L’importanza dei ritorni (e delle ripartenze)

Jabal al-Weibdeh, Amman

Sono un grande salutatore di animali, l’ho scoperto qualche anno fa. Ogni volta che vedo un qualsiasi animale, soprattutto mammiferi più o meno domestici, non resisto alla tentazione di salutarli. Ultimamente sto espandendo i miei orizzonti del saluto a uccelli, insetti, ragni; ma gli animali che saluto più volentieri, se si escludono le capre, sono sicuramente i gatti. Jabal al-Weibdeh, il quartiere di Amman abbarbicato sopra il centro antico della città, sopra i resti del tempio di Ercole e del teatro romano, mette a dura prova la mia capacità di salutarli tutti, i gatti, senza dare troppo nell’occhio. Nel suo saliscendi continuo di strade, scalinate sgarrupate, cortili interni semi abbandonati, case diroccate e case dall’equilibrio precario, sacchetti di immondizia qui e là, avvallamenti e buche pieni di erbacce e fiori e bottigliette di plastica, pezzi di muro e materiale da costruzione antico e moderno; in tutta questa meraviglia, e stando attento a rispondere al saluto del vecchio che mi sorride senza perdermi i murales su molte facciate, salutare ogni gatto diventa un’impresa complicata, da affrontare a ritmo lentissimo. Ma tutta questa confusa meraviglia, lontana dalla Amman caotica e trafficatissima dei quartieri più in basso, invita a rallentare il passo.

L’importanza delle ripartenze (e dei ritorni)

Penso che nulla sia cambiato nell’Amman in cui avevo, seppur brevemente, vissuto due anni fa, prima di partire per l’Afghanistan. I posti in cui andavo allora ci sono ancora adesso, gli scorci che avevo già fotografato li fotografo nuovamente ora. Molto mi sembra diverso: trovo nel bianco sporco di ogni casa che si sovrappone all’altra una certa melodia, ripenso al poco verde che mi sembrava di vedere e sorrido all’albero di limoni in un giardino mal curato, guardo il grigio dei marciapiedi mai continui e saltello da buca in buca, in un’allegra gimkana pedonale. Il primo taxi che prendo – una modernissima auto elettrica – mi regala una lunga conversazione con il tassista, che parla un buon inglese: ci soffermiamo a lungo sulla compresenza religiosa, sull’immutabilità della parola del Profeta (pbsl) nella cultura islamica, sulla proibizione religiosa della speculazione e come questa si intreccia con i bisogni capitalistici, sul sistema politico giordano e la situazione di Gaza e della Palestina. Tutto mi sembra un incredibile regalo, un’offerta che prendo a piene mani, e tutto mi sembra più bello e desiderabile, anche l’adesivo sulla scrivania della camera d’albergo che mi indica la qibla, la direzione della Caaba verso la quale rivolgere le preghiere. Nulla è cambiato; forse io, un po’.

A proposito di Palestina

Zain, uno dei maggiori operatori telefonici in Giordania, da metà ottobre ha cambiato il suo nome di rete in Gaza. Me ne accorgo quasi per caso, controllando se il mio numero italiano avesse copertura di rete in Giordania, e sorprendendomi nel leggere Gaza al posto del nome della rete. La cosa non mi sorprende troppo, e mi sembra un gesto simbolico forse utile a ricordarsi di cosa sta succedendo da 5 mesi a Gaza; ma in Giordania vivono quasi tre milioni di Palestinesi, e dubito che a loro serva questo cambio di nome per ricordarsi di Gaza. Camminando pigramente in un quartiere che non conosco, cercando di non perdere la direzione dell’hotel, mi imbatto in due veicoli militari ben rinforzati, e in un certo numero di poliziotti in tenuta anti-sommossa, molto più bardati della celere italiana; poco più avanti, due cordoni di altri poliziotti meno minacciosi ma molto all’erta proteggono l’incrocio di strade. Saranno in tutto un centinaio di poliziotti, che circondano un altro centinaio di persone, in prevalenza donne: è una piccola, rumorosa manifestazione di sostegno a Gaza e al popolo palestinese, di fronte a una moschea. Mi avvicino un po’ guardingo; non capisco bene gli slogan, ma capisco la parola Amerika e posso immaginare il contesto. Non che percepisca alcuna minaccia, ma io sono visibilmente straniero, e se qualcuno dovesse parlarmi istintivamente risponderei in inglese (e per qualche motivo ho pure un accento americano, quando parlo inglese) – insomma, potrei tranquillamente essere americano. Rimango una decina di minuti per sentire il ritmo degli slogan, urlati a grande voce da un instancabile oratore sul palco, e ripetuti a grande voce dai manifestanti. Non sono propriamente slogan: è una lunghissima canzone collettiva mononota, con le sue strofe di maggior successo, i suoi ritornelli e le sue ripetizioni, la forza dello stacco corale e l’urgenza del volume.

Non si legge bene la scritta in bianco, e la traduco: "Cosa farò da grande?"
Non si legge bene la scritta in bianco, e la traduco: “Cosa farò da grande?”

A mo’ di spiegazione

Sono a Amman per una formazione, mi sono fermato una decina di giorni appena. Non sono qui per tornare, ma per ripartire: ho un nuovo lavoro con il Norwegian Refugee Council (NRC), e presto dovrò proseguire verso Nairobi e poi, tra peripezie varie, riuscire a raggiungere il mio personalissimo nuovo paese di lavoro: il Sudan, e la sua angosciante e un po’ dimenticata situazione umanitaria, schiacciata mediaticamente da Ucraina e Gaza. Vi scriverò da lì – o prima da Nairobi – quando ci sarò. Qui a Amman ho partecipato alla famosa formazione di sicurezza di NRC: sei giorni molto intensi di apprendimenti vari e simulazioni delle peggiori situazioni che possano capitare a chi lavora in contesti di guerra – come muoversi nel fuoco incrociato, come affrontare un check-point illegale, come sopportare e affrontare un possibile rapimento. Ho imparato un sacco di cose utili che spero non siano mai utili, e ho mantenuto tutti i miei dubbi rispetto all’approccio un po’ militaresco di tanti insegnamenti. Siamo stati 6 giorni in un centro di addestramento militare – l’unico posto che permetta un certo tipo di simulazioni – e non sono mai stato così tanto sottoposto al suono di spari e esplosioni (non eravamo certo gli unici a esercitarsi, e c’era chi lo faceva con altri ovvi obbiettivi). Spesso salutavo gli innumerevoli gatti, o sentivo il cinguettare degli uccelli, o guardavo le capre brucare l’erba sulla collinetta verde punteggiata dai papaveri, oltre il recinto che delimitava la struttura; mi confortava la tranquillità della natura, tra le raffiche di spari.  

Hasta pronto, Colombia!

Cosa non ho visto

A Bogotà, tra la carrera 11 e la calle 85, c’è un edificio in costruzione, uno tra i tanti, e non so quale progetto nasconda – immagino un palazzo ripetitivamente moderno, con spazi differenziati tra appartamenti di medio lusso, uffici e negozi. Il cantiere è recintato da un muro, e sul muro sono affisse diverse foto naturalistiche; sono i luoghi turistici più famosi della Colombia, e sono foto bellissime. C’è il Nevado del Tolima con i suoi frailejones e i suoi 5220 metri di altezza; c’è il Caño Cristales nella Macarena, con i suoi colori vividi di ossido e alghe; c’è la lontana isola di San Andres, contesa con il Nicaragua, e le sue spiagge bianchissime di palme caraibiche; ci sono le colline del eje cafetero, l’altipiano ondulato sul quale si produce buona parte del caffè colombiano; c’è la ciudad perdida e la costa pacifica, i laghi di Antioquia e le baie di Tumaco. Tutti posti che – colpevolmente? – non ho visitato, nonostante le opportunità.

Cosa ho visto

La Colombia mi è eccessiva, o sicuramente eccede le mie capacità di esplorazione. Io della Colombia ho visto poco, e quel poco mi è bastato, in questi mesi che sono stati sei ma sono sembrati molti di più. Che poi: aver messo il naso nel remoto Putumayo e navigato su e giù il suo fiume; aver guardato ammagliato la luce del sole che scende sulla foresta amazzonica a Puerto Leguizamo o essermi commosso di un perfetto arcobaleno sopra la nostra barca; aver ascoltato ogni mattina il canto di tanti uccelli nascosti e il frinire di mille altri insetti e tante altre emozioni che ora non ricordo; tutto questo non mi sembra così poco. Sono anni che dico di essere un pessimo viaggiatore, nonostante il (o a causa del) lavoro che faccio: forse semplicemente non mi va di viaggiare per viaggiare, e la retorica della meta nel viaggiare che tanto mi ha affascinato ora non fa per me.

Cosa ho deciso di non vedere

Tra i viaggi che non ho fatto, ne spicca uno in particolare: non sono tornato a San José de Apartadò, ed è l’unico viaggio non fatto che, un po’, mi lascia l’amaro in bocca. L’occasione era ghiotta: quest’anno il numero di lunedì festivi e ponti vari in Colombia non è mai stato così alto, e un viaggio a Apartadò – per quanto non tra i più semplici – era ampiamente fattibile. Ci sono vari motivi per cui non sono andato, e non scarto anche una certa pigrizia, stanchezza e allergia per gli aeroporti – ma questi sono fattori che vedo più come giustificazioni che come motivi veri e propri. Il motivo dominante, penso, è che avevo paura del confronto. La Comunidad de Paz de San José de Apartadò mi aveva accolto, come volontario di Operazione Colomba, dieci anni fa, quando avevo 24 anni, una visione del mondo diversa, una visione di me stesso diversa. Per dire: non solo non lavoravo nell’aiuto umanitario, ma neanche sapevo che l’aiuto umanitario potesse essere un lavoro. Dico spesso che quell’esperienza mi ha cambiato la vita, e ci credo fermamente: e infatti non credo di essere più quello che ero dieci anni fa. Tornare a San José de Apartadò mi avrebbe costretto a un confronto, con il rischio che diventasse una ridefinizione: non mi sentivo pronto.

Cosa porto con me

Qualche giorno fa mi sono messo a pensare cosa mi mancherà della Colombia, e ho fatto una gran fatica a pensare a una sola cosa. Non penso mi mancherà Bogotà – questa città da cui mi sento un po’ travolto, come tutte le grandi città, e che mi ostino a vivere a piedi, confinato negli spazi di un quartiere troppo pulito; non mi mancherà l’ufficio a Bogotà, nel quale mi sono sentito spesso estraneo, salvato dal tavolo da ping pong sulla terrazza e da qualche volto amico; non penso mi mancherà Puerto Asìs – a cui comunque ho voluto bene nei tre mesi che mi ha regalato. Ma forse la nostalgia ha bisogno di tempo per formarsi, e inoltre si forma dall’assenza: so che mi troverò presto a ricordare con affetto i cieli drammatici e mutevoli di Bogotà e il mio pedalare affannato sopra i 3000 metri; so che mi mancheranno le cercropie di Bogotà, con i loro tronchi nudi e le gigantesche foglie di forma digitata, e mi mancheranno le buganvillee dai fiori viola rampicate sui mattoni chiari di certi palazzi; so che mi penserò sorridendo ai volti e alle voci di tante persone che ho trovato, che in realtà di pochi ci si dimentica, e in fondo non sono ancora stanco di cercare.

La corda degli spiriti

L’argomento ricorrente

C’è un argomento che ritorna spesso da quando sono in Colombia. Ne ho parlato con colleghi e colleghe a Bogotà, ne ho sentito parlare da visitanti più o meno turistici, e ne parlo spesso durante il mio lavoro con le comunità indigene nella regione del Putumayo. La mia percezione verso questo argomento cambia totalmente a seconda del mio interlocutore: passo dalla risata dissacrante e sarcastica alla riprovazione, dal disgusto al sincero interesse. È un argomento che mi attrae e mi respinge, che mi disturba e mi incuriosisce, poiché tocca vari temi rispetto ai quali non ho un’opinione chiara e stabile: il concetto di scienza e quello di medicina o cura, l’appropriazione culturale, la spiritualità, il turismo come accumulo di esperienze, il rispetto delle culture altrui attraverso la conoscenza della propria, il significato stesso del concetto di cultura (e, se esiste, l’impoverimento della mia cultura propria). L’argomento è l’ayahuasca, o yagé – una bevanda sacra ai popoli indigeni dell’Amazzonia: la corda degli spiriti.

Ayahuasca, nelle sue componenti

Nella sua componente fisica, l’ayahuasca è un decotto di colore rossastro prodotto con due piante amazzoniche: le liane della pianta rampicante Banisteriopsis caapi e le foglie della Psychotria viridis, un albero sempreverde. Nella sua componente farmacologica, l’ayahuasca contiene gli alcaloidi armina, armalina e d-tetraidoarmina e la dimetiltriptamina, una triptamina psichedelica endogena, presente cioè anche nel corpo umano: gli effetti combinati di queste componenti sono allucinogeni e purganti. Nella sua componente culturale, l’ayahuasca è considerata la bevanda sacra di tanti popoli amazzonici, tra l’Ecuador, il Perù e la Colombia, usata da più di mille anni: viene bevuta durante cerimonie sacre di gruppo, accompagnata da musiche tradizionali e sotto la guida di un taita (un medico tradizionale), con l’obiettivo di ripristinare l’equilibrio degli elementi e permettere una connessione con gli spiriti. Nella sua componente medica, ancora poco studiata, l’ayahuasca aiuterebbe a trattare le dipendenze (da stupefacenti, ma anche da alcol e tabacco), avrebbe effetti antidepressivi e ansiolitici e potrebbe essere utilizzata per disturbi neurologici e psichiatrici. Nella sua componente economica, attorno all’ayahuasca si è creata una piccola, ma fiorente, industria turistica (specialmente in Perù, ma presente anche in Colombia) che attira persone che vogliono vivere un’esperienza, persone in cerca di una guarigione, persone in cerca di un effetto allucinogeno diverso, e che vede già delle pericolose derive di banalizzazione e cialtroneria.

Cerimonia

L’ayahuasca non è un rituale per tutti; molte persone che l’hanno vissuto me l’hanno detto sinceramente (e li ringrazio molto, che apprezzo sempre il dubbio). C’è prima di tutto una preparazione, nei giorni precedenti, che varia a seconda della funzione specifica della cerimonia: generalmente ci si deve astenere da alcuni cibi, bevande e attività per un periodo di una settimana circa, per preparare il corpo e lo spirito alla cerimonia. L’effetto sul corpo della bevanda e della cerimonia, che si manifesta diversamente per ogni persona, è spesso dirompente: gli alcaloidi danno un forte senso di nausea che porta a conati di vomito e incontinenza, e evitano la rapida degradazione della dimetlitriptamina, che porta a visioni psichedeliche di lunga durata, fino a due, tre ore. I partecipanti sono seguiti dal medico tradizionale, generalmente in un contesto di sicurezza (anche se non sono mancati incidenti mortali negli ultimi anni), e vengono aiutati a esplorare e capire le visioni e le sensazioni. Tra le persone con cui ho parlato, c’è chi mi raccontava di visioni allucinogene condivise con gli altri partecipanti, chi mi raccontava di guarigioni miracolose, chi aveva partecipato assieme al suo medico curante per curare malattie psicosomatiche, chi mi diceva di non aver provato nulla la prima, seconda e terza volta, chi mi diceva di essere stato malissimo per giorni dopo la prima volta, ma di aver avuto risposte a domande di una vita durante la seconda volta.

Domande

Cosa vuol dire ammalarsi o guarire? Quanto è dipendente la nostra salute dalla salute di chi ci circonda, e dalla salute di cosa ci circonda? Qual è il limite tra cialtroneria, stregoneria, religione e pratiche culturali? Chi stabilisce questo limite? Cosa ne è stato della medicina tradizionale della mia cultura trentina, fatta di decotti, erbe, Ave Maria e Pater Noster, tiraossi e levatrici senza diploma? Quanto dipende la nostra ricerca di pratiche culturali salvifiche esoteriche dalla scomparsa delle nostre pratiche culturali salvifiche? Che influenza ha il turismo dell’esperienza sulla sopravvivenza delle culture? È possibile partecipare a cerimonie culturali antichissime senza condividere la cosmovisione che è alla base di queste cerimonie?

Sono domande su cui rimugino da molto tempo, e che negli ultimi anni si sono rinforzate – attraverso l’esperienza pandemica, il lavoro con un’organizzazione principalmente medica in Afghanistan, e ora questo incontro – indiretto, per ora – con l’ayahuasca.

Bonanza

Puerto Leguizamo

Mi trovo sempre molto bene ogni volta che vengo a Puerto Leguizamo. È una cittadina costruita direttamente sul fiume, e le strade sono tutte un piacevole sali-scendi, con le casette di legno basse a un piano dipinte con bei colori sgargianti. Camminare per strada è molto meno straniante che a Puerto Asis; ci sono meno moto e più persone che camminano, senza fretta. Sembra un località marittima, forse per la presenza del fiume così grande e così vicino, che da un senso di spiaggia; forse per l’attitudine delle persone che ci vivono; forse per il colore dei suoi tramonti. Puerto Leguizamo ha un’anima fortemente indigena, che si riflette nelle facce che si incontrano per strada e nei vari piccoli negozi che vendono artigianato. Alcune persone con cui ho parlato, di discendenza non indigena ma rifiutando di considerarsi coloni, decidono di presentarsi come mestizo amazonico – un miscuglio amazzonico. Questo è l’ultimo posto con una parvenza di città sul Rio Putumayo, prima che inizi la grande provincia amazzonica. A poco più di due ore di navigazione da qui, in corrispondenza del confine tra il dipartimento del Putumayo e quello della Amazzonia, finisce la zona municipalizzata e inizia un territorio vastissimo e poco popolato, circa centomila chilometri quadrati (un terzo dell’Italia) in cui vivono poco meno di ventimila persone.

Lussureggiante ≠ fertile

Tutto intorno a Leguizamo non c’è che acqua e foresta. L’acqua ha il colore marroncino del Rio Putumayo, e il colore nero un poco rossastro degli affluenti più piccoli; quando le due acque si mischiano creano effetti cromatici particolari vicino alla riva e tra le piante, come del latte versato dentro a un caffè americano. La foresta è verde, verdissima, con tozze palme di papaya e piante a enormi foglie larghe, e alberi pericolosamente inclinati verso il fiume, e tanti altri arbusti che creano una barriera e non permettono di guardare più in la della riva stessa. Attraversando questa natura lussureggiante si può pensare a una terra fertilissima, dove qualsiasi seme cresce in pianta e matura in frutto in fretta. Invece è spesso una terra acida, priva di nutrienti, nella quale la pianta può vivere tranquilla ma rimanere bloccata nella sua riproduzione. È terra rossa, a volte quasi rosa, terra giovane, dalla quale non si coltiva molto – diversa dalla terra nera, vulcanica e ricca di minerali, che rimane nascosta al fiume, retirada en el monte. Ci sono poche piante commerciabili che si coltivano con successo, nelle comunità del Rio Putumayo: la yucca, ossia la manioca, il riso, ma spesso solo in stagione secca nelle spiagge lasciate libere dal fiume, il platano. Ah, e la coca.

Coca

In tutta la Colombia si coltivano 204mila ettari di Erythroxylum coca, dalle cui foglie, attraverso un processo di estrazione chimica che solo in parte avviene in Colombia, si produce la cocaina. Questo dato è di dicembre 2022. Nel dicembre 2020, gli ettari coltivati a coca erano 143mila. C’è stato un aumento nella produzione del 43%, in soli 2 anni. Il Putumayo è una delle regioni maggiormente dedicate alla coltivazione e l’economia della regione è fortemente influenzata, se non completamente dipendente, dalla coltivazione e dalla vendita della foglia o della pasta di coca – la pasta è il primo processo produttivo, ed è molto più facilmente trasportabile delle foglie (basti pensare che ci vogliono circa 125 chili di foglie per produrre un solo chilo di pasta). Dal ciclo produttivo della pianta di coca dipende buona parte dell’economia legale e illegale della regione: le piantagioni danno lavoro a moltissimi raspachin, i raccoglitori delle foglie, che vengono pagati secondo la quantità di foglie che riescono a raccogliere. Ci sono poi i commercianti di disinfestanti e composti chimici, necessari perché la pianta non venga attaccata da batteri e deleteri per il terreno, tanto da renderlo inutilizzabile per qualsiasi altra coltivazione dopo solo pochi anni. C’è chi legalmente vende il cemento o il cherosene, che vengono utilizzati per la produzione della pasta di coca. E ci sono migliaia di piccoli rivenditori – ristoranti, chioschi, bar, discoteche – che dipendono dalla capacità di spesa dei propri clienti.

La bonanza

L’aumento impressionante di campi coltivati a coca in Colombia e nel Putumayo ha portato una certa ricchezza, anche a Puerto Leguizamo, negli ultimi tre anni – prima, mi dicono, non c’era un solo campo coltivato a coca in tutto il municipio. C’è però una autocritica molto presente tra i colombiani: la loro scarsissima propensione al risparmio. La ricchezza si traduceva quindi semplicemente in una grande liquidità e in un forte movimento di soldi – guadagnati e sperperati. Molti hanno beneficiato della bonanza, e altri sono stati convinti (non sempre con le buone) a convertire i propri campi in campi di coca. E non si pensi al contadino cocalero come a un losco ceffo: quelli che ho incontrato io sono semplici contadini che, vista la maggior rendita della coltivazione della coca, hanno spesso ingrandito la produzione o convertito altri campi; o gente che ha dovuto attenersi agli ordini. Ma per quanto si tiri di coca nel resto del mondo (il consumo interno di cocaina è insignificante, anche se in crescita), la produzione si è rapidamente trasformata in sovrapproduzione, e la domanda non è riuscita a stare al passo con l’offerta. Ora, nel Putumayo e in tutte le altre zone cocalere della Colombia, i contadini che coltivano coca non riescono più a vendere il proprio prodotto, in un mercato tutt’altro che libero. Ne soffrono loro, e a catena ne soffre tutta l’economia legale e illegale. Se la domanda aumentasse, i contadini riuscirebbero a vendere il proprio prodotto, e l’economia rientrerebbe in circolo. Ma se la domanda aumentasse, ci sarebbe più cocaina nel mondo e gli interessi dei gruppi armati potrebbero entrare maggiormente in conflitto, con ovvie conseguenze sulla popolazione civile. Sperare che torni la bonanza, quindi?

Cry me a river

Porto Assisi

A molti potrà sembrare scontato; io ho impiegato qualche settimana ad accorgermene. Puerto Asìs è Porto Assisi, e poco a nord c’è anche Puerto Umbria. Furono due missionari francescani a fondarla, nel 1912, con motivazioni più politiche che religiose: i confini tra Peru, Ecuador e Colombia erano ai tempi poco chiari, frutti di trattati interpretati differentemente da ognuno dei tre governi, e il governo colombiano cercava di estendere la sua influenza – o riprendere il controllo – della sua parte meridionale, nella foresta amazzonica. Ai missionari francescani Stanislao de las Corts e Ildefonso de Tulcan fu dato il compito e furono date le risorse per costruire una colonia agricola, formata inizialmente da una scuola, una chiesa, un carcere, un ufficio del governo, un porto fluviale e case per ospitare gli indigeni. I due frati – antichi project manager – avevano appena finito di dirigere i lavori per la strada di collegamento tra Pasto e Mocoa; si misero subito all’opera e il 3 maggio 1912 celebrarono una messa solenne nella nuova chiesa di Puerto Asìs alla presenza di lavoratori sotto contratto e qualche indigeno della zona. Non fu affatto facile trovare famiglie che avessero voglia di venire a lavorare nel Putumayo, nonostante la promessa di un appezzamento di terra con casa, e viveri gratuiti per i primi sei mesi: la foresta amazzonica incuteva ancora una certa paura (più che un certo rispetto).

La febbre del caucciù

I primi anni del ventesimo secolo furono anche gli anni apicali della febbre del caucciù, ossia lo sfruttamento massivo della pianta della gomma nella foresta amazzonica. Il governo colombiano doveva fare i conti con l’espansione delle imprese peruviane verso nord, tra il fiume Putumayo e il fiume Caquetà. Una di loro, la Peruvian Amazon Companycon sede a Londra – antica multinazionale – si era resa protagonista della riduzione in schiavitù delle popolazioni indigene nella foresta amazzonica: i racconti dei supplizi e delle crudeltà dei caucheros vennero documentate da un ingegnere statunitense e pubblicate in una rivista londinese, e portarono alla creazione di due processi – uno in Perù e uno a Londra. Nel 1921 la Peruvian Amazon Company fu costretta a chiudere, grazie anche alla campagna della Società Anti-Schiavitù e per la Protezione degli Aborigeni – probabilmente la più antica organizzazione per la difesa dei diritti umani. La situazione per le comunità indigene migliorò poco: alla fine degli anni venti il loro territorio fu il campo di battaglia della guerra colombo-peruviana, e negli anni trenta furono vittime della forzata colombianizzazione del territorio. Si stima che, a partire dagli anni successivi alla scoperta della vulcanizzazione della gomma e all’invenzione dello pneumatico (1887), siano morti più di duecentomila indigeni a causa della colonizzazione delle loro terre tra il fiume Putumayo e il fiume Caquetà, in quello che è ricordato come il genocidio del Putumayo.

Maloca e aricaguà

Ci pensavo a queste cose l’altro giorno, mentre entravo nella maloca di una comunità a sud di Puerto Leguizamo, qualche centinaia di metri sotto la linea dell’Equatore. La comunità – o meglio il cabildo indigena – è una fortunata convivenza di indigeni kichwa e qualche colono: sono in tutto qualche decina di famiglie, e hanno il vantaggio organizzativo delle piccole comunità coese e in grado di autogestirsi in quasi perfetta autonomia. La maloca è la struttura principale della comunità, dove avvengono le riunioni: è un’imponente struttura conica di pali di legno che raggiunge i tredici metri di altezza, con una circonferenza di una cinquantina di metri almeno. I pali sono incastrati e legati tra di loro senza l’utilizzo di chiodi, e il tetto è tutto composto da foglie di palma secche. Il tetto, nella parte più elevata, è aperto su due lati, per permettere la circolazione dell’aria. Nonostante il sole all’esterno, e una temperatura vicina ai 35 gradi, all’interno della maloca fa quasi fresco – merito della sua altezza, che permette all’aria calda di salire fino al tetto. A queste cose ci pensavo anche il giorno seguente, mentre incontravo il rappresentante di un’organizzazione del popolo kichwa, e si parlava dei frutti della palma Oenucarpus Bataua, bacche della dimensione di una prugna che in Colombia si chiamano milpesos, da cui si ricava una bevanda acidula con forte sentore di latte. Gli chiedevamo se lui sapesse perché si chiamassero milpesos: lui ci ha guardato un po’ stupito della domanda: “questo è il nome vostro, per noi si chiama aricaguà”.

Coloni

Tutt’ora, quando ci si riferisce a persone che vivono nelle comunità del Rio Putumayo senza far parte di un cabildo indigeno, si usa la parola colono. È in parte un retaggio del passato – ma come si è detto non è un passato chissà quanto remoto – e in parte un’affermazione necessaria a distinguere chi ci è sempre stato e chi è arrivato solo dopo. I colombiani sono un popolo che si muove, parecchio, all’interno del proprio stato: a volte sono costretti dal conflitto armato, a volte semplicemente inseguono possibilità economiche e di lavoro. È molto raro trovare una persona che sia nata e cresciuta nello stesso posto, con l’eccezione forse delle grandi città; e non è per nulla raro incontrare lavoratori alla giornata, che si spostano di città in città e di finca in finca (le fincas sono le piantagioni colombiane) a seconda del mercato del lavoro, con un semplice zaino a contenere i propri averi e spesso un machete alla cintola. Chi si muove verso i territori ancora abitati da comunità indigene, e chi ne lavora la terra, quello è certamente un colono. Secondo il censimento del 2005, nel Putumayo quasi il 18% della popolazione censita appartiene a una comunità indigena, una percentuale che scende al 4,3% a livello nazionale – circa un milione quattrocento mila persone. Nel censimento del 1993, si dichiarava appartenente a una comunità indigena solo l’1,6% della popolazione, poco più di mezzo milione di persone. Due fattori hanno portato a questa improvvisa esplosione demografica: da una parte un lavoro di sensibilizzazione culturale delle organizzazioni indigene, che hanno permesso una nuova consapevolezza identitaria. Dall’altra gli aiuti statali per le persone indigene, che hanno fatto si che molti coloni e contadini delle aree rurali si autodefinissero, impropriamente, indigeni. Una colonizzazione dell’identità.

Puerto Asìs, primi spunti

Moto familiari

Il mezzo di movimento più familiare a Puerto Asìs è la moto. Ci sono moto ovunque, di qualsiasi cilindrata, che vanno veloci o pianissimo, che girano in gruppetti o sole, con uno o più passeggeri, tutti rigorosamente senza casco (con l’emblematica eccezione degli agenti di polizia, che quando si vedono hanno un riconoscibilissimo casco verde). L’aggettivo familiare ha molteplici significati: la moto è familiare in quanto ogni famiglia ne ha almeno un paio, e non è per nulla raro vedere bambini di 10 anni guidare tranquillamente il loro mezzo; la moto è familiare anche perché è un mezzo per la famiglia, e non è per nulla raro vedere intere famiglie su una moto – padre, madre e due figli, il più piccolo con le mani sul manubrio o sugli specchietti e il più grandicello schiacciato tra il corpo del padre che guida e della madre passeggera. È meno frequente, ma certo non raro, vedere anche il cane della famiglia trasportato sulla moto – a volte in braccio a un passeggero, a volte tranquillamente seduto tra i suoi piedi. Oggi, in uno di quei casi di similitudine tra il padrone ed il suo cane, ho visto un grosso bulldog inglese con la lingua a penzoloni lasciarsi trasportare tranquillamente sul poggiapiedi di un grosso scooter dal suo enorme padrone colombiano.

Puerto Asìs

Rombi

Il suono delle moto è quindi una costante, ma non disturba poi troppo. Quasi nessuno accelera troppo, e l’unica molestia sono gli innumerevoli motoratòn – i tassisti su moto che non perdono l’occasione di suonare il clacson ogni volta che mi vedono camminare per strada, per invitarmi a prendere un passaggio. Camminare a Puerto Asìs è un’attività non particolarmente popolare: per qualsiasi spostamento, si prende la moto. C’è una buona ragione per evitare di camminare troppo, e non necessariamente riguarda i marciapiedi inesistenti o occupati dai tavolini di un bar o sconnessi o riempiti di sali scendi e pedane varie per l’ingresso a qualche negozio o bar; semplicemente, fa spesso troppo caldo per buona parte del giorno. È un caldo umido, spesso, che ti si appiccica addosso e cresce. I giorni più caldi si trasformano spesso nelle serate più fresche, quando scroscia all’improvviso un forte temporale equatoriale a raffreddare l’aria. I lampi sono impressionanti, ma molto di più lo sono i tuoni: lunghi, potenti rombi bassissimi che si prolungano per diversi secondi e fanno tremare le pareti delle case e le finestre.

Suoni

Non c’è dubbio che l’udito sia il senso più stimolato a Puerto Asìs, soprattutto nelle ore della notte e nella prima mattina, quando la città è ancora sonnolenta. Non c’è mai silenzio: è un rincorrersi di grilli, di raganelle e altri anfibi, di uccelli notturni che fischiano cantano e stridono, di gatti e altri animali che saltano sui tetti, di cani che abbaiano, di zanzare che ronzano, di altri rumori, versi e cinguettii sconosciuti che intimoriscono, incuriosiscono e di cui non si riesce a capire la provenienza. Nel mio giardino vola spesso un molto socievole kiskadee dal petto giallissimo, che deve il suo nome al suo verso acuto (che a me in realtà non suona come kis-ka-dee, però mi pare proprio lui). Spesso vedo anche dei bellissimi fringuelli zafferano (o botton d’oro, che nome splendido) saltellare nell’erba del giardino. Non sono invece ancora sicuro di aver identificato la colonia di uccelli che canta abitualmente dall’alto del grande albero1 vicino al muro che delimita il giardino: penso siano dei cacicco groppagialla – altro bel nome! –, ma non vedo da qui i grandi nidi penduli nei quali dovrebbe nidificare (che però ho visto sulle sponde del fiume Putumayo).

Botton d’oro (?)

1Mi piacerebbe capire meglio di che albero si tratta, ma sto già perdendo ore a cercare di classificare gli uccelli che vedo. Per una classificazione delle piante, datemi un po’ di tempo.

Natura

Puerto Asìs si trova all’inizio della grande foresta amazzonica, che dalle prime pendici delle Ande, pochi chilometri a ovest di qui, si estende fino all’altro capo del continente. Il porto è sul Rio Putumayo, che da il nome anche alla regione, e che segna il confine tra la Colombia e l’Ecuador, poi tra la Colombia e il Perù, prima di entrare in Brasile e sfociare nel Rio delle Amazzoni. Il Rio Putumayo è un fiume amazzonico enorme, a tratti largo anche cinquecento metri – e ora siamo nella stagione secca – di un colore marroncino, quasi rossastro, che va navigato con attenzione per evitare le secche e i tronchi. Da un lato c’è la Colombia, dall’altro l’Ecuador e poi il Perù, e su entrambi i lati è un verde fitto, intenso, con qualche raro gruppo di casette qua e là. A pochi chilometri da Porto Asìs, sul lato sinistro del fiume, c’è un piccolo appezzamento coltivato a coca – stranamente molto visibile al passaggio, visto che le grandi piantagioni sono un po’ più nascoste. Mi ha ricordato quei vigneti di qualche azienda vinicola, posti quasi in esposizione vicino a un’autostrada, per attirare clienti.

Davanti a un quadro (o uno specchio)

Ritorni, o forse no

Ho spesso vissuto il mio lavoro umanitario come un conoscere posti – o tentare di conoscerli – in cui sarei difficilmente ritornato. In realtà più il tempo passava, e più nuovi luoghi si aggiungevano alla lista, più mi sembrava bassa la possibilità di tornarci. Penso sia una questione di promesse un po’ false non mantenute: quel famoso tanto prima o poi torno che non si materializza, che si dice più per scacciare la paura del dimenticarsi. Vale per i luoghi, vale per le persone – ho conosciuto tante persone che difficilmente rivedrò, e a molte ho voluto bene. Quando avrò più la possibilità di bere una birra con Peter, Idi e Clement in un tukul polveroso a Mundri la domenica mattina? Quando mai mi capiterà di rivedere la piccola Maria, della famiglia di profughi di Hawija, che viveva nel settore O del campo di Jedd’ah? L’ultimo – forte – indizio di questa maturata convinzione di non ritorno risale ormai a un anno fa: iniziavano i bombardamenti sull’Ucraina, e gli amici e le amiche cominciavano a scappare da Slav’jansk. Anche il posto che mi sembrava il più facilmente raggiungibile, in vesti non umanitarie, diventava improvvisamente e tragicamente irraggiungibile. Per questo mi fa strano essere di nuovo in Colombia, e devo ancora abituarmi completamente all’idea che i ritorni siano possibili. O forse appunto non lo sono: ma che si, si può vivere di nuovo un luogo. Ci penserò ancora molto; ancora di più se mi capiterà di visitare San José de Apartadò.

La Candelaria

In queste prime settimane a Bogotà – un po’ per gli impegni lavorativi, un po’ per le escursioni fuori città nei fine settimana – non mi era ancora capitato di passare per La Candelaria, lo storico quartiere coloniale di Bogotà. C’è piazza Bolivar con diverse sedi istituzionali, c’è il museo dell’oro (in realtà un po’ fuori dalla Candelaria, in un palazzo moderno a nord), c’è il museo Botero. Dieci anni fa, nei cinque giorni passati a Bogotà sulle tracce di Enzo G. Baldoni, avevo camminato per molte ore tra le stradine strette e pendenti di ciottoli del quartiere. Avevo incontrato il Maestro Santiago Garcia, già malato di alzheimer, nel patio del teatro La Candelaria, e tentato un’inutile conversazione sul passaggio di Baldoni, dieci anni prima (è morto nel 2020, Santiago Garcia). Avevo lungamente indugiato davanti alla porta dell’hotel de la Opera, a pochi passi da piazza Bolivar, nel quale aveva soggiornato Baldoni e che forse ancora dava lavoro a Horacio – il-maggiordomo-che-tutti-vorremmo-avere (ma che forse era anche un integrante del Frente Urbano). Mi ero seduto a guardare gli artisti di strada nella Plazoleta, sorprendendomi di una Bogotà molto meno minacciosa di quanto mi ero immaginato.

Chiedo venia – però che sorriso enigmatico

La Candelaria, dieci anni dopo

Rileggo quello che avevo scritto dieci anni fa con un misto di tenerezza e pena. Mi lasciavo andare a lirismi con molto più facilità di adesso, e cercavo di vantare molte più informazioni di quante ne possedessi. La mia descrizione della Plazoleta Chorro de Quevedo, ricca di simbolismi e tentativi di interpretazione, aveva impresso nella mia memoria il ricordo di un luogo molto più grande, e molto più magico. Ripassandoci oggi mi stupisco della sua piccolezza, e della quantità di venditori ambulanti di chicha – un liquore di mais fermentato che dubito proverò – che non la rendono per forza invitante. Mi dilungavo in descrizioni semi-architettoniche di quello che vedevo, probabilmente senza alcun senso, e aggiungevo giudizi estetici tecnici, non personali (maledetto Bruce Chatwin e la mia fascinazione per le sue dettagliate descrizioni onniscienti). Descrivevo il museo Botero come una mezza accozzaglia di opere dell’artista colombiano e di altri artisti, aggiungendo quasi con sprezzo di come un tale miscuglio fosse tipico dei musei appartenenti a fondazioni bancarie – peccato che il museo non appartenga a una fondazione bancaria, e che tutte le opere siano state in effetti parte della collezione privata di Botero, che decise di donarle a una fondazione con la chiara istruzione che fossero esposte al pubblico.

Il museo Botero e ritorni, forse si

Il museo Botero è bellissimo. Ospitato in un palazzo coloniale di due piani, con un bel giardino interno porticato su tutti i lati, è visitabile gratuitamente, tutti i giorni, fino alle sette di sera. Ci si può camminare tranquillamente chiacchierando: non ha quel sentore di sacralità silenziosa di altri musei, ci sono tante opere diverse che è un piacere fermarsi ad ammirarle, o anche solo passarci uno sguardo veloce sopra e lasciarsi distrarre da un’altra immagine – viva o dipinta – qualche metro più in la. Ti accoglie all’ingresso la bellissima versione di Botero della Monna Lisa, così rotonda da non lasciare alcun dubbio sulla natura di quel sorriso enigmatico. Prosegui ridendo delle statue di grassi gatti e grassi uccellini, e ammiri con fascinazione le bellissime chiappe della statua della coppia abbracciata, nuda, di spalle. Vedi quadri di Picasso, di Monet, di Kokoschka, di Klee, di Matisse – in tutto 203 opere, 123 di Botero e 87 di artisti vari. C’è un quadro, al secondo piano in una stanza più scura, davanti al quale mi ero fermato ammirato, dieci anni fa. Rappresenta un uomo tondeggiante e poco minaccioso, nonostante il fucile a tracolla: è Tirofijo, Manuel Marulanda, l’uomo che Baldoni sognava di potere incontrare nel suo viaggio in Colombia nel 2001. Mi sono fermato davanti a quel quadro di nuovo, dieci anni dopo, e mi sono rivisto com’ero allora: emozionato, convinto di aver terminato un viaggio e una ricerca, con meno barba e meno posti in cui ritornare.

Bogotà, portieri e biciclette

Santa Fé de Bogotà (ora pro nobis)

Non sono abituato a vivere in una grande città, per nulla, e Bogotà è di certo la città più grande nella quale io abbia mai vissuto; ci vivono circa otto milioni di persone. Ha un enorme problema, Bogotà, comune a tante città enormi: c’è un traffico quasi perenne e caotico. Ha un altro problema, Bogotà, questo meno comune: non ha una metropolitana. O meglio: non ce l’ha ancora, che una prima linea è in costruzione (dopo discussioni che duravano dagli anni ‘40) e forse sarà ultimata nel 2028. Il trasporto pubblico è interamente costituito da autobus, il Transmilenio: in alcune strade sono enormi biscioni tripartiti color rosso scuro, in altre piccoli modelli giallo o blu. Io, da quanto mi pare di aver capito, non sono autorizzato a viaggiare in autobus, per motivi di sicurezza – non ha una gran fama, il Transmilenio, e comunque devo ammettere di non amare particolarmente gli autobus. L’alternativa ovvia è usare uno dei migliaia di taxi che girano per la città – solo però prenotandolo prima, e non fermandolo al volo per la strada (così da evitare la pratica estorsiva del paseo milionario, il passaggio milionario, nel quale un autista obbliga il passeggero a fermarsi a un bancomat e prelevare tutto il contante possibile). Ho però anche una certa avversione verso i taxi, dovuta a chissà poi cosa.

El Chicò

In realtà, penso di avere una certa avversione verso le città che non mi permettono di essere autonomo nei miei spostamenti – ossia penso tutte le grandi città. Il rischio è di rimanere intrappolato nel quartiere in cui vivo, el Chicò, o al massimo spingermi un po’ più a sud verso el Chapinero. Sono entrambi quartieri a nord di Bogotà, e Bogotà ha una divisione abbastanza netta tra quartieri ricchi (a nord-est) e quartieri poveri (a sud-ovest). El Chicò è un quartiere ricco, e intorno all’appartamento in cui vivo (ancora momentaneamente, ma non mi sposterò di molto) ci sono varie ambasciate, grandi e costosi centri commerciali e un’enorme varietà di ristoranti e bar sempre frequentatissimi, tanto da farmi perdere qualsiasi voglia di entrarci. Mi è già capitato tre o quattro volte: esco di casa con l’idea di mangiare un boccone e dopo un quarto d’ora sono già di ritorno, scoraggiato dalla quantità di persone che affollano i posti che mi sembrano più alla mano, dalle luci soffuse e arredamenti ricercati dei ristoranti più costosi, dalla musica a volume troppo alto che non incontra molto i miei gusti. Una delle piazze, sulla Calle 93, ha dei bei tavolini pubblici all’aperto, sui quali non vedo sedersi quasi nessuno. Tutto intorno le strade sono pienissime dei riders, fattorini in moto o bicicletta, e ogni entrata di ristorante o bar è presidiata da un addetto alla sicurezza.

Su merced

Un’altra cosa a cui difficilmente riuscirò ad abituarmi, questa sì tipica dei quartieri ricchi di tante città, è l’onnipresenza dei portieri e delle persone di servizio. Non che mi stiano antipatici, anzi: le uniche chiacchierate qui in Bogotà fuori dall’ambito lavorativo le ho fatte con le varie amas de casas (le donne delle pulizie) e i tre portieri che si danno il turno a presidiare l’ingresso della palazzina. Con fatica sto cercando ad abituarmi alle forme di rispetto (a volte ossequiose, a volte spero sarcastiche) con le quali mi apostrofano: señor, su merced, jefe (ho scoperto che su merced, per quanto possa sembrare anacronistico, è in realtà meno formale di señor). Con fatica cerco di abituarmi al letto sempre perfettamente rifatto e i vestiti sporchi magicamente puliti ogni giorno. So che avrò maggiori problemi a abituarmi a un’altra cosa: la necessaria presenza del portiere per entrare o uscire dal portone. Io che mi dimentico spesso qualcosa a casa, o che esco per fare due passi e torno poco dopo, o che solo voglio scendere in strada per fumare una sigaretta: ogni volta mi sento quasi in colpa che debba esserci una persona a aprirmi la porta.

Biciclette!

Come si può capire, non ho intenzione di rimanere bloccato nel quartiere del Chicò, e neanche di passare troppo tempo in casa. Bogotà ha però anche un invidiabile vantaggio in termini di mobilità: è percorsa ogni giorno da migliaia di ciclisti, e d’altronde il ciclismo è lo sport nazionale in Colombia. Ci sono diverse piste ciclabili, e nelle domeniche e nei giorni festivi molte strade della città vengono ridisegnate con coni verdi e altre barriere per creare un circuito di quasi 130 chilometri ad uso esclusivo delle biciclette. Giovedì scorso, per tutta la giornata, il traffico a motore privato è stato vietato (sia macchine che moto): dovevo andare a un corso di formazione a dieci chilometri da qui, e sapevo che i taxi sarebbero stati presi d’assalto. Ho considerato l’opzione di camminare quasi due ore di prima mattina, poi ho preso una rapidissima decisione: mi sono comprato una divertentissima mountain bike blu, che poi cercherò di rivendere quando me ne andrò. Avere una bicicletta mi permette di essere autonomo negli spostamenti, e mi riconcilia un po’ con l’idea di passare i prossimi mesi in una metropoli.

Aquiloni e bandiere

Aquiloni

La storia degli aquiloni in Afghanistan è parecchio nota, e forse un tantino abusata. La storia vuole che nel 1998 i Talebani, da due anni al potere, avessero deciso di vietare gli aquiloni. Partendo da questa notizia e dalla rabbia che gli causava, Khaled Hosseini scrisse un racconto breve, che poi trasformò nel romanzo diventato famoso con il titolo Il cacciatore di aquiloni, nel 2003. Il romanzo ebbe un successo mondiale, e contribuì non poco a malleare l’immagine dell’Afghanistan e dei gruppi etnici afghani nel resto del mondo. Non ho letto il libro prima di venire in Afghanistan, né penso lo leggerò dopo essermene andato – ho un po’ paura di trovarci una versione romanzata di alcune situazioni che mi pare di avere, se non capito, quantomeno scalfito. Ci ragionavo oggi, quando mi sono accorto di un piccolo uccello verde brillante posato sul filo spinato sopra il muro del compound di Jalalabad. Vicino a lui c’erano due aquiloni, impigliati anche loro nel filo spinato. Ho scattato una foto, e pensato a quanti danni avrei fatto condividendola.

Battaglie di aquiloni

Che poi io nella mia pressoché assoluta ignoranza di aquiloni e nella mia stereotipata conoscenza (tutt’ora) di una parte della cultura afgana, pensavo che un aquilone lo si facesse volare per il puro piacere di vederlo volare e giocare con le correnti d’aria (anche perché l’unico riferimento letterario a aquiloni era Charlie Brown, che aveva notoriamente enormi problemi a farlo alzare in volo). In Afghanistan invece far volare aquiloni è qualcosa di molto più serio, molto più competitivo: si parla infatti di battaglie di aquiloni, nelle quali vince chi riesce a far volare il suo più a lungo, ossia a far si che nessun altro partecipante riesca a tagliare il filo del suo aquilone (con il filo del proprio aquilone). Non mi è chiaro come questo sia possibile – apparentemente si possono rinforzare i fili con materiale abrasivo, così da essere più taglienti. Forse avrei dovuto leggere Il cacciatore di aquiloni.

Uno dei pochissimi casi nei quali il disegno è meglio della foto

Musica di prima mattina

Quando sono a Jalalabad, la mattina mi piace iniziare a lavorare presto – fa meno caldo e non c’è bisogno dell’onnipresente aria condizionata. Dietro l’edificio che ci ospita c’è una scuola privata; dal vociare che spesso sento, dev’essere una scuola elementare o simile. Qualche mattina fa, dalle 7 in poi, gli altoparlanti della scuola mandavano musica a un volume parecchio elevato, che mal si conciliava con i miei tentativi di rimanere concentrato. Non mi sembrava né una musica militare né celebrativa, e suonava più simile a un qualsiasi pezzo pop del sub-continente indiano. Verso le 7:30 (in ufficio era già arrivato un collega afghano) qualcuno ha iniziato a recitare i versi di qualche poeta, e subito dopo è partito, forte e chiaro, l’inno nazionale afghano. Si badi bene: l’inno era quello della Repubblica Islamica dell’Afghanistan, usato dal 2006 al 2021; non quello dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan, in vigore da quando i Talebani hanno riconquistato il potere a agosto 2021. Ho chiesto spiegazioni al collega, che non sembrava troppo preoccupato di possibili conseguenze di quel che io temevo suonasse, letteralmente, come un affronto al governo in carica. “Non tutti hanno paura dei Talebani”, mi ha detto.

Bandiere

Un aspetto che mi ha impressionato dall’inizio della mia presenza in Afghanistan è la quantità spropositata di bandiere dei talebani, bianca con la shahada (la testimonianza di fede) scritta in nero. Sono pressoché dappertutto, e durante le feste obbligate si moltiplicano, issate su qualsiasi palo e all’esterno di qualsiasi negozietto – immagino non tutte sventolino volontariamente, ma molte siano lì un po’ per obbligo, un po’ per evitare qualsiasi guaio. Una è comparsa anche sul cancello a fianco del nostro, a Kabul, senza alcun apparente motivo. Mi chiedo chi le produca, e che ottimi profitti stia registrando da un anno a questa parte. La bandiera nazionale, tricolore nera rossa e verde con strisce orizzontali, è vietata – l’unica volta che l’ho vista sventolare stavo viaggiando da Jalalabad a Kabul, e un ragazzo la teneva fuori da un risciò su uno dei tanti tornanti del passo Khaber (un posto alquanto nascosto, va detto). Era il giorno dell’indipendenza dell’Afghanistan.

Paktia

Il passo Tera

Il passo Tera collega le province di Paktia e Logar, a sud-est di Kabul, tra le montagne dell’Hindu Kush. La strada è stata recentemente rinnovata, e ora si sale tra tornanti e gole su una strada larga, dove l’autista può dilettarsi nel superare all’esterno i lentissimi camion, stracolmi di merce, diretti verso Kandahar o Herat. Un passo così verrebbe voglia di affrontarlo in bicicletta. In cima, a 2895 metri sul livello del mare, stanno construendo una grande moschea. Mi chiedo chi ci andrà: il passo durante l’inverno rimane spesso chiuso a causa di neve e gelo, e le uniche persone che stanziano lassù sono i pochi soldati addetti al check-point. Anche adesso, e siamo in agosto, il vento soffia forte e freddo – e loro se ne stanno lì, imbacuccati nei loro vestiti afghani tradizionali o nelle loro divise militari, con qualche strato di scialle in più a coprirsi la testa.

Kuchi

Ci sono, in realtà, altri abitanti stagionali del passo Tera. Sono i nomadi kuchi, che piantano le loro tende nei declivi del passo, nelle parti più piane e accessibili. I kuchi rappresentano la più grande popolazione nomade di etnia pashto – il gruppo etnico dominante nella parte del paese che confina con il Pakistan. I talebani sono pashto, come buona parte dei miei colleghi – ma all’interno del gruppo etnico ci sono enormi differenze socio-culturali, e sotto-gruppi etnici con caratteristiche specifiche. I kuchi sono nomadi: passano l’inverno a sud, nelle piane di Kandahar o oltre il confine con il Pakistan, e l’estate tornano tra le montagne di Paktia, Paktika, Khost. Portano con sé le mandrie di capre o pecore, a volte di asini, e non è raro incontrare cammelli e dromedari attorno alle loro tende. C’è chi tra loro si è motorizzato, e trasporta persone e tende su qualche piccolo furgone colorato; ma molti di loro si muovono ancora a piedi, assieme alle bestie. Le loro tende sono essenziali, e sembrano quasi piatte: diversi teli, tesi, legati a piccoli paletti di legno e sospesi a venti centimetri dal terreno, per permettere all’aria di circolare, formano un trapezio che nel centro non supera i due metri di altezza.

Villaggi di castelli

La strada che scende dal passo Tera attraversa diversi villaggi, che a prima vista sembrano composti da tanti castelli di terra. Non sono costruzioni imponenti, ma sono fortemente suggestive: tutto attorno al perimetro rettangolare o quadrato si alzano mura di cinta alte fino a quattro metri, e a ogni angolo il muro non si chiude in forma retta, ma in piccole torri tonde o esagonali, con finestre e feritoie che guardano in ogni direzione. Ogni lato può essere lungo fino a cinquanta metri. I portoni principali, nelle costruzioni più antiche, sono sovrastati da un grande architrave in legno, e divisi al loro interno in tre porte più piccole, dalle quali spesso compaiono volti di bambini. Non sono castelli: sono le abitazioni tipiche di queste province. Al loro interno, passato il portone, si aprono grandi giardini di alberi da frutto, e si trovano diverse altre costruzioni, una per ogni nucleo famigliare. All’interno di abitazioni simili possono vivere trenta, quaranta, sessanta persone, tutte della stessa famiglia. I figli, una volta sposati, si trasferiscono dalla casa dei genitori a una adiacente, all’interno dello stesso muro di cinta. A volte queste lunghe mura sono costruite sul lambire della strada, e si alzano sia su un lato che sull’altro, dando l’impressione di attraversare un labirintico villaggio medievale.

Resti di una guerra (si, ma quale?)

Il nostro ufficio nella provincia di Paktia è a Gardez, la città principale, posta al centro di un’enorme valle piatta, ai cui lati sorgono montagne ben più alte del passo Tera. Gardez è a 2300 metri sul livello del mare. Gli ultimi due piani dell’ufficio stanno venendo ristrutturati, per fare spazio a quella che diventerà la guest-house per i colleghi internazionali di base a Gardez. L’ultimo piano è il sottotetto, e il tetto è di lamiera – non so quale piano ci sia per isolarlo, viste le temperature invernali. Da questo quarto piano, però, si può osservare buona parte della città, per quanto il panorama non sia particolarmente bello. Un collega apre una finestra e mi invita a guardare: a un centinaio di metri di distanza c’è un enorme parcheggio di carri armati. Saranno quasi trecento. Sono stati recuperati qualche anno fa in tutto il territorio della provincia, e spostati qui ad arrugginire – nessuno di loro è recuperabile. Sono carri armati dell’epoca sovietica, abbandonati o danneggiati qui durante le battaglie con i mujahidin negli anni 80’.