Appunti misti da Hamdaniya

Hamdaniya, o Qaraqosh, o Bakhdida

Tre nomi per un luogo. Hamdaniya, o Qaraqosh, o Bakhdida, è una cittadina di qualche decina di migliaia di persone, appena oltre il confine – di fatto – tra Kurdistan iracheno e Iraq federale. È un posto di una tranquillità meravigliosa, tradita solo da qualche edificio crollato e da vaghi fori di proiettile, qui e la, sulle pareti delle case. Hamdaniya, o Qaraqosh, o Bakhdida, si è ripresa alquanto bene dall’occupazione dello Stato Islamico, che nella sua espansione maggiore si era spinto fin qui. In quasi tre anni di occupazione, la città si era svuotata dei suoi sessantamila abitanti, e la maggior parte delle chiese erano state vandalizzate e date alle fiamme. All’ingresso della città, provenendo da est, rimane su una piccola collina l’ingresso di un tunnel (le zone occupate dallo Stato Islamico sono ancora ricolme di questi buchi nella terra), a fianco di una chiesa che mi dicono sia stata restaurata recentemente. I tre nomi rispecchiano tre epoche diverse della città, e mi sembra di capire che gli abitanti siano venuti ai patti con questa strana multinomia: Qaraqosh è un nome di derivazione turca, frutto del dominio dell’impero Ottomano; Hamdaniyah è un nome arabo, con cui venne ri-battezzata la città solo negli anni ’70, in linea con la politica di arabizzazione dell’Iraq imposta dal regime di Saddam Hussein; Bakhdida, infine, è il nome siriaco della città, ossia il nome della città nella lingua semitica del gruppo dell’aramaico autoctona del luogo, e un tempo estremamente diffusa.

«Eloì, eloì, lemà sabactàni?»

L’invocazione di Gesù Cristo sulla croce, riportata in aramaico, ha lo stesso significato in siriaco. Bakhdida è una città cristiana caldea, e qui sorge la chiesa più grande dell’Iraq, la Chiesa dell’Immacolata – un autista, un po’ impropriamente, mi aveva informato che la Chiesa dell’Immacolata è la terza più grande del mondo; devo ancora andarci, però ne dubito fortemente. Dal tetto piatto della casa dove vivo se ne vedono altre, e non si contano le croci affisse, o scolpite, all’esterno delle case. La differenza tra una città a maggioranza musulmana e una città a maggioranza cristiana è visibile, e non solo nella presenza di croci e chiese: stupisce, al primo ingresso, vedere donne non velate, e stupisce ancora di più comprare una birra nel negozietto sotto casa. Scambio due parole con il ragazzo dietro il banco, che mi chiede se anch’io sono cristiano (in arabo il cristianesimo assume un nome eterno, مسيح يسوع ابن مريم, ossia Gesù Cristo figlio di Maria, il che mi pare un po’ ridondante), e in uno slancio ipocrita di vicinanza religiosa gli dico di si – avrei comunque fatto fatica a spiegargli la mia personale idea di cristianesimo culturale. Mi piacerebbe andare a messa la domenica, per ascoltare la liturgia (molto simile a quella cattolica) in una lingua così distante da quelle che mi è capitato di ascoltare in chiesa – avrei preferito fosse in arabo, ma pregando in siriaco si ha il vantaggio che Gesù Cristo capisce letteralmente le invocazioni.

La convivenza interreligiosa in Iraq

La mia ignoranza in tema, temo, si fonde con rimasugli della visione del mondo a compartimenti stagni – visione che l’esperienza in Iraq sta definitivamente distruggendo. Mosul, per mille e trecento anni, ha avuto una vasta comunità ebraica, che si è dissolta completamente solo nel 1955, con l’emigrazione dell’intera comunità verso Israele. La Chiesa cattolica caldea conta duecento e cinquantamila fedeli in Iraq, e in totale i cristiani, almeno prima dell’ascesa dello Stato Islamico, erano quasi un milione e mezzo. A Erbil – città non particolarmente religiosa – il quartiere più vivace è Ainkawa, al cui ingresso svetta una statua mariana e una croce. Il monastero di San Matteo, a venti chilometri da Mosul, è considerato uno dei più antichi monasteri cristiani al mondo. L’esistenza di Bakhdida, così come quella di Bartella, e altre città a maggioranza cristiana, non dovrebbe sorprendermi.

Salamiyah

Non lavoro direttamente a Hamdaniyah, ma quindici chilometri più a ovest, nel campo sfollati di Salamiyah. A Hamdaniya lavorano alcune organizzazioni umanitarie, di impostazione cristiana – Samaritans’ Purse, Hungarian International Aid, Mission East – in vari progetti legati alla ricostruzione. Salamiyah, invece, è un campo sfollati dove vivono circa quindicimila persone, in maggioranza provenienti da Mosul, da Tel Afar, da Sinjar. In maggioranza impossibilitati a ritornare. Alcuni hanno trovato rifugio qui durante la battaglia di Mosul, nel 2017, quando la città è stata bombardata duramente e assediata per costringere alla ritirata i miliziani dello Stato Islamico; altri si sono invece spostati a Salamiyah via via che gli altri campi sfollati sono stati chiusi. A causa di vari inghippi, la mia organizzazione non ha un prefabbricato da utilizzare come ufficio, e così lavoriamo principalmente in strada, tra le tende, accettando volentieri l’invito per un tè e qualche chiacchiera. Continuo a chiedermi, ogni volta che vengo accolto calorosamente in una tenda, che mi viene offerto un tè e molti sorrisi, e ben due cuscini per essere più comodo, continuo a chiedermi quale minaccia possano rappresentare queste famiglie.