsi a un tampone in aeroporto. Io facevo parte del secondo gruppo, e penso di aver beneficiato del tampone più rapido al mondo. In due minuti ho mostrato un documento, pagato, mi sono seduto su una sedia di plastica, ho inclinato docilmente il capo e sopportato il fastidioso tampone. Mi rimane ancora il dubbio su come verrò ricontattato per l’esito, visto che ho tenuto con me tutti i documenti compilati.

Quarantena

Le regolamentazioni in Iraq contro la diffusione del virus sono abbastanza stringenti, e la regione autonoma curda non fa eccezione. Chiunque rientri deve sottoporsi a due settimane di quarantena, che io sto trascorrendo nel complesso residenziale di Park view, dove la mia organizzazione affitta ufficio e appartamenti. Non sono nel mio solito appartamento, che nel frattempo è stato liberato, ma in uno adiacente, al quinto piano, con un balcone che da verso l’interno del complesso e uno dei palazzoni, così da limitare quasi completamente lo sguardo sulla città (nonché l’arrivo del sole diretto). Il numero di appartamenti vuoti, tra quelli che riesco a vedere, sembra essere maggiore del solito, segno che ancora buona parte della comunità internazionale che ci abita (composta da lavoratori di organizzazioni non governative, personale di compagnie aeree e altre imprese straniere) deve ancora rientrare. Nel frattempo, l’amministrazione del complesso residenziale ha deciso di svolgere dei lavori nel cortile che connette i vari palazzi, e ha proseguito lo strano canale che dalla fontana di ingresso passa attraverso qualche aiuola, sovrastato da piccoli ponti di legno dove giovani coppie amano venire a fotografarsi durante le loro nozze. Ora il canale continua fino al piccolo parco giochi vicino ai grossi, puzzolenti generatori che delimitano il complesso; i lavori non sono però terminati, e qualche instabile passerella di legno aiuta a attraversare il piccolo canale. Un bambino questa mattina ha tentato la sorte, e ha cercato di attraversare una passerella in monopattino: seguendo con lo sguardo la sua preparazione, la sua caduta in acqua (senza conseguenze) era scontata.

Uno strano punto di osservazione

Dal mio appartamento a Park View, come avrete capito, non posso vedere molto. Mi interfaccio con qualche collega con cui condivido la quarantena, e con i dipendenti dei supermercati che ci consegnano la spesa: a Erbil Deliveroo e le altre catene di rider non hanno ancora sfondato, complice probabilmente la disponibilità di lavoratori a prezzo bassissimo. Lavoratori quasi sempre né iracheni né curdi, ma spesso provenienti dal sud-est asiatico e dall’India, che sopravvivono grazie a lavori saltuari e con nessuna garanzia (i numerosissimi dipendenti della compagnia di pulizie qui a Park view, per dire, sono quasi tutti indiani). Con le restrizioni imposte per frenare la diffusione del virus, molti di questi lavoratori si sono trovati in una situazione assolutamente non prevista: perdere il lavoro. La chiusura di scuole e luoghi pubblici, così come l’assenza dell’altra faccia del lavoro internazionale a Erbil, quella dei dipendenti delle organizzazioni non governative, dei consolati e delle altre imprese private straniere, hanno fortemente ridotto la quantità di lavoratori richiesti nei servizi di pulizia, nei ristoranti e nei bar. I governi dei paesi di provenienza dei migranti economici non erano poi nella posizione economica – e forse mancavano di volontà politica – per rimpatriare questi connazionali tanto utili all’estero (per le rimesse, risicate, che riescono a inviare alle famiglie) quanto inutili in patria. L’Organizzazione mondiale per le migrazioni ha creato uno strumento di valutazione della vulnerabilità dei migranti economici, e ha attivato un piccolo fondo per aiutare quelli in maggiore difficoltà, spesso segnalati dalle loro stesse ambasciate. A Sulemania, la seconda città del Kurdistan iracheno, una rete di lavoratori indiani nei paesi del Golfo (la Telugu Gulf Employees Welfare Association) ha organizzato una rete di sostegno per i lavoratori in maggiori difficoltà.

Migrante economico a chi?

Mentre scrivevo il paragrafo precedente, cercavo un modo corretto per distinguere e accomunare i lavoratori stranieri presenti qui a Erbil. La distinzione tra “migrante economico” e “lavoratore straniero” non mi convince e non è esatta, perché anche un migrante economico è un lavoratore straniero. L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) definisce “migrante economico” una «persona che lascia il proprio paese di origine per ragioni puramente economiche che non sono in alcun modo collegate alla definizione di rifugiato, al fine di cercare di migliorare i propri mezzi di sostentamento». Le definizioni di qualsiasi scelta – o obbligo – di vita mi sono sempre antipatiche, che lasciano ben poco spazio a tutte le possibili congetture e tutti i possibili casi che possono influenzare la vita di una persona, e far sì che essa si trovi ora qui e non più lì. Non posso però sfuggire alla domanda che mi ronza in testa da un po’ di tempo, e che inavvertitamente è spuntata ora, senza che me ne accorgessi, mentre scrivevo: sarò mica anche io un migrante economico? Anche su questa domanda, e su una risposta che non riesco a darmi completamente, si basa la mia decisione di ritornare, a breve ma non brevissimo, in Italia.

Stuck in the middle with you

Yes, I’m stuck in the middle with you

And I’m wondering what it is I should do

It’s so hard to keep this smile from my face

Losing control, yeah, I’m all over the place

[Stuck in the middle with you, Steelers Wheel, 1972]

Bloccato a Erbil

A Park View, il complesso residenziale e commerciale nel quale vivo e lavoro a Erbil, la maggioranza dei ristoranti non serve alcolici. C’è solo il Jazz Bar, un posto che non ispira troppa fiducia dall’esterno, e che propone una promozione sulla birra Corona dalle 14 alle 18. La Corona non mi piace, e la promozione mi sembra più adatta a qualche spiaggia italiana che a un complesso residenziale nel Kurdistan iracheno. Però ieri ho ricevuto una buona notizia dall’Italia, non ho voglia di prendere un taxi e voglio permettermi una birra sotto casa. Mi tocca provare il Jazz Bar. Un cartello sulla porta mi informa che, in cooperazione con le autorità del Kurdistan e per prevenire la diffusione del virus, il Jazz Bar rimarrà chiuso fino a data da confermarsi. Non è l’unica misura preventiva che sta venendo attuata a Erbil: i cinema sono chiusi, così come le palestre, e addirittura la preghiera del venerdì è per il momento sospesa. Nel paese si sono registrati 35 casi fino ad ora, e nessuno a Erbil. Ma la vicinanza con l’Iran (e i dubbi riguardo la diffusione del virus nell’ingombrante vicino) fanno si che vengano prese misure alquanto draconiane, come la chiusura dei valichi di frontiera e di svariati check-point interni al paese. Il timore non è del tutto infondato: l’anno scorso l’Organizzazione Mondiale della Sanità, in collaborazione con il governo iracheno, aveva certificato l’incapacità delle strutture sanitarie del paese a far fronte a una possibile pandemia.

Bloccato a Erbil

La diffusione del corona virus in Iraq rappresenterebbe, in effetti, un rischio non da poco, in particolare per quelle decine di migliaia di persone che ancora vivono in un campo sfollati. Le misure del governo, a maggior ragione, sembrano proporzionate al rischio. Non che gli eccessi di timore non manchino: qualche giorno fa, nel campo sfollati nel quale lavoro, è stata convocata di fretta una riunione per discutere di un potenziale caso registrato in un villaggio vicino al campo. Si scoprirà solo dopo che il “potenziale caso” altro non è che una donna che qualche settimana prima era tornata dall’Iran. Al campo sfollati, in ogni caso, non posso andarci: qualche giorno fa le autorità del Kurdistan iracheno hanno chiuso i valici con il territorio dell’Iraq federale, in attesa di potersi attrezzare per controlli medico-sanitari per ogni passante. Non si sa quanto potrà durare questa preparazione, ma non sembra cosa di qualche giorno. Una formazione che avevamo programmato a Erbil con un gruppo di giovani di Ayadiyah è saltato per lo stesso motivo: sarebbe stato troppo rischioso chiamare qui una ventina di persone, senza sapere quando e se sarebbero state in grado di fare rientro a casa. Come in altri contesti, il timore del contagio sta rallentando, se non bloccando, il lavoro umanitario, aggiungendo un altro strato di incertezza a una situazione già instabile in partenza.

Bloccato a Erbil

Un amico siriano, con una moglie e una figlia appena nata in Egitto, è bloccato da qualche settimana a Erbil perché l’Egitto non gli ha rilasciato il visto, e per lui sarebbe complicato tornare in Siria. Possedere un passaporto siriano, al momento, costituisce un’enorme minaccia alla libertà di movimento. O per meglio dire: possedere un passaporto siriano blocca qualsiasi libertà di movimento. Il mio amico (ripeto: con una moglie e una figlia appena nata che non può visitare) sfoggia un certo sorriso fatalista quando gli dico che mi dispiace, e dice che può farci ben poco, che così vanno le cose.

Qualche giorno fa, una e-mail del consolato italiano a Erbil mi informava che “ai titolari di passaporto di Giappone, Corea del Sud, Singapore, Italia e Thailandia sarà consentito l’ingresso in Kurdistan a condizione che non abbiano visitato tali Paesi a partire dal 1 gennaio 2020 e che si sottopongano a normali controlli medici ai valichi di frontiera”. L’ultima volta che sono stato in Italia era il 28 dicembre 2019. Sembra però che il mio passaporto sia più importante della mia esperienza, o della mia recentissima storia: apparentemente nessun italiano viene più accettato in Iraq.

Faccio fatica, per non dire che mi vergogno, a tracciare un parallelo tra l’esperienza dell’amico siriano e la mia esperienza di italiano in Iraq. Non posso però non realizzare che questa è la mia personalissima prima volta: la prima volta che il mio passaporto mi impedisce di viaggiare liberamente. Sono un uomo fortunato.

Appunti misti da Hamdaniya

Hamdaniya, o Qaraqosh, o Bakhdida

Tre nomi per un luogo. Hamdaniya, o Qaraqosh, o Bakhdida, è una cittadina di qualche decina di migliaia di persone, appena oltre il confine – di fatto – tra Kurdistan iracheno e Iraq federale. È un posto di una tranquillità meravigliosa, tradita solo da qualche edificio crollato e da vaghi fori di proiettile, qui e la, sulle pareti delle case. Hamdaniya, o Qaraqosh, o Bakhdida, si è ripresa alquanto bene dall’occupazione dello Stato Islamico, che nella sua espansione maggiore si era spinto fin qui. In quasi tre anni di occupazione, la città si era svuotata dei suoi sessantamila abitanti, e la maggior parte delle chiese erano state vandalizzate e date alle fiamme. All’ingresso della città, provenendo da est, rimane su una piccola collina l’ingresso di un tunnel (le zone occupate dallo Stato Islamico sono ancora ricolme di questi buchi nella terra), a fianco di una chiesa che mi dicono sia stata restaurata recentemente. I tre nomi rispecchiano tre epoche diverse della città, e mi sembra di capire che gli abitanti siano venuti ai patti con questa strana multinomia: Qaraqosh è un nome di derivazione turca, frutto del dominio dell’impero Ottomano; Hamdaniyah è un nome arabo, con cui venne ri-battezzata la città solo negli anni ’70, in linea con la politica di arabizzazione dell’Iraq imposta dal regime di Saddam Hussein; Bakhdida, infine, è il nome siriaco della città, ossia il nome della città nella lingua semitica del gruppo dell’aramaico autoctona del luogo, e un tempo estremamente diffusa.

«Eloì, eloì, lemà sabactàni?»

L’invocazione di Gesù Cristo sulla croce, riportata in aramaico, ha lo stesso significato in siriaco. Bakhdida è una città cristiana caldea, e qui sorge la chiesa più grande dell’Iraq, la Chiesa dell’Immacolata – un autista, un po’ impropriamente, mi aveva informato che la Chiesa dell’Immacolata è la terza più grande del mondo; devo ancora andarci, però ne dubito fortemente. Dal tetto piatto della casa dove vivo se ne vedono altre, e non si contano le croci affisse, o scolpite, all’esterno delle case. La differenza tra una città a maggioranza musulmana e una città a maggioranza cristiana è visibile, e non solo nella presenza di croci e chiese: stupisce, al primo ingresso, vedere donne non velate, e stupisce ancora di più comprare una birra nel negozietto sotto casa. Scambio due parole con il ragazzo dietro il banco, che mi chiede se anch’io sono cristiano (in arabo il cristianesimo assume un nome eterno, مسيح يسوع ابن مريم, ossia Gesù Cristo figlio di Maria, il che mi pare un po’ ridondante), e in uno slancio ipocrita di vicinanza religiosa gli dico di si – avrei comunque fatto fatica a spiegargli la mia personale idea di cristianesimo culturale. Mi piacerebbe andare a messa la domenica, per ascoltare la liturgia (molto simile a quella cattolica) in una lingua così distante da quelle che mi è capitato di ascoltare in chiesa – avrei preferito fosse in arabo, ma pregando in siriaco si ha il vantaggio che Gesù Cristo capisce letteralmente le invocazioni.

La convivenza interreligiosa in Iraq

La mia ignoranza in tema, temo, si fonde con rimasugli della visione del mondo a compartimenti stagni – visione che l’esperienza in Iraq sta definitivamente distruggendo. Mosul, per mille e trecento anni, ha avuto una vasta comunità ebraica, che si è dissolta completamente solo nel 1955, con l’emigrazione dell’intera comunità verso Israele. La Chiesa cattolica caldea conta duecento e cinquantamila fedeli in Iraq, e in totale i cristiani, almeno prima dell’ascesa dello Stato Islamico, erano quasi un milione e mezzo. A Erbil – città non particolarmente religiosa – il quartiere più vivace è Ainkawa, al cui ingresso svetta una statua mariana e una croce. Il monastero di San Matteo, a venti chilometri da Mosul, è considerato uno dei più antichi monasteri cristiani al mondo. L’esistenza di Bakhdida, così come quella di Bartella, e altre città a maggioranza cristiana, non dovrebbe sorprendermi.

Salamiyah

Non lavoro direttamente a Hamdaniyah, ma quindici chilometri più a ovest, nel campo sfollati di Salamiyah. A Hamdaniya lavorano alcune organizzazioni umanitarie, di impostazione cristiana – Samaritans’ Purse, Hungarian International Aid, Mission East – in vari progetti legati alla ricostruzione. Salamiyah, invece, è un campo sfollati dove vivono circa quindicimila persone, in maggioranza provenienti da Mosul, da Tel Afar, da Sinjar. In maggioranza impossibilitati a ritornare. Alcuni hanno trovato rifugio qui durante la battaglia di Mosul, nel 2017, quando la città è stata bombardata duramente e assediata per costringere alla ritirata i miliziani dello Stato Islamico; altri si sono invece spostati a Salamiyah via via che gli altri campi sfollati sono stati chiusi. A causa di vari inghippi, la mia organizzazione non ha un prefabbricato da utilizzare come ufficio, e così lavoriamo principalmente in strada, tra le tende, accettando volentieri l’invito per un tè e qualche chiacchiera. Continuo a chiedermi, ogni volta che vengo accolto calorosamente in una tenda, che mi viene offerto un tè e molti sorrisi, e ben due cuscini per essere più comodo, continuo a chiedermi quale minaccia possano rappresentare queste famiglie.

Due missili

Di ritorno

Il volo AirArabia che mi riporta a Erbil non è particolarmente pieno, ma per qualche motivo hanno deciso di stipare tutti i passeggeri nelle file centrali. Davanti a me, una coppia sulla sessantina, lui sonnolento, lei vagamente agitata e con una giacca troppo blu; al mio fianco, due uomini enormi hanno sistemato a fatica i loro enormi cappotti di montone nello scompartimento superiore; dietro di me si è appisolato un uomo, di cui non vedo la faccia. La voce metallica del comandante, in un inglese fluido, informa dell’imminente atterraggio, e chiede a tutti di allacciare le cinture, riportare il sedile in posizione e richiudere il tavolino. Invece di scendere, l’areo compie un’ampia virata, invertendo la manovra, puntando nuovamente a sud. Dopo qualche minuto torna a puntare a nord, per poi nuovamente volare in circolo. La voce del comandante informa: “Gentili passeggeri, ci scusiamo per il contrattempo. L’aereo è pronto all’atterraggio, ma stiamo aspettando che termino le operazioni militari all’aeroporto di Erbil”. La signora vagamente agitata davanti a me non capisce la comunicazione di servizio, fatta solo in inglese. Per una volta sono contento di non parlare arabo, che non saprei bene come spiegare la situazione.

Che vuoi che siano due missili

L’otto gennaio, qualche giorno prima del mio rientro a Erbil, due missili terra-aria erano stati lanciati dall’esercito iraniano contro obiettivi statunitensi nel Kurdistan iracheno. Il primo missile si era schiantato, senza esplodere, in un’area disabitata a una decina di chilometri dall’aeroporto di Erbil; il secondo era stato intercettato dal sistema anti-missile statunitense prima che raggiungesse il suo obiettivo. Qualcuno dei miei colleghi sostiene di aver sentito l’impatto, durante la notte, ma solo quelli con il sonno più leggero. I lancio dei due missili faceva parte della reazione iraniana all’assassinio del generale Qassem Soleimani, morto in un attacco statunitense nei pressi dell’aeroporto di Baghdad, il tre gennaio. L’Iran ha lanciato altri missili terra-aria, che hanno colpito due basi americane in altre regioni del paese. Gli attacchi non hanno causato vittime, anche perché erano stati precedentemente comunicati al governo iracheno, che aveva rapidamente informato le basi americane. L’Ayatollah Khamenei ha dichiarato che gli attacchi missilistici sono stati “uno schiaffo in faccia agli Stati Uniti che mostra la mano di Dio”. Un tenente colonnello dell’esercito statunitense ha descritto come “miracoloso” il fatto che nessun soldato sia rimasto ucciso. Come al solito, il divino viene tirato in ballo un po’ a sproposito.

La retorica e la diplomazia

“Non avevamo intenzione di uccidere, volevamo colpire la macchina militare del nemico” (Generale di Brigata Amir Ali Hajizadeh, comandante delle forze aerospaziali delle Guardie Rivoluzionarie, 10 gennaio); “Almeno 80 terroristi americani sono morti negli attacchi missilistici lanciati dalle Guardie Rivoluzionarie” (televisione di stato iraniana, 8 gennaio). “Abbiamo agito ieri notte per fermare una guerra. Non abbiamo agito per iniziare una guerra” (Donald Trump, commentando l’uccisione di Qassem Soleimani in conferenza stampa, 4 gennaio); “Questo è un avvertimento, che se l’Iran attaccherà obiettivi americani […] SARÀ COLPITO MOLTO VELOCEMENTE E MOLTO DURAMENTE” (Donald Trump, in un tweet, 4 gennaio).

“Qualche ora dopo l’attacco statunitense contro il generale Soleimani, il governo Trump ha inviato un messaggio riservato urgente a Tehran: non peggiorate le cose. Il messaggio fax criptato è stato inviato attraverso l’Ambasciata svizzera in Iran, uno dei pochi canali di comunicazione diretta e confidenziale tra le due parti. Nei giorni seguenti, la Casa Bianca e i leader iraniani si sono scambiati altri messaggi, che vengono descritti dai diplomatici di entrambi i paesi come molto più misurati rispetto alla fiera retorica pubblicamente espressa dai politici. Una settimana più tardi, e dopo gli attacchi iraniani alle basi americane in Iraq, Washington e Tehran sembrano fare un passo indietro dal baratro della guerra aperta – almeno per ora” (The Wall Street Journal, 10 gennaio).

Una guerra che (quasi) nessuno vuole

Gli Stati Uniti hanno ammazzato il Generale Qassem Suleimani perché l’Iran sta guadagnando troppa influenza in Iraq, e questa è una chiara minaccia agli interessi americani. Non sapendo come recuperare terreno, e capendo che tanti in Iraq non si fidano più del supporto del Governo Trump, gli Stati Uniti hanno deciso di uccidere l’architetto della presenza iraniana in Iraq, colui che organizzava e gestiva la lunga mano di Tehran a Baghdad e nel resto del paese. L’Iran non poteva lasciar correre l’uccisione di Soleimani, e ha lanciato una ventina di missili terra-aria contro alcuni obiettivi statunitensi in Iraq, senza volere provocare vittime e un’ulteriore escalation. Le tensioni sono aumentate (e il minimo errore avrebbe suscitato una forte reazione), ma al momento entrambe le parti sono riuscite a salvare la faccia, e la situazione sembra stabile. Nel mezzo rimane l’Iraq, come campo di battaglia. Nell’attacco contro Soleimani è morto anche Abu Madhi al-Muhandis, vice-comandante delle forze di mobilitazione popolare Al-Hashd ash-Sha’bi e comandante della milizia Kataib Hezbollah. Le forze di mobilitazione popolare, molte delle quali finanziate dall’Iran, hanno avuto un ruolo centrale nella liberazione dell’Iraq dallo Stato Islamico e godono ancora di un certo consenso. Anche se l’Iran sta cercando di contenere la voglia di vendetta di alcune milizie irachene, il conflitto è molto più sfaccettato ai piani inferiori.

Appunti misti da Qayyarah

Il Tigri

Il fiume Tigri qui a Qayyarah è a pochi passi da dove vivo. La mattina, con una tazza di caffè in mano, salgo sul tetto piatto della casa e lo guardo passare lento. A volte la nebbia lo nasconde. A volte qualche stormo di uccelli ci vola attorno, o si posa su una secca. Sembra quasi immobile, come se non arrivasse da nord, da Mosul, e non scorresse verso sud, verso Baghdad e Bassora. Qualche centinaio di metri oltre il mio sguardo dritto, il fiume incontra un ponte spezzato: la parte centrale è rimasta intatta, un’isola rialzata scollegata dai suoi due estremi. Il ponte, collegamento essenziale tra tre provincie, è stato vittima di numerose azioni militari e terroristiche negli ultimi dieci anni: hanno iniziato i gruppi insorgenti islamisti nel 2007 con i camion bomba, e hanno completato l’opera i raid aerei nel 2014, quando Qayyarah era controllata dallo Stato Islamico. Ora non si parla di ricostruzione, che sembra non ci siano le risorse. A valle del ponte ne è stato costruito uno nuovo, temporaneo e galleggiante. Nel 2017 chiudeva alle 18 e non apriva prima della mattina inoltrata, per permettere all’esercito di controllare se non fossero state piantate mine lungo la strada. Poi per un po’ è stato chiuso perché alcuni dei gruppi armati filo-iraniani lo utilizzavano per contrabbandare petrolio dai ricchi pozzi di Qayyarah. Ora ci si passa in fila indiana, lenti come l’acqua che scorre qualche decina di centimetri sotto di noi.

Mosul, il quarto ponte

Quando attraversiamo Mosul, arrivando da Erbil, la strada più veloce passa dal quarto ponte sul Tigri. I ponti di Mosul sono cinque, e si contano a seconda del loro anno di costruzione. Il primo, il ponte vecchio, fu costruito all’inizio del secolo scorso. Sono infrastrutture vitali per una città costruita su entrambe le sponde del fiume. Tutti e cinque i ponti sono stati distrutti durante la battaglia di Mosul, nel 2016. Il quarto ponte è ora una passerella metallica a due corsie, che collega due mozziconi di ponte a tre corsie ciascuno. Le rapide manovre più o meno collaborative degli autisti per imboccare la passerella e limitare l’imbottigliamento sono tristemente coreografiche e affascinanti. Intorno alle macchine in attesa si prodigano venditori di acqua, di sigarette, di credito telefonico, di biscotti, di dolci fritti tipo churros che a volte compro. Una volta abbiamo preso una strada diversa, per evitare un check-point non particolarmente flessibile. Arrivando da nord, abbiamo attraversato il Tigri attraverso il quinto ponte, anche questo rappezzato alla meglio. Sulla sinistra, la città vecchia di Mosul si mostrava con più chiarezza, e non era che una distesa di macerie. Passato il ponte, per ricollegarci più velocemente con la strada per Tel Afar, abbiamo attraversato un quartiere completamente distrutto. Trovarmi circondato da edifici barcollanti, esplosi, con le armature del cemento penzolanti e scoperte, e solo la strada libera, mi ha dato una brevissima sensazione di assoluto sgomento.

I segni della guerra

La casa dove vivo a Qayyarah non so da chi fosse vissuta, qualche anno fa. Ho sentito delle storie a riguardo, ma non ho la minima voglia di confermarle e non vorrei mettere in imbarazzo nessuno. È una casa grande, su due piani, con spazi enormi difficilissimi da riscaldare, quando l’inverno arriva. La mappa di GoogleMaps non la mostra, ma la mappa risale addirittura al 2002 – si vedono tutti i cinque ponti di Mosul intatti, per dire. Immagino sia stata costruita una decina di anni fa, a giudicare dallo stato degli infissi. Che fosse già qui durante l’occupazione dello Stato Islamico e la battaglia del 2016 per liberare l’area, me lo dicono i segni visibili di una raffica di proiettili, sul muro esterno della casa, lato nord. Un proiettile si è fatto strada, passando una porta metallica, attraversando il secondo piano, e si è fermato sulla porta metallica di fronte, senza bucarla. Per raggiungere, ogni giorno, il campo sfollati chiamato Jeddah 5 attraversiamo i vecchi binari del treno, che fino al 2003 collegava le città (e i pozzi petroliferi) del nord alle città (e porti) del sud. I segni della guerra, qui a Qayyarah, sono meno evidenti che a Tel Afar, o Ayadiyah. Gli effetti reali, nondimeno, sono visibilissimi.

I campi sfollati attorno a Qayyarah

Jeddah 5 si chiama Jeddah 5 perché fino a qualche mese fa era circondato da altri campi sfollati: Jeddah 1, Jeddah 2, Jeddah 3, Jeddah 4, Jeddah 6, Airstrip. Ora Jeddah 5 resiste da solo con Jeddah 1; gli altri campi sono stati chiusi, o integrati. Jeddah 5 è composto da 15 settori, e ogni settore è una scacchiera rettangolare composta da 20 tessere. Ogni tessera ospita 25 tende: fanno in tutto 7500 tende. Non sono tutte occupate, e si calcola che, al momento, circa 22mila persone vivano nel campo sfollati di Jeddah 5. Il suo dismesso vicino, il campo chiamato Airstrip poiché sorgeva sulla pista di atterraggio di una vecchia base militare, ora è una distesa enorme di piattaforme di cemento per le tende, di latrine senza porta e di serbatoi per l’acqua che spuntano, con ritmo preciso, tra l’immondizia. Prima di essere chiuso, il campo sfollati chiamato Airstrip era il più grande della regione: una lunga lingua di due chilometri e mezzo di lunghezza per novecento metri di larghezza. Il campo sfollati chiamato Airstrip aveva spazio per 9820 tende. Supponendo una proporzione di tende vuote e occupanti simile a quella attuale di Jeddah 5, il campo sfollati chiamato Airstrip dava casa a circa 29mila persone.

Appunti misti / 2

Proteste, che alcuni chiamano rivoluzione (parte seconda)

Le città dell’Iraq meridionale sono ancora attraversate da grandi proteste e dalla reazione violenta del governo. Non capisco molto delle proteste, che anche qui hanno la caratteristica di non essere guidate, di rifiutare il concetto di leadership, di contestare apertamente tutti i vecchi modelli di spartizione del potere, sia esso tribale, politico, religioso. L’aspetto più interessante sembra essere la voglia di rivalsa nazionale espressa dai manifestanti a Baghdad e nelle altre città: le interferenze americane e quelle iraniane vengono ugualmente contestate, e un consolato iraniano è stato incendiato dai manifestanti. Il ruolo dell’Iran nella repressione delle proteste ha un certo peso nel comportamento del governo iracheno, sia riguardo alla gestione delle proteste che nella persistenza del governo del primo ministro Mahdi. Dopo un altro bagno di sangue – quasi 300 morti in due giorni – Madhi ha deciso di rassegnare le dimissioni. E ora non si capisce bene cosa avverrà: l’Iraq potrebbe essere pronto per nuove elezioni, ma sembra meno pronto per riforme politiche strutturali che possano soddisfare le richieste di chi manifesta.

Il pacco del governo

Detta così può sembrare un’informazione collegata a quanto scritto sopra, e in parte lo è. I cittadini iracheni hanno diritto, ogni mese, a un pacco di aiuti alimentari e di generi di prima necessità che ricevono direttamente dal governo. Il pacco è una politica ereditata dal regime di Saddam Hussein. Oggi contiene poca roba, del riso, dei legumi, olio, un buono per la benzina. Ai tempi di Saddam, mi dicono, il pacco conteneva di tutto, e in grande quantità: le persone a cui ho chiesto informazioni ricordavano soprattutto la schiuma e le lamette da barba, e le sigarette. Ogni pacco, che veniva distribuito a tutte le famiglie, indipendentemente dalla loro condizione, conteneva almeno una stecca di sigarette. Non mi stupisce che gli iracheni fumino così tanto. La distribuzione avveniva, e ancora avviene, famiglia per famiglia: ogni nuova coppia di sposi si registra per ricevere l’apposito documento. Questo processo ha anche un risvolto inatteso, legato al ritorno delle popolazioni sfollate. In molti check-point i soldati chiedono di vedere il documento e controllano che nessuno dei membri del nucleo famigliare compaia nella lista di miliziani e simpatizzanti dello Stato Islamico. Per quanto possa sembrare macchiavellica, questa scelta ha degli aspetti positivi: un fratello di un miliziano dello Stato Islamico, qualora uno dei due faccia parte di un altro nucleo famigliare, non verrà rispedito nei campi sfollati (discorso a parte per i padri, purtroppo).

Il quarto nome

La questione dei nomi – di come ci chiamiamo – mi affascina, e mi ricordo colleghe sud sudanesi ridere di me che sapevo solo il nome di mio padre, mio nonno e mio bisnonno (e solo grazie alla fortuna di avere un padre primogenito), mentre loro ricordavano perfettamente i nomi dei loro antenati fino alla quattordicesima generazione. Qui in Iraq una persona ha un nome solo, seguito nei documenti dal nome del padre e da quello del nonno. In una società tribale, organizzata per clan e sotto clan, questo permette di sapere esattamente chi è chi. C’è però un grosso problema, con risvolti drammatici: l’omonimia. Molti cittadini assolutamente innocenti sono stati incarcerati perché il loro nome era uguale a quello di un miliziano dello Stato Islamico. Alcuni di loro sono morti in carceri sovraffollate, soprattutto durante la liberazione dei territori controllati dallo Stato Islamico. L’omonimia è resa ancora più probabile da alcune tradizioni religiose in fatto di nomi: un uomo di nome Mohammad chiamerà probabilmente il suo primo figlio Qasim, così come fece il Profeta (pbsl). E va da sé che un Ali spesso chiami suo figlio Hassan. Gli agenti della sicurezza nazionale avevano quindi il loro bel da fare nel capire quale dei dieci Hassan Ali Abdullah (nome di fantasia) fosse il pericoloso ricercato. Aggiungeteci poi che tutti i miliziani dello Stato Islamico agivano a volto rigorosamente coperto, e le cose si complicano ancora di più. Per questo, in molti check-point, i soldati più gentili chiedono al malcapitato omonimo di presentare una copia del documento d’identità del padre, nel quale ci sarà scritto il suo quarto nome, quello del bisnonno.

L’obbligo del figlio

Il nome proprio e quello del padre perdono d’importanza, quantomeno nel vivere comune, nel passaggio all’età adulta. Hasan Ali Abdullah diventerà Abu Mohammad – padre di Mohammad – nel momento in cui chiamerà il suo primogenito Mohammad. La regola è quasi interamente dedicata al primo figlio maschio, anche se mi dicono che ci sono padri chiamati con il nome della prima figlia – io non ne ho conosciuti. Alcuni uomini decidono di farsi chiamare con il nome del figlio ancor prima di averlo avuto, perché già sanno come si chiamerà, e già sanno che avranno un figlio. Anche le donne lo sanno, che un figlio dovranno averlo, ma a loro non è concesso il lusso di pensare al nome in anticipo. Un figlio bisogna averlo, è d’obbligo. L’obbligo del figlio è molto più forte dell’importanza del sentimento, ampiamente opzionale. E l’obbligo del figlio è questione di famiglia, di clan, è questione di onore e di prestigio. La pressione sociale attorno all’obbligo del figlio è fortissima, e può portare un uomo innamoratissimo della propria moglie a vedersi costretto a sposarne un’altra, senza alcuna voglia, per potere rispettare il suo obbligo. Non pensiate che ci sia molto spazio per il libero arbitrio, a meno di non voler rinunciare al rispetto del padre, degli amici e della propria comunità.

Ayadiyah – l’acqua (الماء)

Ayadiyah è un paese che sembra di montagna, incastonato nella conca di un piccolo fiume, sotto un colle piatto e lungo di terra rossa e un altro piccolo promontorio sul lato opposto. Sorge quasi nascosto, come tutti gli altri villaggi abili nel mimetizzarsi con le tinte aride della stagione secca, e non ha alte costruzioni o antenne a segnalarne, da lontano, la presenza. Sulla strada da Tel Afar, quasi appare improvvisamente dietro una curva a destra, poco oltre un vecchio magazzino di attrezzi agricoli. La strada è un sali-scendi di ponti in costruzione e buche, ai cui lati sono disseminati diversi rottami di auto incendiate. Spesso, sui fianchi delle colline spoglie, si intravedono vecchi tunnel richiusi da un muro di pietre. L’indicazione stradale prima di entrare al villaggio dice: dritti per il centro, a destra per Mosul.

Il punto di incontro. Durante un’emergenza c’è sempre un punto di incontro. Ci si trova, ci si conta, ci si organizza. Ayadiyah era il punto di incontro per i miliziani dello Stato Islamico nel caso qualcosa fosse andato storto a Tel Afar. Ayadiyah era il posto tranquillo, dove vivevano molte delle famiglie, isolato rispetto a Tel Afar, snodo militare e amministrativo dello Stato Islamico.

Io faccio fatica a immaginarla, Ayadiyah, tra il giugno del 2014 e il settembre del 2017. Qualcuno mi ha raccontato di Tel Afar, di come lo Stato Islamico avesse imposto le sue regole poco alla volta alla popolazione locale, di come abbia distrutto la fortezza ottomana, di come la città fosse un importante luogo di passaggio tra Mosul e Raqqa, in Siria. Ma di Ayadiyah durante quegli anni so poco, e temo che non saprò molto mai. Chi conosco non c’era, e chi c’era non penso abbia alcuna voglia di parlarne. Ecco che io allora immagino Ayadiyah come il lato umano dei miliziani dello Stato Islamico in questo angolo di Iraq. Se a Tel Afar smerciavano le donne yazide schiavizzate, trasportavano armi, distruggevano e uccidevano tutto quanto non fosse in linea con il loro pensiero, a Ayadiyah avevano le loro famiglie, i loro bambini che correvano attorno ai cortili, le galline che razzolavano la strada polverosa. Ayadiyah era il momento di stacco, dove anche il poliziotto della hisba poteva chiudere un occhio se il vecchio incontrato per strada stava fumando una sigaretta. La immagino come il luogo sicuro, la casa, alla quale ritornare. E l’ovvio punto d’incontro se le cose si fossero messe male.

Le cose si misero male a fine agosto 2017, quando l’esercito iracheno, le milizie filo-iraniane, i peshmerga curdi, le unità di mobilitazione popolare, con l’aiuto dell’aviazione statunitense, riconquistarono prima Mosul, e poi rapidamente Tel Afar. I miliziani dello Stato Islamico rimasti ripararono a Ayadiyah, e ingaggiarono una battaglia durata dieci giorni – un tempo considerevole, per un villaggio di qualche migliaio di persone. Il tranquillo villaggio di Ayadiyah diventato l’ultima roccaforte dello Stato Islamico nella grande provincia di Niniveh. La distruzione fu pressoché totale. Chi tornò a Ayadiyah dopo la liberazione dallo Stato Islamico si trovò di fronte un paese sparito tra i colori aridi della terra attorno, perché del paese era rimasto ben poco.

Ora la vita a Ayadiyah ha ripreso il suo corso, come però rallentato, più resistente e modesto, rispetto a cinque anni fa. La compresenza di nuovi piccoli negozi incastrati tra le macerie di un primo piano barcollante, comune a tutte le città distrutte dalla guerra, dà allo stesso tempo un senso di precarietà e di fermezza. Un barbiere taglia i capelli a poco prezzo, tra una casa sventrata e una rasa al suolo. La fortezza di Ayadiyah, come quella di Tel Afar, non esiste più, ché la furia iconoclasta dello Stato Islamico si è espressa anche qui (ecco che la mia immaginaria narrazione, già di per sé fasulla, vacilla). Alcuni fori di proiettile sui muri sono stati riempiti di stucco, alcune pareti sono state ricostruite. Le macerie di qualche casa completamente distrutta sono state rimosse, mentre gli scheletri di calcestruzzo armato di molte strutture rimangono lì, pendenti. All’interno di qualche edificio – un’abitazione, una vecchia scuola – si intravedono ancora gli oggetti personali di chi ci aveva vissuto o studiato, segno che nessuno, anche per la concreta paura di mine e proiettili inesplosi, ci è mai tornato.

Ma la mia collega si è fidanzata, ed è felice, e un gruppo di giovani auto-organizzati ha ripulito e ristabilito quella che mi dicono essere la fontana del villaggio. Non avendola mai vista, chiedo di poterci andare, a mo’ di saluto all’Ayadiyah che rinasce.

Camminando una prima e forse ultima volta tra i vicoli in salita della parte vecchia del villaggio, tra le rovine delle costruzioni storiche in pietra, con le loro belle volte ormai a vista, ci si imbatte in pochi, pochissimi abitanti. Camminiamo tutti assieme, siamo una decina, e la nostra presenza quasi turistica sembra invisibile e nota a tutti. La fontana è nascosta dietro a un piccolo promontorio di case, rovine e immondizia, in una piccola conca. Un forte odore di zolfo ci accoglie nell’avvicinarci. L’inglese è lingua straniera di tutti, e la fontana non è una fontana: è una sorgente di acqua sulfurea, una volta usata come bagno termale. Il gruppo di giovani auto-organizzati ha rimesso attorno alla sorgente delle larghe piastrelle bianche e risistemato la scalinata, dando una sensazione di anfiteatro alla piccola grotta da cui nasce la sorgente. L’acqua è limpida e trasparente, vagamente turchina. Un collega riempie una bottiglia di plastica e me la regala.

Ed è difficile, difficilissimo, non pensare a un’altra sorgente, a un’altra acqua sulfurea, maleodorante e benefica, con cui mi sciacquavo la faccia qualche mese fa: Srebrenica. Srebrenica con la sua camminata salutare fino alle terme Guber e il colore rosso della roccia; Srebrenica con i suoi segni ancora evidenti della guerra, e i progetti vaghi per sfruttare nuovamente quell’acqua salutare.

Srebrenica e Ayadiyah, due esperienze così lontane e così vicine, nel segno comune di un’acqua che puzza e purifica. Me ne vado da qui con il cuore più leggero, e la sensazione di aver unito altri due punti di chissà quale disegno.