San Terenzio, Liguria
Un frinire continuo di cicale, un sottofondo marittimo, poche automobili che passano sulla stretta strada di mare. Da quasi due mesi non sono in Sud Sudan, e questo rumore di cicale, il sole forte, le poche automobili, mi riportano alle mattine a Juba. Se le ascolti bene, le cicale, specie quando iniziano a cantare, la somiglianza con un piccolo generatore è evidente: il motore che sbuffa scorbutico all’avviamento e velocemente si tranquillizza nel ritmo dei quattro tempi. Non c’erano cicale a Juba, ma il suono continuo dei condizionatori d’aria, e la schiena del supermercato Phoenicia con i suoi imponenti generatori. Poche macchine anche lì, nessun mare.
Da quasi due mesi non sono in Sud Sudan, e ora provo finalmente a tornarci con la testa. Me ne sono staccato, quasi completamente; tornare a quelle sensazioni, a quegli odori, colori e luci è un esercizio complicato.
Se ora fossi in Sud Sudan, da poco sarei arrivato in ufficio. Avrei preso la strada a destra, uscito dall’hotel-casa, sarei passato da Emmanuel, a comprare qualche mandazi per colazione; avrei commentato con qualche collega (i più prendono l’altra strada, quella che passa davanti all’ambasciata statunitense) gli ultimi sviluppi dei colloqui di pace. Qualcuno sarebbe stato allegro perché già nella decima settimana di lavoro, quindi con la prospettiva comoda di una vacanza. Avremmo salutato i poliziotti della guardia diplomatica che pattugliano stabili la strada del nostro ufficio, quella che separa la residenza statunitense dall’ambasciata. Avrei chiesto chi beve un bun, il caffè locale con menta e cardamomo, e sarei passato da Mama Teresa, e Harriet avrebbe sorriso come sempre alla mia ordinazione, o forse mi avrebbe detto che oggi purtroppo no, oggi bun ma’fi, non c’è caffè.
Se ora fossi in Sud Sudan, forse sarei in missione a Ganyiel, e allora mi sarei svegliato nella mia tenda verde da safari con ancora nell’aria l’odore della tempesta notturna, maledicendo quel topo nascosto tra i due strati della tenda che anche questa notte non mi ha lasciato dormire. Avrei controllato, prima di scendere dal letto, che nessun serpente si fosse intrufolato durante la notte (ma a Ganyliel ci sono parecchi gatti, e i serpenti odiano i gatti). Sarei uscito dalla tenda e avrei sorriso al sole, ai grandi alberi davanti al compound, alle decine di falchi e avvoltoi in equilibrio sui rami. Una donna – forse una cuoca, forse una donna delle pulizie – mi avrebbe incrociato davanti alla grande sala comune, e avrei bofonchiato un jiba ka’mal, un buongiorno in lingua nuer. Lei forse si sarebbe stupita – se il saluto mi fosse uscito corretto – o forse avrebbe risposto in automatico sabah-al-nur, in arabo, pensando che io conoscessi meglio l’arabo del nuer, e in realtà non conosco entrambi. Qualche collega starebbe già mangiando chapati e bevendo chai; io non avrei resistito all’orrido gusto del Nescafé solubile, sbagliando come al solito le dosi per una tazza, rendendolo estremamente forte, di un nero petrolio.
Da quasi due mesi non sono in Sud Sudan, e penso di aver fatto la scelta giusta a interrompere il mio contratto tre mesi prima della scadenza, a dare importanza ad alcuni segnali che avevo iniziato a raccogliere e che mi consigliavano di tornare in Italia. La fatica ambientale, più che quella lavorativa, aveva iniziato a togliermi energie: il filo spinato sopra ogni muro, il cancello che si apre e si chiude, il coprifuoco, l’assenza di libertà. Quando un giorno di marzo, durante un periodo di stacco, camminando in salita sul Calisio (la mia personalissima montagna-madre che abbraccia Trento a nord-est) mi sono commosso della mia libertà, ho capito che era il caso di retrocedere a una vita più semplice (non so se più facile), meno costretta. Una delle prime cose che ho fatto, di ritorno in Trentino, è stata camminare: da Trento a Molveno, una quarantina di chilometri senza interruzioni, senza nessuno che mi chiedesse dove andavo, senza nessuno a cui chiedere permesso per camminare.
Ci sono stati momenti, durante questi sedici mesi in Sud Sudan, durante i quali mi chiedevo “che ci faccio qui?” – domanda a me cara, già titolo di una raccolta di Bruce Chatwin, e citata da Enzo G. Baldoni in Piombo e tenerezza. La risposta riuscivo spesso a trovarla, ma non sempre facilmente.
Durante gli ultimi mesi in Sud Sudan, passati quasi interamente a Juba, a causa di movimenti militari intesi in Southern Unity, la risposta giungeva alquanto velocemente: ero lì per cercare di ridurre quanto più possibile gli effetti negativi della risposta umanitaria, e ci stavo riuscendo anche abbastanza bene. Cerco di spiegarmi: in un contesto di guerra civile, fornire aiuto umanitario può avere conseguenze disastrose. Se un villaggio è stato attaccato, e le persone sono in fuga, decidere come e dove aiutarle è complicato, e deve rispettare la neutralità dell’aiuto.
Nel caso specifico il governo, supportato e supportando alcune milizie tribali (i cosiddetti armed youths), aveva attaccato e messo a ferro e fuoco varie zone controllate dall’opposizione, costringendo la popolazione civile a rifugiarsi in mezzo al Sudd, la regione paludosa formata dal fiume Nilo. L’esercito aveva continuato l’inseguimento, costringendo i civili a spingersi in luoghi in cui l’arrivo dell’aiuto umanitario era impossibile. In questa situazione, la popolazione aveva bisogno urgente di beni di prima necessità – cibo, filtri per l’acqua. Distribuirli negli stessi luoghi di provenienza avrebbe però sottoposto la popolazione al rischio di secondi attacchi (l’esercito rimaneva nelle vicinanze dei villaggi distrutti); distribuirli in altri luoghi, spesso controllati dallo stesso esercito, avrebbe costretto i civili a muoversi verso gli stessi aggressori, o costringere i civili in fuga a allungare il proprio viaggio di quasi cento chilometri, in mezzo alla palude; non distribuirli avrebbe significato condannare parte di quei civili alla morte.
La decisione non è facile, e non esiste una decisione priva di conseguenze. Non esiste una decisione migliore: bisogna scegliere il meno peggio. Il ruolo del mio gruppo di lavoro era questo: usare le informazioni in nostro possesso per analizzare la situazione e consigliare le altre organizzazioni rispetto a quale fosse la decisione meno rischiosa. Il mio lavoro, come dicevo, mi sembrava di averlo fatto bene, e la nostra analisi era completa, rigorosa. A me, come a molti altri ben più esperti di me, sembrava corretta. Molte persone si sarebbero salvate, grazie a quell’analisi. Molte altre sarebbero morte, grazie a quell’analisi.
Io non so, o so parzialmente, se le altre organizzazioni abbiano seguito quei consigli; non so, o so parzialmente, se l’analisi era corretta, che alcuni fattori presi in considerazione cambiarono velocemente. So però che con quell’analisi ho contribuito alla sopravvivenza di alcuni, e probabilmente alla morte di altri. E questo è un tarlo che mi macina in testa, perché di fronte a questo dubbio mi sento angosciato, svuotato e impotente. La domanda “che ci faccio qui?” evapora di fronte a questo dubbio. È sano, facile e necessario ricordarmi che la colpa non era mia: non sono io che ho iniziato, continuato e perpetrato la guerra – penso che questo sia un pensiero ricorrente, un’ancora di salvezza, per chiunque lavori nell’aiuto umanitario – anzi io cercavo proprio di ridurre le conseguenze della guerra. Come un cerotto su una ferita. Come un pezzettino di un cerotto su una ferita sanguinosa, virulenta.