Tbilisi, Georgia

La discussione tra il prete ortodosso – una bella tunica nera lunghissima, una barba bianca macchiata e folta, un bel testone pelato e lucente – e un gruppo di ragazzi sembrerebbe essere interessante. Ovviamente, non capisco nulla, e mi posso godere solo quest’omaccione vestito di nero con il rosario in perenne movimento tra le mani, e i suoi stivali neri quasi militari. Penso parlino di società, di libertà, di modi di vivere – ma lo intuisco dall’unica parola che per caso capto, la versione georgiana dell’aggettivo “omosessuale”. Ma poteva tranquillamente trattarsi di altro.

Mi sembra di capire qualcosa di più quando una donna di mezza età viene incontro, con passo traballante, alla panchina dove sono seduto. Potrebbe avere tra i 40 e i 60 anni, e mi bofonchia qualcosa nel suo essere completamente ubriaca; io non provo nemmeno a dirle che non capisco cosa stia dicendo. Mi sorride, per quanto le permettano i suoi pochi denti, mi prende le mani, mi accarezza la testa. La prendo come una benedizione in queste prime ore a Tbilisi.

La città ha fascino, certamente. Ha fascino il centro storico, con il suo mescolarsi di rinnovato e decadente, per quanto fascino possano avere vecchie case diroccate di cui si intravede la passata bellezza, e di fronte alle quali turisti curiosi si scattano fotografie. Curiosi, perché per camminare queste stradine di seconda mano in salita almeno un po’ di curiosità ci vuole; mi chiedo quanto resisteranno ancora queste case cadenti, i balconi di legno ricamati, le finestre che a stento mantengono l’originale perpendicolarità, le crepe sui muri. L’architettura tradizionale georgiana occupa molto spazio per una città in crescita, e i cortili interni sono luoghi bellissimi, caotici e economicamente inutili: la gente ci stende la biancheria, gli onnipresenti gatti ci fanno casa, vecchie auto ci trovano un improvvisato cimitero. I cortili serviranno sempre meno, sulle strade secondarie del centro città battute dai turisti curiosi.

Il resto dei turisti meno curiosi, un numero sempre più consistente, frequentano le strade restaurate stracolme di ristoranti di dubbio gusto estetico, hotel a ogni porta, procacciatori di gite in barca, di gite in autobus, di gite in funivia a ogni angolo. Qualche enorme casinò rovina la vista del fiume Kura e del saliscendi collinare sul quale poggia Tbilisi. Sia chiaro: è tutto fuorché brutto. Ma è il lato nuovo, bonificato, di una città in grande fermento.

Davanti al grande centro commerciale che si affaccia sulla Freedom Square, e per buona parte dell’eterno viale Shato Rustaveli, c’è un denso via vai di persone, tra bancarelle di libri, hippies che vendono artigianato dal dubbio valore, musicisti o futuri tali che cercano di tirare su qualche Lari. Passo davanti a un ragazzo mentre attacca due accordi secchi, riconoscibilissimi: The wind of change, degli Scorpions. Non l’ascoltavo da anni, e non mi era mai capitato di sentirla suonare per strada da un ragazzo poco più che ventenne. L’ho trovata vagamente paradigmatica di questo paese in continuo e rapido cambiamento.

Il vento del cambiamento – o quantomeno la versione politica cantata dagli Scorpions – è soffiato forte in Georgia nel 2003, con la Rivoluzione delle Rose capeggiata da Saakashvili, presidente della Georgia dal 2004 al 2013. Mikhail Saakashvili è un personaggio controverso, romanzesco, e in queste giornate a Tbilisi non ho capito se venga odiato, rimpianto o semplicemente dimenticato. Dopo essere stato eletto – forse meglio proclamato, con il 96% dei voti – nel 2004, Saakashvili iniziò un’operazione tutt’altro che semplice: modernizzare la Georgia, eliminare la corruzione e l’insicurezza che regnavano nel paese, per avvicinarlo all’Occidente, Europa e Stati Uniti. Nel 2004 era il più giovane presidente al mondo: George W. Bush lo portava sul palmo della mano, qualcuno diceva che sarebbe stato ricordato come il Nelson Mandela del ventesimo secolo, l’Unione Europea ammirava benevola e le organizzazioni per i diritti umani, seppur con qualche distinzione, registravano con sorpresa il crollo delle pratiche corruttive, dei crimini violenti e dell’insicurezza.

Ma è chiaro che la politica, specie quella di radicale cambiamento e quella che pretende risultati immediati, non può avvenire senza compromessi forti. Per Sakaashvili il compromesso fondamentale riguardava i metodi di governo: il fine giustificava molti, troppi mezzi. Mezzi pubblici, come l’aumento esponenziale della popolazione carceraria, un paranoico giustizialismo e un controllo ossessivo e capillare del territorio, la mano libera a pratiche di tortura. Mezzi personali e privati, che nel suo caso – almeno così si dice – si traducevano nell’abuso di cocaina. Nel 2008 vinse nuovamente le elezioni, ma del Mandela del ventesimo secolo rimaneva ormai poco o nulla, il consenso popolare e quello internazionale scricchiolavano e poi, fatto non da poco, c’era una guerra che bussava alla porta, letteralmente, di Tbilisi. L’odiato orso russo (difficile però dire quanto, o da quando) tornava a riprendersi angoli di territorio che riteneva suoi.

Saakashvili resistette qualche anno, poi, accettando la sconfitta alle elezioni parlamentari del 2012, abbandonò il paese. Non lo fece proprio di sua spontanea volontà: in Georgia venne accusato di diversi crimini, tra cui l’abuso di potere, che lui sosteneva motivati politicamente. Si rifugiò in Ucraina e sostenne il movimento Euromaidan nel 2014, facendo attivamente politica e non nascondendo il suo obiettivo di ripetere lì le riforme fatte in Georgia. Ricevette pure la cittadinanza ucraina, il che lo privava di quella georgiana, e diventò governatore della regione dell’Odessa. Non fece i conti con un piccolo problema: un conto è riformare (con epurazioni e controlli, ma anche con l’aumento degli stipendi dei dipendenti pubblici) un paese di tre milioni di abitanti, un altro è affrontare la realtà di un paese di ben altre dimensioni.

L’esperimento ucraino fallì di lì a poco, e Sakaashvili si rifugiò prima negli Stati Uniti, poi in Olanda, poi forse in Polonia e ora bene non si sa. Di certo gli è stata tolta anche la cittadinanza ucraina e ora, a poco più di cinquant’anni, è un apolide ex-molte cose.

È davvero complicato capire cosa i georgiani pensino di Sakaashvili: molti cercano di evidenziare che aveva ottimi collaboratori, ma che lui non era un granché. C’è chi mi dice che, più semplicemente, si era bevuto il cervello, anche a causa delle droghe. Però nessuno rimpiange le riforme fatte in quel periodo: l’amministrazione è stata profondamente riformata, l’apparato di polizia sanificato (oggi la sede centrale della polizia, un enorme, futuristico palazzone all’ingresso della città, è quasi completamente costruita in vetro, e gli agenti hanno numeri identificativi sulle loro divise), la burocrazia drasticamente ridotta, il che ha permesso di attirare capitali stranieri e nuovi investimenti.

Questo aspetto sembra preoccupare qualche georgiano: i capitali stranieri che arrivano hanno spesso il volto olivastro di qualche emiro del Golfo, di ricchi iraniani o il passo pesante di qualche oligarca russo. Ossia, di coloro che storicamente hanno spaventato, occupato, dominato la Georgia. I georgiani sono persone di un orgoglio profondo verso la loro terra e la loro cultura: non ho parlato con nessuno che non la consideri la più bella del mondo, o che non ne decanti le tradizioni. Hanno una lingua molto particolare, un alfabeto cuneiforme unico nelle regioni caucasiche, una tradizione culinaria e specialmente enologica antichissima. L’idea che qualche altro possa conquistarla, sia manu militari che manu pecuniae, con i soldi, li infastidisce parecchio. Se poi “l’altro” è, poniamo, degli Emirati Arabi e non, poniamo, americano o europeo, la cosa li infastidisce ancora di più.

Cammino (come sempre cammino molto quando non so dove andare) in un quartiere residenziale vicino alla stazione. Stavo cercandone un altro, di quartiere, ma non capisco come non riesco a trovarlo, ed è il secondo giorno di fila che vado in esplorazione. Il casualissimo e forse poco attendibile articolo trovato su internet mi parlava di un quartiere vibrante, ricco di ristoranti e posticini carini: quello dove sto camminando, e che avevo intuito dovesse essere lo stesso grazie a Google Maps, non ha nulla di tutto ciò.

È un quartiere residenziale, difficile dire se vecchio o nuovo, perché le case sembrano in perenne costruzione, o in perenne instabilità. Ci sono solo loro, qualche bottega di quelle con la frutta e la verdura esposte in strada, qualche piccolissimo bar rinchiuso in una baracchetta di legno. Sono in un posto abbastanza centrale della città, ma mi sembra di essere in un villaggio di montagna dai ritmi lenti, le strade strette e in salita, i melograni davanti a casa, i grassi grappoli di uva a maturare ancora appesi sui balconi, i cani e i gatti pigri, solo qualche vecchio che ansima sulle strade ripide. Mi perdo (come sempre mi perdo molto quando cammino) seguendo però un obiettivo preciso: perdersi abbastanza da non sapere dove si è, ma non troppo da non sapere più come ritrovarsi.

Penso di iniziare a capire cosa attragga così tanti turisti tedeschi verso questa città: non sono solo i club di musica elettronica che fanno invidia a Berlino – tra tutti il Bassiani, una specie di Berghain georgiano –, sono le contraddizioni che si vedono (calmo/frenetico, rurale/cittadino, nazionale/internazionale, tradizionale/moderno), le situazioni che si respirano, il Wind of change che soffia ma non impetuoso. Tbilisi è poor but sexy, povera ma attraente, il motto che era stato coniato per Berlino più di dieci anni fa.

Una cosa mi stupisce particolarmente: Tbilisi è la città nella quale, quantomeno nel quartiere governativo e turistico, ho visto più bandiere dell’Unione Europea sventolare affianco alla bandiera nazionale. Per ogni bandiera bianca con le croci rosse ce n’è una blu con le stelle in cerchio, davanti agli uffici pubblici, davanti al tribunale, davanti alle biblioteche. Sembra che la Georgia faccia parte dell’Unione Europea, o quantomeno ne stia per diventare stato membro a breve (in realtà, fa solo parte della politica di vicinato, senza avere prospettive di membership). La prospettiva europea però non manca, e un amico a cui chiedo il perché mi guarda stupito, e dice che siamo solo noi europei a non capire l’importanza dell’Unione – io non ho molta voglia di iniziare una complicata discussione sullo stato dell’Unione, e mi accontento di compiacermi che l’ideale europeo sia ancora vivo, da qualche parte.

La Madre della Georgia, l’enorme monumento che campeggia sulla collina nobile di Tbilisi, guarda austera la città, con una coppa di acqua in una mano e la spada nell’altra, a indicare che gli amici troveranno accoglienza e ristoro, e i nemici resistenza e ribellione. Resta da capire, come sempre, che faccia avranno i prossimi amici.