Sud Sudan, a mo’ di bilancio

San Terenzio, Liguria

Un frinire continuo di cicale, un sottofondo marittimo, poche automobili che passano sulla stretta strada di mare. Da quasi due mesi non sono in Sud Sudan, e questo rumore di cicale, il sole forte, le poche automobili, mi riportano alle mattine a Juba. Se le ascolti bene, le cicale, specie quando iniziano a cantare, la somiglianza con un piccolo generatore è evidente: il motore che sbuffa scorbutico all’avviamento e velocemente si tranquillizza nel ritmo dei quattro tempi. Non c’erano cicale a Juba, ma il suono continuo dei condizionatori d’aria, e la schiena del supermercato Phoenicia con i suoi imponenti generatori. Poche macchine anche lì, nessun mare.

Da quasi due mesi non sono in Sud Sudan, e ora provo finalmente a tornarci con la testa. Me ne sono staccato, quasi completamente; tornare a quelle sensazioni, a quegli odori, colori e luci è un esercizio complicato.

Se ora fossi in Sud Sudan, da poco sarei arrivato in ufficio. Avrei preso la strada a destra, uscito dall’hotel-casa, sarei passato da Emmanuel, a comprare qualche mandazi per colazione; avrei commentato con qualche collega (i più prendono l’altra strada, quella che passa davanti all’ambasciata statunitense) gli ultimi sviluppi dei colloqui di pace. Qualcuno sarebbe stato allegro perché già nella decima settimana di lavoro, quindi con la prospettiva comoda di una vacanza. Avremmo salutato i poliziotti della guardia diplomatica che pattugliano stabili la strada del nostro ufficio, quella che separa la residenza statunitense dall’ambasciata. Avrei chiesto chi beve un bun, il caffè locale con menta e cardamomo, e sarei passato da Mama Teresa, e Harriet avrebbe sorriso come sempre alla mia ordinazione, o forse mi avrebbe detto che oggi purtroppo no, oggi bun ma’fi, non c’è caffè.

Se ora fossi in Sud Sudan, forse sarei in missione a Ganyiel, e allora mi sarei svegliato nella mia tenda verde da safari con ancora nell’aria l’odore della tempesta notturna, maledicendo quel topo nascosto tra i due strati della tenda che anche questa notte non mi ha lasciato dormire. Avrei controllato, prima di scendere dal letto, che nessun serpente si fosse intrufolato durante la notte (ma a Ganyliel ci sono parecchi gatti, e i serpenti odiano i gatti). Sarei uscito dalla tenda e avrei sorriso al sole, ai grandi alberi davanti al compound, alle decine di falchi e avvoltoi in equilibrio sui rami. Una donna – forse una cuoca, forse una donna delle pulizie – mi avrebbe incrociato davanti alla grande sala comune, e avrei bofonchiato un jiba ka’mal, un buongiorno in lingua nuer. Lei forse si sarebbe stupita – se il saluto mi fosse uscito corretto – o forse avrebbe risposto in automatico sabah-al-nur, in arabo, pensando che io conoscessi meglio l’arabo del nuer, e in realtà non conosco entrambi. Qualche collega starebbe già mangiando chapati e bevendo chai; io non avrei resistito all’orrido gusto del Nescafé solubile, sbagliando come al solito le dosi per una tazza, rendendolo estremamente forte, di un nero petrolio.

Da quasi due mesi non sono in Sud Sudan, e penso di aver fatto la scelta giusta a interrompere il mio contratto tre mesi prima della scadenza, a dare importanza ad alcuni segnali che avevo iniziato a raccogliere e che mi consigliavano di tornare in Italia. La fatica ambientale, più che quella lavorativa, aveva iniziato a togliermi energie: il filo spinato sopra ogni muro, il cancello che si apre e si chiude, il coprifuoco, l’assenza di libertà. Quando un giorno di marzo, durante un periodo di stacco, camminando in salita sul Calisio (la mia personalissima montagna-madre che abbraccia Trento a nord-est) mi sono commosso della mia libertà, ho capito che era il caso di retrocedere a una vita più semplice (non so se più facile), meno costretta. Una delle prime cose che ho fatto, di ritorno in Trentino, è stata camminare: da Trento a Molveno, una quarantina di chilometri senza interruzioni, senza nessuno che mi chiedesse dove andavo, senza nessuno a cui chiedere permesso per camminare.

Ci sono stati momenti, durante questi sedici mesi in Sud Sudan, durante i quali mi chiedevo “che ci faccio qui?” – domanda a me cara, già titolo di una raccolta di Bruce Chatwin, e citata da Enzo G. Baldoni in Piombo e tenerezza. La risposta riuscivo spesso a trovarla, ma non sempre facilmente.

Durante gli ultimi mesi in Sud Sudan, passati quasi interamente a Juba, a causa di movimenti militari intesi in Southern Unity, la risposta giungeva alquanto velocemente: ero lì per cercare di ridurre quanto più possibile gli effetti negativi della risposta umanitaria, e ci stavo riuscendo anche abbastanza bene. Cerco di spiegarmi: in un contesto di guerra civile, fornire aiuto umanitario può avere conseguenze disastrose. Se un villaggio è stato attaccato, e le persone sono in fuga, decidere come e dove aiutarle è complicato, e deve rispettare la neutralità dell’aiuto.

Nel caso specifico il governo, supportato e supportando alcune milizie tribali (i cosiddetti armed youths), aveva attaccato e messo a ferro e fuoco varie zone controllate dall’opposizione, costringendo la popolazione civile a rifugiarsi in mezzo al Sudd, la regione paludosa formata dal fiume Nilo. L’esercito aveva continuato l’inseguimento, costringendo i civili a spingersi in luoghi in cui l’arrivo dell’aiuto umanitario era impossibile. In questa situazione, la popolazione aveva bisogno urgente di beni di prima necessità – cibo, filtri per l’acqua. Distribuirli negli stessi luoghi di provenienza avrebbe però sottoposto la popolazione al rischio di secondi attacchi (l’esercito rimaneva nelle vicinanze dei villaggi distrutti); distribuirli in altri luoghi, spesso controllati dallo stesso esercito, avrebbe costretto i civili a muoversi verso gli stessi aggressori, o costringere i civili in fuga a allungare il proprio viaggio di quasi cento chilometri, in mezzo alla palude; non distribuirli avrebbe significato condannare parte di quei civili alla morte.

La decisione non è facile, e non esiste una decisione priva di conseguenze. Non esiste una decisione migliore: bisogna scegliere il meno peggio. Il ruolo del mio gruppo di lavoro era questo: usare le informazioni in nostro possesso per analizzare la situazione e consigliare le altre organizzazioni rispetto a quale fosse la decisione meno rischiosa. Il mio lavoro, come dicevo, mi sembrava di averlo fatto bene, e la nostra analisi era completa, rigorosa. A me, come a molti altri ben più esperti di me, sembrava corretta. Molte persone si sarebbero salvate, grazie a quell’analisi. Molte altre sarebbero morte, grazie a quell’analisi.

Io non so, o so parzialmente, se le altre organizzazioni abbiano seguito quei consigli; non so, o so parzialmente, se l’analisi era corretta, che alcuni fattori presi in considerazione cambiarono velocemente. So però che con quell’analisi ho contribuito alla sopravvivenza di alcuni, e probabilmente alla morte di altri. E questo è un tarlo che mi macina in testa, perché di fronte a questo dubbio mi sento angosciato, svuotato e impotente. La domanda “che ci faccio qui?” evapora di fronte a questo dubbio. È sano, facile e necessario ricordarmi che la colpa non era mia: non sono io che ho iniziato, continuato e perpetrato la guerra – penso che questo sia un pensiero ricorrente, un’ancora di salvezza, per chiunque lavori nell’aiuto umanitario – anzi io cercavo proprio di ridurre le conseguenze della guerra. Come un cerotto su una ferita. Come un pezzettino di un cerotto su una ferita sanguinosa, virulenta. 

Ultime ore a Juba

Quando ho informato i colleghi, gli amici, della mia decisione di interrompere il mio contratto e rientrare in Italia, ci sono state reazioni differenti: alcuni mi hanno abbracciato, e mi hanno detto di essere orgogliosi di me; altri mi hanno guardato tra l’incredulo e il deluso, chiedendomi se fosse successo qualcosa. Ai primi sono riuscito a raccontare cosa (non) era successo, la fatica sempre più presente del lavoro, della condizione. Agli altri sono riuscito solo a bofonchiare qualche spiegazione di circostanza, senza riuscire a entrare nei dettagli. I primi erano principalmente colleghi internazionali; i secondi, colleghi sud sudanesi.

Le ultime ore a Juba sono cariche di dubbi: mi accorgo solo ora del lavoro fatto e di quanto altro avrei potuto fare; mi accorgo solo ora degli errori e di come potrei non ripeterli; mi accorgo solo ora di sinergie non sfruttate, che andrebbero sfruttate meglio. Il passo è più pesante di quanto aspettassi, immaginassi. Juba non mi è mai sembrata così bella, accogliente, umana. Un ultimo pranzo in un ristorante semi-deserto affacciato sul Nilo. Un abbraccio forte con Laura, che fatica a trattenere l’emozione. Una stretta di mano forte, sentita, con Both, con cui ho litigato a volte, e che mi guarda dall’alto del suo metro e novanta e mi dice che ci rivedremo. Una mano che saluta Luvy affacciata sul balcone del terzo piano, che non sappiamo bene come andrà a finire. L’autista che mi accompagna all’aeroporto non sa, o forse si è dimenticato, che parto per non tornare. Mi chiede quando tornerò, e io non riesco a rispondergli, ma penso che capisca dalla mia voce singhiozzante.

He who drinks the waters of the Nile shall return” – “Chi beve dalle acque del Nilo ritornerà”. Se mai dovessi ritornare al Nilo, però, molti di quelli che bevevano con me non saranno qui a farmi compagnia.

Contraddizioni o schizofrenie: Ristorante italiano L’Alveare

Mi è arrivata una mail insolita. È indirizzata, attraverso l’ufficio della Cooperazione Italiana a Juba, a tutti i connazionali – siamo circa 120, sparsi un po’ in tutto il Sud Sudan, tra cui un buon numero di comboniani e sorelle della carità. La mail recita (errori non miei):

Cari amici connazionali,

vogliamo portare a Vostra conoscenza della apertura del nostro Ristorante Italiano L’alveare, presso il Pyramid Continental Hotel, Stadium Road, in Juba.

Vi invitiamo a venire a provare le nostre specialità italiane che, siamo sicuri, non hanno paragone qua in Juba.

Domenica 15 Aprile p.v. organizzeremo un BRUNCH dalle 11,00 alle 16,00 e sarà una occasione per presentarVi anche la nostra ALOE VERA SPA, con Gym, Jacuzzi, Bagno Turco, Sauna e Massaggi.

Il tutto organizzato con la cordialità e spontaneità Italiana

Venite a trovarci, vi aspettiamo!

Il Pyramid Continental Hotel è il nuovissimo hotel che sorge nel centro della capitale, un mostro piramidale color oro di palme, giochi d’acqua e luci blu. Sorge a pochi passi dal Nilo. Allegato alla mail c’è anche il menù, che ovviamente mi incuriosisce. Che sia italiano non c’è dubbio, e incredibilmente non c’è nessun errore grammaticale tra le varie pietanze – c’è il mortale peccato della pizza con pomodoro e pollo (?) e gli ormai ahimè sdoganati spaghetti bolognese, ma qui non si bada al sottile. Quello che stupisce sono i prezzi, forse giustificati dal modernissimo obbrobrio architettonico nel quale è inserito il ristorante. Una pizza costa 2760 SSP, i famosi spaghetti bolognese 2990 SSP, un piatto di frutta affettata 2070 SSP.

Un lavoratore a giornata sud sudanese, quando lavora per un’organizzazione non governativa, guadagna 400 SSP al giorno se non qualificato, 530 SSP se semi-qualificato e 660 SSP se qualificato.

Contraddizioni o schizofrenie: Paul Malong

Paul Malong ha formato un nuovo movimento di opposizione al governo, il Fronte Unito del Sud Sudan. Nella dichiarazione resa pubblica, chiama a raccolta tutti i patrioti che credono in un Sud Sudan unito, non diviso dal tribalismo, un Sud Sudan dove viga lo stato di diritto, dove l’impunità non sia regola e la corruzione non sia sistemica. Paul Malong parla di come la popolazione stia soffrendo in Sud Sudan, di come i civili non riescano a procurarsi cibo, acqua, medicine, di come l’educazione sia al collasso e la sanità pubblica non esista, di come lo Stato sia sull’orlo del totale crollo finanziario. Paul Malong si scaglia contro il malgoverno del presidente Salva Kiir, contro l’enorme corruzione in tutti i ranghi, contro un’amministrazione che si accaparra i pochi fondi pubblici, contro i “gatti grassi” che continuano a mangiare sulla pelle della popolazione. Paul Malong sostiene che sia necessario costruire uno stato di istituzioni forti, non di uomini forti, perché sono le istituzioni a sostenere lo stato, non i singoli uomini. Paul Malong dichiara che il Fronte Unito del Sud Sudan farà parte dell’alleanza dei movimenti politici e militari che si oppongono al governo, dichiara che il Fronte Unito del Sud Sudan ha già sottoscritto l’accordo di cessate il fuoco, dichiara che vorrà sedersi al tavolo dei negoziati a Addis Abeba. Paul Malong si firma Comandante in Capo del Fronte/Esercito Unito Sud Sudanese – e questa è la prima volta che menziona di essere a capo di un esercito.

Paul Malong è abituato a comandare: è stato governatore dell’importante regione del Northern Bahr el Ghazal dal 2005 all’indipendenza nel 2011, per poi essere nominato da Salva Kiir (l’attuale e finora unico presidente del Sud Sudan) a capo delle forze armate sud sudanesi. Lo scorso novembre, con una mossa azzardata e pericolosa, dettata forse dal timore di un colpo di stato, Salva Kiir ha deposto Paul Malong, che prima a cercato di ribellarsi, poi è stato posto agli arresti domiciliari, poi ha invitato alcuni generali a ribellarsi, poi è riuscito a raggiungere Nairobi per farsi curare, per poi finire in Sudan e proclamare la nascita del Fronte Unito Sud Sudanese. Durante gli anni a capo dell’esercito, Paul Malong è stato responsabile di cruenti eccidi e massacri e ha comandato una temutissima unità paramilitare. Paul Malong, per capire l’importanza dell’uomo forte, veniva chiamato King Paul. Nel luglio 2016, quando Juba ripiombò nel caos della guerra civile dopo una breve tregua, le truppe sotto il controllo di King Paul hanno messo la capitale a ferro e fuoco. Paul Malong è accusato di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, commessi quando era a capo dell’esercito sud sudanese, ossia fino a 5 mesi fa.

Contraddizioni o schizofrenie: Bhor

Bhor è uno dei cinque payam (villaggi) che formano la contea di Mayendit. Lo scorso mese, con una cerimonia pubblica, le autorità locali hanno finalmente deciso e annunciato che la popolazione poteva tornare a Bhor, dopo un anno di divieto assoluto di insediamento. Bhor ospitava, fino a febbraio 2017, quasi novemila persone. Bhor, oggi, è una distesa di palme e alberi che a fatica ricrescono, di perfetti segni rotondi per terra dove una volta sorgeva un tukul, una casa locale, di pozzi d’acqua vagamente arrugginiti dopo dodici mesi di inutilizzo. Bhor non esiste più, ma ora la gente può tornare ad abitarci. Dove sorgeva la scuola, ci sono solo poche pietre che formavano le pareti; dove il centro medico, c’è l’unico muro ancora in piedi, solo quello, bruciacchiato qua e là; dove il mercato, ci sono ora i telai di qualche ipotetico tetto, segno che forse qualcuno si, qualcuno vorrebbe tornare. Bhor è stato spazzato via in una notte e qualche giorno; metodicamente, i soldati hanno bruciato e distrutto con i carri armati tutto quello che potevano distruggere, finché non è rimasto nulla. I soldati rappresentano lo stesso governo di chi ora invita la gente a ritornare, di chi chiede una mano per materiali di costruzione, di chi assicura che la gente ora ha fiducia. Alcune donne, per lo più anziane, mi confidano che loro tornerebbero subito, se ricevessero un aiuto per costruirsi un riparo da chiamare casa. Una di loro, con una ramazza di paglia, è l’unica persona che incontro mentre cammino per Bhor; sta ripulendo la terra secca, forse preparando un piccolo campo per la stagione delle piogge.

Mayendit

L’orizzonte è piatto, un’infinita distesa di terra bruciacchiata qua e là, paglia secca e qualche palma. Curiose protuberanze si ergono, ritmate, nel paesaggio, segno della pazienza laboriosa di milioni di formiche. La terra è grigia, arida, rotta in solchi profondi. Un serpente spaventato si rifugia in una delle tante crepe. Capre brucano il poco verde rimasto, rincorrendosi sui cumuli di terra. Ogni tanto, una palma più alta delle altre, addirittura un palmeto – e sembra proprio un miraggio da cartolina.

Si riconosce, laggiù sulla sinistra, l’incerto passaggio di un fiume: la monotonia del giallo tradisce una macchia verde, e grossi uccelli sconosciuti svolazzano. Più lontano, molto più lontano di quanto l’occhio immagini, un gregge di vacche pascola annoiato. La sagoma delle capanne, con quel loro tetto alto, vagamente panciuto, e quello strano pennone finale, rende l’immagine di tante pagode disperse, quasi una valle birmana di templi. Una capanna grande, due capanne piccole ai lati – al centro le vacche, ai lati le persone. La capanna grande è quasi sempre vuota: le vacche sono altrove, o spesso non ci sono più. Chiedo a una donna se i ragazzini che non vedo con lei siano con la mandria. Scrolla le spalle, sorride: quale mandria? Di vacche non ce ne sono rimaste: sono state tutte prese. Una volta, si. Una volta le famiglie sceglievano, due ragazzi una ragazza un uomo, a vivere assieme alle vacche, per le vacche, seguendo le necessità delle vacche. L’uomo seguiva la mandria, non il contrario.

Ora delle vacche non rimane che il ricordo. Ma non è un ricordo morto: l’uomo ricorda, sa quando la vacca è stata rubata, sa come riconoscerla, è sicuro che la riconoscerebbe anche ora, anche tra altre mille vacche. I nuer hanno infiniti modi per descrivere una vacca, a seconda del manto, delle chiazze sul collo, del colore della coda, delle macchie di leopardo sul ventre. Le combinazioni sono infinite, e il nome si ripete nella famiglia, che la vacca più bella merita che il suo nome sia quello della prima figlia, dopo il matrimonio. La vacca è tutto, e della vacca tutto si usa, più di una volta: lo sterco diventa difesa contro le mosche e le zanzare, una volta essiccato e bruciato; poi, quando è bianco-cenere, diventa un naturale dentifricio, che rende i denti bianchi e forti. Ora non mi stupirò più quando vedrò un bambino giocare con lo sterco, e nessuno dirgli nulla.

Rileggo la bibbia antropologica di Evans Pritchard, scritta non lontano da qui, quasi novant’anni fa: un bambino gioca ancora con la sagoma di fango di un bue, identica a quella disegnata a pagina 39. La vacca sposa, la vacca risolve i conflitti, la vacca ingrassa la famiglia, la vacca dona latte e sangue, la vacca insegna il rispetto e la necessità, la vacca è essenziale, la vacca è una misura di ricchezza e di forza; l’uomo finge di domare la vacca, ma ne è schiavo, come di qualsiasi ricchezza che necessiti cure e attenzioni.

Il conflitto, più che la modernità, sta cancellando lentamente le tradizioni: il potere si è evoluto male, non ha rispettato la bilancia naturale degli eventi, ha armato gruppi più e meglio di altri, ha permesso che l’equilibrio delle razzie – un po’ a me, un po’ a te – si rompesse. L’attacco è avvenuto a sorpresa, e tutto sembrava bruciare: raccogli i bambini, e scappa verso le isole, dove quei mostri corazzati non ti potranno seguire. Gli uomini provano una disperata protezione, poi scappano anche loro. Non c’era tempo per prendere le vacche, che docili si sono sottomesse al nuovo padrone.

Qui, ora, non ci sono quasi più vacche: molte sono state razziate, ed è difficile andarsele a riprendere, che bisogna essere ben armati per attaccare una mandria. Ma dammi una mandria lontana, e ti saprò riconoscere la mia yang en kuäc, la mia vacca dal manto maculato, la mia yang en kwe chot, tutta scura con il muso bianco e senza corna. Anche se sono passati anni ormai, la riconoscerò – anche perché devo ancora pagarci un pegno, con quella vacca. Le vacche sono presenze virtuali, ora: sono come le azioni di un qualche investitore testardo, che non diversifica il suo portafoglio. Le vacche sono presenze virtuali, ma sono ancora tutto quello che la cultura insegna, trasmette, promette. L’uomo rimane da solo, con gli altri infiniti membri di una famiglia che non si rinnova – non si rinnova senza la vacca. L’uomo segue la vacca, e senza la vacca non sa dove andare.

L’uomo va in città, studia, lavora, guadagna: non dimentica il villaggio, non dimentica la mandria, non dimentica le corse a perdifiato a inseguire i vitelli, non dimentica i salti che da bambino faceva sopra la mucca più alta, per competere con gli altri. Non dimentica, ma ne parla già come un mondo scomparso, come un rimpianto, come una speranza consunta.

Ganyiel – la parola agli ultimi

Ganyiel è un posto incantevole. Talmente bello che tanti ci vengono a vivere, per scappare dalle nefandezze della guerra, dai conflitti tra clan, dalle violenze e minacce dei soldati. Durante la missione a Ganyiel mi è capitato di incontrare molte persone, e di intervistarne qualcune. La parola a loro, che a Ganyiel sono gli ultimi: gli ultimi arrivati, e quelli che più soffrono.

“Mi chiamo Maria Nyaguat, vengo da una zona vicino a Bentiu, nello Unity. Ho lasciato il mio villaggio che ora non esiste più – molti se ne sono andati a Khartoum, alcuni hanno raggiunto la zona protetta dalle Nazioni Unite, alcuni sono andati a Fangak e altri qui in Panyijiar. Qui c’è sicurezza, e non vogliamo scappare di nuovo. Ci sono voluti sei giorni di cammino per arrivare da Bentiu a Mayendit, e allora mi sono fermata lì una settimana per riposare. Dopo sono riuscita a raggiunger la casa di mio zio qui, e sono stati altri 5 giorni di viaggio, un po’ in canoa, un po’ a piedi. Siamo arrivati in gruppo: io, la moglie di mio figlio, quattro bambini e altre due famiglie, in tutto una ventina, solo donne e bambini. Se avessimo viaggiato con gli uomini, ci avrebbero ucciso. Ma donne e bambini da soli li lasciano stare, solo qualche calcio e minacce”.

“Mi chiamo Nyabeth Makong. Ho lasciato Mayendit nel 2016 quando è la città è stata attaccata, mio marito è morto e quindi ora sono una vedova. Durante il tragitto nella canoa non ho avuto particolari problemi di sicurezza con i soldati: l’unica cosa che è successa è che mio figlio è caduto dalla barca, ed è annegato. Al momento sopravvivo raccogliendo frutti selvatici, supplicando un po’ di cibo dai vicini, e mangiando le ninfee. A volte riusciamo a pescare un pesce. Essere così vicino al fiume è bello, perché qualcosa da mangiare lo si trova sempre, ed è sicuro, non c’è la guerra”.

“Mi chiamo Angelina Nyatuat. Sono arrivata qui nel dicembre 2016, ero già cieca. La moglie di mio figlio ha camminato con me da G. a P., e poi mi ha messo in una canoa con altri ragazzini, anche loro venivano mandati in posti più sicuri. Tutto intorno al mio villaggio stavano ammazzando tantissime persone, ma la moglie di mio figlio ha deciso di rimanere e io sono venuta da sola. Ho camminato con lei da G. a P., poi ho preso una canoa fino a Mayendit e poi un’altra fino a Nyal. Prima di arrivare qui, la canoa sulla quale viaggiavo si è rovesciata e sono caduta in acqua. Tutto quello con cui viaggiavo, i miei soldi, la mia pipa, il mio tabacco, la mia coperta, il materasso e la zanzariera, tutto è caduto nel fiume, ma alcuni ragazzi mi hanno salvata tirandomi a riva. Hanno pagato loro per l’ultimo tratto di canoa, io avevo perso tutto. La famiglia del marito di mia figlia mi ha accolto bene, e ora sto con lei. Il mio unico problema è la malattia: non vado neanche al mercato perché le medicine sono troppo costose. Le cure che mi danno i medici mi confondono: io penso che me le spieghino bene, ma quando arrivo a casa ho già dimenticato tutto.”

I nomi sono di pura fantasia. Le storie, di pura realtà.

Welcome to peaceful home

Ganyliel è un posto incantevole. Circondato da una grande palude che a volte diventa un lago, a volte un fiume, a volte un intricato complesso di acque verso il grande Nilo, Ganyliel rimane placido sulla terra ferma, protetto dall’acqua e da una popolazione orgogliosa. Qui la guerra è arrivata solo due volte, l’ultima nel 2015, e entrambe le volte è stata respinta – come tendono a farmi notare diversi uomini.

I bambini giocano come i bambini dovrebbero giocare, le autorità locali riescono a dirimere i piccoli conflitti che possono nascere, un discreto numero di organizzazioni non governative cerca di prendersi cura della popolazione. C’è una clinica, una scuola capace di ospitare un migliaio di studenti, un’organizzazione che si occupa di distribuire le derrate alimentari del Programma Alimentare Mondiale, un’altra che costruisce pozzi e latrine.

Lo Stato, a Ganyliel, praticamente non esiste, e non mi sembra esistere neanche un para-Stato: l’organizzazione politica è prettamente locale, e pare in qualche modo funzionare, cercando di creare un ambiente il più possibile sicuro per le organizzazioni umanitarie. Nessuno, per esempio, è autorizzato a introdurre armi in città: vanno lasciate in un posto controllato all’inizio della grande pista d’atterraggio o al porto. In un paese dove quasi ogni uomo ha un fucile (ne vennero distribuiti a migliaia durante la guerra di liberazione contro il Sudan e nei primi anni di indipendenza, nella convinzione che ognuno dovesse proteggersi), il solo fatto di regolamentarne il trasporto aiuta a ridurre gli incidenti.

Un articolo pubblicato dalla Reuters nel dicembre scorso parlava di Ganyliel come di una piccola speranza per il Sud Sudan, un luogo dove le etnie convivono, ‘un’isola di pace’. L’articolo era abbastanza superficiale, ma riusciva a cogliere il senso di tranquillità che si respira tra le case di Ganyliel. Sembra che il conflitto – la guerra civile sud sudanese – qui non abbia un peso, e che le comunità vivano in una situazione precedente a questo conflitto (e quasi certamente destinata a perdurare anche dopo questo conflitto). I problemi maggiori nascono dalle razzie di vacche tra comunità etniche diverse (un problema atavico, e forse endemico, delle comunità di allevatori) e dalle vendette famigliari. La stagione secca aumenta la probabilità di entrambe: la riduzione del terreno da pascolo porta le mandrie a concentrarsi in alcuni luoghi, facilitando così sia la razzia (non si devono compiere grandi tragitti) che la vendetta (famiglie prima lontane si ritrovano vicine, e vecchie ruggini possono riemergere). Sorvolo in elicottero la zona a sud-est di Ganyliel e sono sorpreso da quanto terreno vergine ci sia, e mi chiedo, con tutto questa libertà di spazio, come sia possibile che le mandrie si debbano per forza trovare nello stesso luogo. Come spesso succede, riconosco di non aver ancora capito molto della situazione – per fortuna non scrivo per la Reuters.

 

 

The Greater Mundri area

Sono stato sfollato a Kediba

avevo un piccolo tukul senza pretese

davanti alle baracche del mercato.

Sono stato un’ape a Bangolo

in un alveare di corteccia

e ho punto e protetto e prodotto.

Sono stato un soldato Dinka a Lui

lontano dalla mia famiglia

lo sguardo duro e un’altra donna.

Sono stato il commissario di Kotobi

a gironzolare lontano

aspettando di raggiungere il mio ufficio.

Sono stato un ragazzo a Bari

e ti saluto sorridendo

con un lanciagranate in mano.

Sono stato il Governatore del Mid West State

e non mi sono mai abituato ai lussi di Juba

e mi sento a casa nei villaggi.

Ho mangiato le radici velenose

dopo averle lavate due giorni

e seccate al sole.

Ho sparato all’impazzata nella boscaglia

ed era la mia prima volta

e ho mollato il fucile e sono scappato.

Per mesi non ho ricevuto il mio stipendio

e con il fucile in spalla

tagliavo legna per il carbone.

Sono fuggito da Lakamadi molti anni fa

e tornando speravo di stare meglio

e non so più perché sono tornato.

Sono stufo di rischiare la vita a Mundri

“maledetti voi che ci mandate a morire!”

e sono ubriaco tornando all’accampamento.

Ho rubato sulla strada verso est,

ma mi sono scusato

che mi vergogno ad avere fame.

Ho pianto per ogni amico che mi ha lasciato,

perché non ci si abitua a perdere

e non ci si stanca di trovare.

Ovrumaro Daniele, ma mbongé.

Di stregoni, magie e cose vere

Il vecchio James. Ve lo ricordate? Un uomo sulla settantina, elegante nonostante le infradito sfondate, la camicia bucherellata e i pantaloni di qualche taglia più grandi della sua. Lo incontrai a aprile, sotto un rigoglioso mango tra tombe famigliari, galline che ruzzolavano sotto un vecchio pick-up, un suo nipotino con il culo scoperto che gli giocava tra le gambe e la sua guardia del corpo sonnecchiante qualche metro più in là. Mi aveva impressionato il suo fare distinto, la sua barba bianca, il suo parlare distaccato. Era – e probabilmente è tutt’ora – il leader di una comunità di sfollati, che avevano trovato rifugio a una ventina di chilometri da qui.

Non l’ho più rivisto, il vecchio James, ma la sua presenza mi è stata accanto spesso in questi mesi. Era un personaggio enigmatico, in grado di muoversi tranquillamente, senza timori, tra le linee del conflitto; non è da tutti. James aveva condotto la sua comunità verso un territorio controllato dal governo, dopo che il loro villaggio era stato attaccato e conquistato dalle forze dell’opposizione. Questo voltare le spalle alla nuova autorità, che vuol dire lasciare campi incolti e quindi meno cibo per tutti, viene normalmente considerato una presa di posizione, punibile con la vita. Non per lui. James può parlare con tutti, e tutti lo rispettano: quando lo incontrai eravamo in territorio governativo, eppure lui tranquillamente ci diceva che avrebbe parlato con ‘quelli là fuori’ per facilitare il nostro passaggio.

Ma c’era altro che mi incuriosiva di James: io gli davo al massimo settant’anni, forse qualcuno di meno. I miei colleghi insistevano ne avesse più di ottanta, che aveva già combattuto nella prima guerra civile sudanese con gli anyanya, quindi nel 1955, poi nella seconda nel 1972, poi a fianco dell’SPLA a partire dal 1983, nella guerra civile che portò all’indipendenza del Sud Sudan nel 2011. Quando ne chiesi conto a Idi, uno dei miei colleghi, dovetti farmi assicurare per tre volte che stessimo parlando della stessa persona. Oltre all’età, non mi era per nulla facile immaginarmi James come un soldato di lungo corso: era un uomo di una corporatura tutt’altro che imponente, dallo sguardo mite, certamente non battagliero. Eppure.

Eppure i miei colleghi, e altre persone con cui mi è capitato di parlarne durante gli ultimi mesi, mi raccontavano di lui come di uno dei guerrieri più temuti, dei comandanti più valorosi, delle autorità più rispettate. Il suo potere non sta nella forza fisica, mi dicevano, raccontando di storie di guerra nelle quali lui ordinava al suo battaglione di rimanere indietro mentre lui, da solo, ingaggiava la battaglia contro il nemico. Queste storie si colorivano di particolari diversi a seconda del narratore (alberi che cadevano al suo passaggio, nemici che battevano in ritirata al solo vederlo), ma il succo rimaneva quello: James poteva combattere una battaglia da solo, e vincerla. Per questo nessuno osa fargli del male, e lui può tranquillamente parlare con soldati governativi un giorno, e con quelli dell’opposizione il giorno dopo.

James è un personaggio raro, ma non unico. Appartiene a quella specie anche qui in via di estinzione: persone dotate di poteri speciali ai quali la gente crede. Nella mia cultura, raccolta tutta nella certezza del rapporto causa-effetto e della dimostrazione empirica, il solo credere ha poca importanza. Le storie di James, per quanto affascinanti, trattavano di un passato di difficile identificazione, perso tra tre guerre civili e situazioni abbastanza lontane da quella che vedo.

Succede però che un’avanzata militare sia incombente sulla regione, in questi giorni. Le truppe, in numero consistente, si trovano a una sessantina di chilometri da qui, in una cittadina. Per evitare defezioni e problemi di controllo, i comandanti ordinano ai soldati di spostarsi fuori dalla città, in un piccolo villaggio. I civili, spaventati dall’orda di militari non stipendiati che occuperanno il villaggio, lasciano i tukul centrali e si rifugiano nella foresta. Puntualmente, i soldati razziano quel che trovano, malmenando e forse uccidendo i pochi che hanno la sfortuna di essere rimasti nelle loro case. Tra di loro c’è un vecchio, che appoggiato al muro di fango del suo tukul suona una chitarra tradizionale. Arrivano i soldati, gli intimano di alzarsi, lo prendono a male parole, gli ordinano di consegnarli tutto quello che possiede. Il vecchio continua a suonare la chitarra, senza prestare alcuna attenzione. I militari si spazientiscono, gli tirano un calcetto, gli puntano i fucili automatici alla testa. Il vecchio, imperterrito, suona la chitarra e non risponde. Un soldato perde la pazienza, l’indice teso trema sul grilletto, la pressione aumenta fino a premerlo: l’arma fa cilecca, e il vecchio continua a suonare. Le facce dei soldati cambiano tono. Quello deluso dall’indice teso guarda il fucile contrariato, si gira, mira un albero distante e fa fuoco: il colpo parte. Il vecchio non si impressiona, e continua a suonare la chitarra. Il soldato, rinvigorito, punta di nuovo l’arma verso il vecchio: l’indice è di nuovo teso, che sparare a un albero distante o a una testa a un metro da te deve fare una certa differenza. Ma c’è l’onore da salvare, perché il vecchio ancora non implora pietà e suona la chitarra. Il dito preme il grilletto; l’arma ancora s’inceppa. Il vecchio continua a suonare la chitarra, anche mentre i soldati scappano.

Un altro gruppo di soldati entra in un compound disabitato: i civili sono già scappati. In una stanza aperta, del miele. I soldati ci tuffano le mani, si leccano le dita, ne riempiono bottiglie, avidi. Al ritorno all’accampamento, hanno tutti facce gonfie e irriconoscibili: sembra che la testa, e non solo la pelle, si sia irrimediabilmente deformata.

Un altro gruppo di soldati sta camminando sulla strada polverosa del paese, quando un vecchio gli si para davanti: gli urla addosso che non riusciranno mai a passare oltre il villaggio, che rimarranno qui a morire e marcire. “Non siete figli di questa terra!” urla, e raccoglie una manciata di polvere e sassi da terra, ne mangia una parte e l’altra parte la lancia per aria. I soldati non ridono: sono terrorizzati. Alcuni decidono di lasciare il villaggio, incuranti degli ordini ricevuti, e di tornare indietro.

Da buon europeo razionalista, mi spiego il primo episodio con la mediocre qualità delle riproduzioni cinesi dei kalashnikov spesso in dotazione alle forze governative; la seconda, con un semplice avvelenamento del miele, che le persone sanno bene quali piante toccare e quali evitare; la terza, con una buona interpretazione del vecchio, che è riuscito a essere convincente nella sua sceneggiata. Peccato che io sia un pessimo europeo razionalista, e che qui in Sud Sudan le persone credano a questi avvenimenti, a questi poteri. E non pensiate siano creduloni: ci credono perché la validità di queste credenze è confermata dalla dimostrazione empirica. Il vecchio è vivo e suona la chitarra, le teste dei soldati si erano gonfiate (e non l’hanno presa bene), per ora le truppe non sono avanzate oltre il villaggio (vi farò sapere come va a finire).

E il vecchio James, mi dicono, gode di perfetta salute. Tutt’ora però non capisco cosa se ne faccia di una guardia del corpo.