There will be blood*

Tutto il petrolio che vuoi, e basta

La situazione economica dell’Iraq è facile da spiegare: il 94,7% del fatturato dello Stato deriva dalla vendita del petrolio. Se il prezzo del petrolio cala, o crolla, così cala, o crolla, l’economia dell’Iraq. Il prezzo medio di un barile di petrolio prodotto dai paesi membri dell’OPEC (l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, di cui l’Iraq è membro) nel 2019 era di 64 dollari al barile. Per il 2020, l’OPEC stima che il prezzo medio dello stesso barile sia stato di 40 dollari al barile. Il 27 aprile, nel mezzo della prima crisi pandemica, il prezzo di un barile a Bassora, nel sud dell’Iraq, era di 23 dollari e 78 centesimi. In media, nel 2019, l’Iraq ha prodotto 4,6 milioni di barili al giorno: circa un miliardo e settecentomila barili all’anno. Di questi, circa 4 milioni al giorno sono stati esportati. Nel 2020, anche a causa di un accordo tra i paesi appartenenti all’OPEC mirato a diminuire la produzione a causa della crisi economica, ne sta producendo in media “solo” 4 milioni al giorno (i barili prodotti a fine anno saranno circa un miliardo e quattrocentocinquantamila). Ah, un barile sono 160 litri. Secondo i dati del MEES (una newsletter che dal 1957 si occupa di statistica nel Medio Oriente, con particolare attenzione al settore petrolifero), nel 2019 l’Iraq ha guadagnato circa 88 miliardi di dollari dall’esportazione di petrolio. A settembre, il governo iracheno ha presentato al Parlamento il budget 2020 (no, non è un errore: il budget per il 2020 è stato presentato a anno quasi finito): l’aspettativa di guadagno dall’esportazione di petrolio è di circa 53 miliardi di dollari.

Il posto fisso

A giugno, il primo ministro iracheno Mustafa al-Khadimi aveva fortemente criticato i governi precedenti per non aver diversificato l’economia. “Dire che abbiamo un’economia forte è una bugia, perché non abbiamo nessuna economia. Abbiamo una situazione finanziaria che dipende dal petrolio, non abbiamo un’economia reale”. E una parte considerevole della popolazione irachena dipende dallo Stato, quindi dal petrolio. L’Iraq, con una popolazione di circa 40 milioni di abitanti, conta 4,5 milioni di impiegati pubblici (1 ogni 8,9 abitanti). Per fare un paragone: l’Italia nel 2017 contava circa 3,5 milioni di impiegati pubblici, per una popolazione di 60,5 milioni di abitanti (1 ogni 17,2 abitanti). Il costo degli stipendi, sommato al costo delle pensioni, vale il 122% delle entrate derivanti dalla vendita di petrolio. Tra il 2004 e il 2020 questo costo è aumentato del 400%. Una situazione difficilmente sostenibile. Eppure l’ambizione del posto fisso, nel settore pubblico, è ancora molto forte tra la popolazione, che lo considera una sicurezza economica (per quanto spesso malpagata). L’ambizione è direttamente collegata alle accuse di nepotismo e corruzione, con il continuo riferimento all’importanza della cosiddetta “vitamina V”, la vuasta, la raccomandazione necessaria per essere assunti.

Le proteste nel Kurdistan iracheno

Le proteste che, a partire dall’ottobre dell’anno scorso, hanno caratterizzato l’Iraq, erano per lo più limitate alle città del sud del paese, compresa la capitale Baghdad. Nelle ultime settimane, molte persone sono scese in piazza anche a Sulaymaniyya, la seconda città del Kurdistan iracheno. Otto persone sono rimaste uccise dalla repressione delle forze armate (curde), e vari mezzi di informazione, incluso il gruppo Rudaw (il più importante media group del Kurdistan iracheno), sono stati minacciati con multe e sanzioni da parte del governo curdo, per aver mostrato le immagini della protesta. I manifestanti hanno incendiato diverse sedi di partiti locali, inclusi dei due grandi partiti curdi PDK e UPK, e altri edifici governativi. Per cosa protestavano? Per il ritardo dei pagamenti degli stipendi pubblici, che non arrivano da quasi sei mesi. Il governo iracheno e quello della regione curda stanno trattando senza sosta per trovare un accordo, ma la situazione è complicata e i soldi scarseggiano. Inoltre il governo di Baghdad accusa il governo del Kurdistan iracheno di non rispettare le quote di estrazione del petrolio (ci risiamo) imposte dalla decisione dell’OPEC di ridurre la produzione. Il Kurdistan iracheno, che aveva cercato invano di rendersi indipendente con il referendum del 2017 e la rivendicazione territoriale su Kirkuk e i suoi ricchi pozzi petroliferi, ora dipende economicamente da Baghdad.

Quindi?

Il governo iracheno sta tentando in tutti i modi di invertire la rotta economica (o meglio, di crearne una) per districarsi da questa situazione. Si trova però in una posizione per nulla facile: la decisione dell’OPEC di tagliare la produzione di petrolio per attutire le conseguenze della crisi economica costringe l’Iraq a estrarre molto meno di quanto potrebbe, e le limitazioni dovrebbero durare fino al 2022. Con un’economia così dipendente da quell’unica fonte, ridurre le estrazioni equivale a ridurre i soldi in circolo, quindi a tagliare la spesa. Intervenire con una radicale riforma del settore pubblico, come sembra voler procedere il governo, potrebbe causare nuove enormi proteste nel paese, coinvolgendo vari settori della popolazione. L’instabilità politica ritarderebbe l’approvazione di riforme, che a loro volta ritarderebbero la creazione di un’economia più diversificata. Un cambio di regime drastico avrebbe un impatto anche sugli sforzi militari del paese nelle zone che ancora vedono una presenza di miliziani dello Stato Islamico. Quindi nulla: a marzo arriva il Papa, inshallah.

*titolo originale del film “Il petroliere”, e mi sembrava azzeccato