Vie che ho voluto percorrere

Quindici anni fa, non troppo lontano da qui, moriva una persona che avrebbe avuto un ruolo importante nel fatto che io mi trovi qui, ora, e stia scrivendo. Non ero a conoscenza, allora, di questa sua importanza – né certamente lo era lui – e faccio fatica a ricordare il momento in cui seppi della sua morte. Pochi, ma non pochissimi tra voi lo ricorderanno. Aveva 56 anni, e nella vita aveva fatto un po’ di tutto: il manovale, l’insegnate, il traduttore, il pubblicista, il giornalista, il reporter.

Si chiamava Enzo G. Baldoni, e il 26 agosto del 2004 fu ucciso da un gruppo di insorgenti islamici legato a Al-Qaeda. Baldoni stava portando aiuti umanitari con un convoglio della Croce Rossa alla popolazione di Falluja, una città a ovest di Baghdad, che in quel momento era stretta da un assedio militare. A quanto pare, la macchina sulla quale viaggiava (la prima del convoglio) saltò su una mina: Baldoni e Ghareeb, l’autista con cui viaggiava, furono rapiti – Ghareeb fu ucciso probabilmente subito, Baldoni dopo circa cinque giorni. I rapitori pretendevano il ritiro delle truppe italiane, complici dell’invasione dell’Iraq, come condizione per il rilascio – una richiesta rifiutata dal governo italiano. In quei cinque giorni ci furono vari appelli per la liberazione e due vergognosi articoli apparsi su “Libero” e “Il Giornale” (a firma, rispettivamente, di Vittorio Feltri e Renato Farina), nei quali si tacciava Baldoni di essere un turista della guerra, un simpatizzante dei suoi stessi rapitori e di altre idiozie. Il 26 agosto arrivò la notizia della morte di Enzo G. Baldoni, non prima di qualche insensato tentativo di depistaggio da parte dei vertici della Croce Rossa italiana (con a capo Maurizio Scelli). Le sue spoglie furono ritrovate solo nel 2010 dopo una ricerca complicata, e quindi riportate in Italia. Tutt’ora si sa poco o nulla di chi furono i suoi assassini e di come andarono realmente le cose durante i cinque giorni del sequestro.

Che c’entra Enzo G. Baldoni con questa mail, e perché la sua storia è così importante?

Il fatto che la morte l’abbia trovato in Iraq è solo una coincidenza, e la sua importanza non cambierebbe se lui fosse vivo, se io mi trovassi io altrove, o se lui fosse morto in qualche altro paese. Baldoni, già a partire dalla fine degli anni novanta, aveva creato e animava varie mailing list e blog, tra il reale e il virtuale, dove scriveva e raccontava, tra le varie cose, di quello che gli capitava nei suoi viaggi. Baldoni viaggiava molto, spesso in contesti di conflitto armato, e con una motivazione che faccio fatica a descrivere. Non era lavoro, non era piacere, non era spregiudicatezza e non era ricerca del limite. Era, penso, in ordine sparso: un istinto, una constatazione che le cose si capiscono meglio da vicino, un’irrefrenabile curiosità, una certa irrequietezza, la convinzione che le gambe sono fatte per andare, gli occhi per vedere, le orecchie per ascoltare, le narici per annusare, le mani per toccare, la pancia per percepire meglio. (Mi sembra, nel scriverne, di non riuscire a descrivere bene questa motivazione, ma di capirla perfettamente).

Enzo G. Baldoni, nel 2001, si trovava in Colombia, nella regione meridionale del paese, con il sogno di incontrare Tirofijo, il leggendario comandante delle FARC. Qualche anno dopo, se non sbaglio dopo la sua morte, il settimanale “Diario” pubblicò il resoconto di quel viaggio, mettendo assieme i post scritti da Baldoni per il suo blog-comunità. Il libro entrò a casa attraverso mio padre, e non sono sicuro lui l’avesse letto quando me ne impossessai. “Piombo e tenerezza” era un racconto direttissimo, non mediato, di qualcosa che sapevo avrei voluto vivere. Ma leggo parecchi racconti diretti di cose che vorrei vivere, e non tutti mi rimangono così impressi. “Piombo e tenerezza” mi parlava però di qualcosa che avrei voluto vivere e che sapevo avrei, in qualche modo mio, vissuto: andarmene in giro per qualche strano posto del mondo, qualsiasi sia la motivazione, e scrivere di tanto in tanto quello che vedo, sento, provo a un gruppo di amici e amiche, senza la preoccupazione dello scrivere per lavorare e del lavorare per scrivere (due tentazioni ugualmente pericolose in un contesto di conflitto).

Alla fine del mio periodo di volontariato in Colombia, tornato dalla Comunidad de Paz de San José de Apartadò, mi fermai cinque giorni a Bogotà, gironzolando senza grossi punti di riferimento per la capitale colombiana sulle tracce del passaggio di Baldoni, dodici anni prima. Di quel gironzolare ho anche un resoconto – e fu un’esperienza tutt’altro che fallimentare, anche se poco supportata dal mio scarso coraggio e dalla poca preparazione. Fui però abbastanza avventato da scrivere alla moglie di Baldoni, Giusi, per chiederle qualche dritta, e da andare poi a trovarla senza minimamente annunciarmi a Milano, nella bellissima sede de Le balene colpiscono ancora, l’agenzia pubblicitaria fondata da Baldoni. Quel resoconto lo inviai solo a lei, forse per poca intraprendenza. Fu però il primo scritto a cui mi dedicavo senza pensare a chi l’avrebbe letto. La cosa mi piacque – non so o non ricordo se il resoconto piacque a lei – e mi ripromisi di ripetere quell’esperienza, qualora ne avessi avuto la possibilità. Il Sud Sudan era l’opportunità perfetta, l’Iraq l’ovvia prosecuzione (e le tappe intermedie, ottimi intermezzi).

Se vi scrivo oggi, e se questo blog mi accompagna in maniera intermittente da più di due anni, un po’ di gratitudine la devo quindi a chi mi ha indicato una via che ho voluto percorrere. Grazie, Enzo G. Baldoni.